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Se fossi io il pascià, sareste impalati da tempo.
Dicembre 1921
Blasko camminava sul ponte respirando a pieni polmoni l’aria salmastra: era cosa rara per un addetto alle macchine riuscire a vedere la luce del sole. Quella mattina il cielo era coperto da una spessa coltre di nuvole e le prime gocce di pioggia annunciavano un imminente acquazzone.
«Si avvicina una tempesta, marinaio?» chiese in inglese un passeggero che sembrava avere rinunciato all’idea di scattare alcune foto alla donna che era con lui.
Blasko non aveva mai studiato le lingue, ma aveva molto orecchio: l’unica che conosceva, oltre al magiaro, era il tedesco. Aveva recitato qualche tempo nei teatri di Berlino, finita la guerra: l’ungherese riusciva a mandare a memoria l’intero copione e recitare poi la parte senza alcuna inflessione dialettale.
«Il tempo non promette nulla di buono», rispose Blasko in un inglese zoppicante.
«Il vostro accento mi fa pensare… Credo che voi e io proveniamo dalla stessa terra», disse il passeggero esprimendosi in lingua magiara.
«Sì, sono ungherese. Se mi volete scusare, il mio turno di riposo è terminato e devo ritornare nella sala macchine. Buona traversata, signore.»
Blasko scese nella cabina che divideva con altri tre marinai: i suoi compagni erano impegnati nei turni di macchina. Si chiuse la porta alle spalle, aprì il suo armadietto e tirò fuori uno zaino. L’antico cofanetto era nascosto sul fondo del sacco, sotto alcuni vestiti. Blasko fece scattare la piccola serratura: le gemme rifletterono le luci della cabina. Sollevò il doppiofondo e prese l’Anello dei Re. Si era riproposto di non attingere mai a quella favolosa ricchezza: l’avrebbe lasciata ai suoi eredi, se mai li avesse avuti. Blasko aveva saputo che Minhea Petru era vivo e temeva che lo stesse cercando. Per questo non si sarebbe fatto tentare dal tesoro in suo possesso. Doveva vivere nell’ombra il più possibile: se si fosse dato alla bella vita, o se solo avesse tentato di vendere una di quelle preziose gemme, avrebbe corso il rischio di farsi scoprire. Era fiero di essere riuscito a mantenere la sua promessa anche quando aveva dovuto affrontare periodi di grandi ristrettezze: per un attore alle prime armi, che lavora in un paese che ha appena perduto la guerra, la vita può essere molto difficile. Blasko era convinto di essere un grande attore: aveva interpretato molti ruoli, sia a teatro sia al cinema, lavorando negli studi appena approntati alla periferia di Berlino, ma in Europa non era riuscito a sfondare.
L’America, dove l’industria cinematografica era seconda soltanto a quella automobilistica, forse gli avrebbe aperto le porte del successo.
Blasko strinse tra le dita l’anello d’oro, convinto che l’antico talismano gli avrebbe infuso forza ed energia.
Aveva letto e riletto la storia scritta sul libriccino sottratto all’ufficiale nemico: in esso erano state annotate con precisione e dovizia di particolari le vicende di tutti i possessori del gioiello, che erano appartenuti alla nobile famiglia rumena, e vi si faceva spesso riferimento al potere di quell’oggetto magico.
L’ungherese guardò ancora una volta il sigillo prima di riporlo nel suo scrigno e seguì con i polpastrelli il rilievo della stella a sei punte sulla sommità della corona.
E sorrise pensando che, all’interno del cofanetto, c’erano gemme in grado di assicurare un’esistenza più che agiata a lui e alla sua progenie. Peccato che, al momento, si trovasse in una cabina spoglia, su un bastimento in rotta per l’America, con le mani sporche di carbone. Ma Blasko non aveva nessuna intenzione di lasciarsi scoraggiare: il suo autocontrollo, la forza di volontà e la capacità di arrangiarsi avrebbero costituito la solida base sulla quale si sarebbe guadagnato, ormai trentanovenne, il lasciapassare verso la celebrità.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
«Vuole che ci avventuriamo per quel sentiero più ripido, o preferisce un itinerario meno difficile, signor Breil?» chiese Sciarra indicando un viottolo che scendeva in direzione di Cortina.
«Quello che risulta più agevole per lei, generale», rispose Breil, sempre più meravigliato per la resistenza dell’anziano compagno di escursione.
«Non si deve stupire che io, nonostante i miei ottant’anni, sia ancora in grado di affrontare questi percorsi di montagna. Sono un alpino, anche se un po’… stagionato. Non se lo scordi. A ogni modo, passiamo per la via meno impegnativa, così avremo modo di continuare la nostra chiacchierata. Non la sto annoiando, vero?»
Dopo alcuni passi Sciarra riprese il suo racconto, mentre Breil tentava di prendere nota di ogni particolare, che poi avrebbe trascritto sui suoi appunti.
«Molte delle cose che le sto raccontando sono tratte dall’epistolario intercorso negli anni tra me e Minhea Petru…»
Minhea Petru posò la lettera sullo scrittoio. Dalla fine della guerra aveva dedicato tutto il suo tempo a dare la caccia all’ufficiale ungherese e adesso il suo amico Sciarra gli aveva scritto che Blasko era appena partito da Genova alla volta dell’America.
Recuperare l’anello era diventato per Minhea una specie di ossessione. Aveva ricostruito la vita di Blasko fino al momento della fine della guerra, quindi l’ex ufficiale ungherese del 43° reggimento di fanteria si era praticamente volatilizzato. Minhea sapeva che nello scrigno sottrattogli da Blasko nel castello di Sighisoara si trovava una fortuna in pietre preziose. «Il lasciapassare per la vita», come lo chiamavano dalla notte dei tempi nella sua famiglia. Ma temeva che l’ungherese avesse ormai dilapidato tutto. In realtà Minhea non sapeva nulla di preciso: Blasko doveva essersi mosso con molta accortezza se era riuscito a non cadere nelle maglie della rete che Petru aveva teso per lui. Sciarra gli aveva scritto che il loro uomo ora si faceva chiamare Arisztid Olt. L’amico italiano attendeva il ritorno della nave nel porto di Genova: se Béla Blasko faceva ancora parte dell’equipaggio, si sarebbe trovato a bordo.
Purtroppo però le ottimistiche previsioni di Sciarra si erano rivelate infondate: da un contatto radio avuto con il comandante, Alberto aveva saputo che l’aiuto macchinista ungherese era sbarcato non appena la nave aveva raggiunto New Orleans.
Stati Uniti d’America, gennaio 1922
Nel ventre della nave il beccheggio era quasi insopportabile e i macchinisti erano costretti a virtuosismi da equilibristi.
«Questa maledetta tempesta sta davvero cercando di portarci a fondo», aveva detto a Blasko un austriaco che divideva con lui il turno alla caldaia.
L’ungherese gli aveva risposto con un cenno della testa, mentre osservava preoccupato lo strumento che indicava il grado di inclinazione dello scafo: la nave stava oltrepassando la soglia di sicurezza. Anche il direttore di macchina rimase paralizzato nel vedere la biglia di legno rosso correre all’interno del tubo trasparente e raggiungere il punto prossimo al limite. Superatolo, il piroscafo si sarebbe piegato su un lato e forse capovolto.
Tutto intorno ogni oggetto che non fosse stato assicurato veniva sbalzato da una paratia all’altra con violenza.
«Buffa la vita», si disse Blasko, «morirò dentro a questa scatola di ferro, con nello zaino una fortuna in pietre preziose ancora intatta. Avrei potuto vivere come un nababbo, e invece sto per venire travolto dalle onde, dopo essermi inutilmente dato da fare in questo girone infernale.»
Alcuni marinai si erano messi a pregare: il tempo sembrava essersi fermato. La nave era rimasta sbandata a lungo, poi finalmente parve cominciare a raddrizzarsi, ma rimase ingovernabile.
Il rumore sordo dell’urto fu percepito nitidamente nella sala macchine. Il piroscafo ebbe un sussulto, quindi sfilò sugli scogli mentre un grido di dolore si levava dalle lamiere ferite.
La voce del comandante, qualche istante più tardi, gracchiò nell’interfono il comando di stato di preallarme per tutto il personale: soltanto cinque persone sarebbero rimaste alle macchine e Blasko non faceva parte di queste. Tutti i membri dell’equipaggio avrebbero dovuto presidiare il posto loro assegnato in caso di emergenza e sovrintendere alle eventuali operazioni di abbandono della nave.
La postazione lance numero sei, quella destinata alla supervisione di Blasko, si trovava al centro del sesto e più alto ponte del bastimento.
Ogni passeggero doveva raggiungere il punto di raccolta che gli era stato indicato al momento dell’imbarco.
Blasko si trovò di fronte il suo connazionale e la moglie che, tremando come foglie, affrontavano il freddo della notte, avvolti in preziose vestaglie di seta.
«Se dovremo abbandonare la nave fatemi imbarcare tra i primi nella scialuppa, assieme a mia moglie. Saprò come ricompensarvi», gli sibilò l’ungherese in un orecchio.
Blasko non gli rispose neppure, allontanandolo con una energica spinta. Doveva fare di tutto per mantenere la calma tra i viaggiatori: sapeva bene che il panico, una volta divampato, era tra le più ricorrenti cause di morte in caso di naufragio.
Per fortuna l’ordine di evacuare non venne impartito: il comandante e gli ufficiali, dopo aver visionato centimetro per centimetro il bastimento, avevano deciso che non c’erano pericoli imminenti. Le rocce affioranti in cui erano incappati erano state investite solo di striscio e non avevano aperto falle nello scafo.
La nave avrebbe potuto continuare la sua crociera verso l’America.
Fu il giorno prima dell’arrivo che il comandante mandò a chiamare Blasko.
«Voi siete stato convocato, aiuto macchinista Olt, perché un passeggero, vostro connazionale, ha sporto denuncia in merito a un comportamento inqualificabile da voi tenuto nel corso della recente emergenza.
«Per vostra fortuna, il vostro diretto superiore ha speso per voi parole di elogio», aggiunse il comandante indicando il direttore di macchina seduto accanto a sé. «Ho quindi deciso di non consegnarvi alle autorità italiane al nostro rientro, rientro che voi non effettuerete su questa nave, dal momento che sbarcherete non appena raggiungeremo il porto di New Orleans.»
Blasko non rispose: sarebbe stato inutile tentare di discolparsi, e inoltre lo sbarco rientrava nei suoi piani.
Blasko era sceso a terra confidando negli scarsi controlli che le autorità americane effettuavano sui membri dell’equipaggio delle navi da crociera. Una volta superati gli sbarramenti doganali, si era allontanato dal porto coi suoi pochi panni e il suo tesoro in spalla. A passi veloci si era avviato verso il nuovo mondo che lo stava aspettando, e intanto pensava a uno pseudonimo con il quale, ne era sicuro, avrebbe calcato i palcoscenici.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
Minhea Petru era seduto su un divano nel salotto della lussuosa casa abitata dai coniugi Sciarra. Il palazzo sorgeva nel quartiere di Carignano, una zona molto elegante della città poco sopra la foce del torrente Bisagno.
Il nobile rumeno aveva risposto immediatamente al suo ex superiore e aveva deciso di partire per l’America non appena sistemati i suoi affari. L’opportunità si era presentata quando ormai erano trascorsi quasi nove mesi da che Blasko era transitato per il porto ligure.
Nel frattempo Sciarra aveva cercato di attingere informazioni attraverso la compagnia marittima, ma tutti i membri dell’equipaggio della Re Vittorio avevano perso di vista Arisztid Olt, l’ungherese, appena questi era sbarcato in America.
In attesa di imbarcarsi da Genova i due amici e compagni d’armi avevano approfittato per trascorrere qualche giorno insieme: Petru era rimasto ospite di Alberto e Kimberly e il tempo era trascorso piacevolmente tra chiacchiere e ricordi, ma adesso era giunta la data della partenza.
«Non posso avere l’assoluta certezza che si trattasse di Blasko», stava dicendo Sciarra rivolto al suo ospite. «Non vorrei che, una volta in America, tu scoprissi che si trattava di un sosia e mi lanciassi improperi pensando al viaggio a vuoto che ti ho fatto intraprendere, Minhea.»
«È da tempo che voglio visitare quel paese, Alberto. Nella peggiore delle ipotesi la tua segnalazione avrà avuto il merito di avermi convinto a fare un viaggio che sognavo da sempre.»
Minhea Petru osservava il solerte addetto all’immigrazione con aria sconsolata.
«No, signore. Da quella nave non è sbarcato nessun ungherese che corrisponde al nome di Olt, né a quello di Blasko. Non ci risulta», gli rispose il funzionario di dogana, scorrendo un voluminoso registro scritto in bella calligrafia. «Gli unici ungheresi che sono sbarcati in territorio americano sono i coniugi Bàlaj, che risiedono qui a New Orleans. Per essere più precisi, solo l’uomo è ungherese e ha sposato una rumena.»
Petru annotò l’indirizzo della coppia e ringraziò l’impiegato per la sua gentile disponibilità.
Qualche ora più tardi stava verificando l’indirizzo di cui era entrato in possesso.
Il negozio di generi alimentari si trovava al piano terreno di una casa in stile vittoriano, situata in St. Charles Avenue, nel quartiere francese di New Orleans. Teofil Bàlaj accolse Petru con la distaccata superbia con cui gli ungheresi erano soliti trattare i confinanti rumeni.
Ma, non appena Minhea gli rivelò il motivo della sua visita, Bàlaj si illuminò: «Certo, mi ricordo bene di quel mio connazionale dai modi rudi e maleducati. L’ho anche denunciato al comandante per avermi strattonato nel corso di una situazione di emergenza. Ti ricordi, cara?» Teofil si era rivolto alla moglie, una petulante signora dai capelli tinti di biondo che si atteggiava ad americana, cercando di dimenticare che Zanka, un paesino sul lago Balaton, in Ungheria, aveva dato i natali al marito e che lei era nata in un povero quartiere di Bucarest.
«Sì, certo, Teofil. Poche sera fa, nel riguardare le istantanee che ci ha scattato il fotografo di bordo, abbiamo notato che quel losco figuro era rimasto immortalato sullo sfondo di una fotografia.»
«Potrei vederla?» chiese Minhea.
Qualche minuto più tardi si allontanava da casa Bàlaj con una nuova certezza riposta tra due fogli di carta velina: la pista che stava seguendo era quella giusta e il ritaglio di fotografia che aveva acquistato a caro prezzo dal commerciante ungherese ne era la prova.
Valacchia, 1431
Vladislav II si inginocchiò dinanzi all’imperatore del Sacro Romano Impero.
Sigismondo alzò la spada dall’elsa d’oro, a forma di drago. La luce, nella stanza segreta del castello di Norimberga, era fioca al punto di celare i volti della trentina di cavalieri presenti alla cerimonia. All’esterno imperversava una tormenta di neve: il mese di febbraio, appena cominciato, si annunciava gelido.
«Sei pronto, Vladislav di Valacchia, a lottare per respingere gli infedeli e per fare trionfare la cristianità?» chiese l’imperatore Sigismondo.
«Sono pronto, maestà», rispose il voivoda, chinando il capo in segno di rispetto. La voce di Vlad si levò sicura: «Giuro di servire la cristianità anche a costo della morte. Giuro che con tutte le mie forze ricaccerò gli infedeli negli inferi dai quali provengono, perché l’unico Dio, unico e misericordioso, trionfi. Giuro che sarò fedele al vincolo indissolubile che mi lega ai cavalieri del Drago».
La spada dell’imperatore si posò dapprima sulla spalla destra, quindi sulla sinistra.
«Ti nomino cavaliere, Vladislav di Valacchia. Che Dio sia con te.» Così dicendo Sigismondo consegnò al voivoda un anello con l’incisione di un drago alato.
Vlad lo inserì sul dito medio, accanto a un altro gioiello che portava all’indice: un antico anello di oro rosso che recava una stella a sei punte cesellata sulla corona.
La cerimonia terminò di lì a poco.
Più tardi, seduti dinanzi a una tavola imbandita, fu Sigismondo a parlare, indicando l’Anello dei Re. «Che cosa rappresenta quel simbolo, Vlad?»
«È lo stemma del Re Salomone: è un oggetto che nella mia famiglia si tramanda di padre in figlio.»
«Sembra molto antico. A ogni modo saprai a chi darlo, Vlad: mi risulta che tua moglie stia aspettando un bambino.»
«Vedo che la vita dei vostri fedeli sudditi vi sta a cuore, maestà. Sì, è vero: tra poco verrà al mondo il mio secondogenito.»
Dalle parole del voivoda s’intuiva che avrebbe riposto molte speranze su quel nuovo nato: il suo primogenito Mircea si avviava a diventare un rude combattente, ma poco interessato alle sottili arguzie della politica. Al secondogenito Vlad avrebbe dato il suo stesso nome e, anche se lo scettro del potere sarebbe stato raccolto, per diritto di nascita, da Mircea, Vlad aveva deciso che al suo secondo figlio avrebbe impartito un’educazione rigorosa e completa. Voleva che diventasse insuperabile nell’arte della diplomazia, anche se sapeva bene che molto difficilmente avrebbe infilato al dito l’Anello dei Re.
Quando Vlad II fece ritorno al castello di Sighisoara, venne festeggiato per giorni dai sudditi entusiasti.
Il motivo ufficiale dei festeggiamenti era la nomina di Vlad a principe di Valacchia. Il Cavalierato del Drago era un patto di fedeltà segreto tra il voivoda e Sigismondo di Lussemburgo, l’imperatore che da sempre aveva sostenuto il neoprincipe.
Vlad volle riunire all’interno del castello tutte le quattordici corporazioni che avevano contribuito alla sua costruzione: ognuna delle torri merlate riportava il nome di una confederazione di commercianti.
Sighisoara era un centro commerciale molto attivo e una via di congiunzione tra la Germania occidentale e Costantinopoli e tra le regioni baltiche e il resto dell’Europa. Buona parte dei suoi più ricchi abitanti era rappresentata da mercanti tedeschi, trasferitisi lì nel corso del tempo perché attirati dalla sua importante funzione commerciale.
Fu in quel 1431 che la principessa Cnejana, moglie di Vlad II, diede alla luce il bambino che portava in grembo.
La nomina di Vlad a principe aveva inevitabilmente provocato dissapori profondi: Alexandru Aldea, fratellastro del nuovo voivoda, era stato scalzato dal trono che occupava come reggente.
La nobile famiglia dei Basarab si schierò in parte con l’uno e in parte con l’altro dei pretendenti e ne nacque una lunga lotta segnata da una scia di sangue.
Furono necessari cinque anni perché quello che tutti chiamavano con un termine dialettale, Dracul, nome che poteva avere il duplice significato di drago oppure di diavolo, riuscisse ad avere la meglio sul fratellastro.
Per i primi cinque anni di vita il figlio del principe, chiamato Vlad III Dracula, venne educato e accudito senza che potesse mai uscire dal maniero di Sighisoara. Ma la storia di Dracula non si sarebbe esaurita tra le mura di un castello ai confini del ducato transilvano del Fargas. Sin dalla più tenera età Dracula dimostrò le doti di un condottiero senza paura: egli sarebbe divenuto uno spietato guardiano della Cristianità con cui gli invasori infedeli avrebbero dovuto fare i conti.
Con essi, però, Vlad II aveva stretto una strana alleanza, venendo meno al giuramento prestato all’Ordine del Drago: un incomprensibile patto legava il principe di Valacchia col sultano turco Murad.
Quando le armate del voivoda valacco, affiancate da quelle turche, avevano compiuto scorribande e saccheggi nella stessa Transilvania, la clemenza usata dal principe nei confronti dei prigionieri aveva insospettito i turchi: nessuno doveva essere risparmiato dai vincitori.
Dracul stava attraversando il ponte sul Danubio. Sulla sponda era convenuto quello che il voivoda avrebbe creduto fosse un comitato di accoglienza. Il sultano Murad aveva espresso la volontà di incontrarlo, assieme ad alcuni membri della sua famiglia.
Vlad III Dracula aveva appena otto anni; suo fratello minore, Radu, non aveva che pochi mesi. Entrambi erano al seguito del padre in quella visita di cortesia. Dracula cavalcava fiero.
Non appena Vlad raggiunse i turchi, questi lo circondarono e gli puntarono contro le spade e le picche.
«Che cosa state facendo?» chiese il voivoda.
«Eseguiamo gli ordini del nostro sultano», rispose il comandante del drappello. «E ti esortiamo a non opporre resistenza, Vlad di Valacchia.»
«Una vile trappola, io vi maledico.» Così dicendo Vlad spronò il cavallo, travolgendo il soldato che voleva disarmarlo.
«Ti conviene stare calmo», disse il comandante, indicando il giovane Dracula e il carro su cui si trovava Radu, circondato dai turchi, «se ti preme la vita dei tuoi figli.»
Vlad si inchinò al cospetto del sultano.
Murad ostentava i modi insinuanti delle genti d’Oriente quando hanno in mano il bandolo della trattativa.
«Io ti ho appoggiato in ogni tua spedizione militare. Perché mi hai riservato questo trattamento, Murad?»
«Non temere, mio fedele Vlad. Non ho nulla contro di te… avevo soltanto necessità di assicurarmi la tua… devozione.»
«Che cosa significa? Perché questa trappola?»
«I miei informatori mi hanno riferito che hai risparmiato gli abitanti di Sebes…»
«Mi sembrava inutile infierire contro di loro: erano ridotti allo stremo e la città era stata razziata.»
«Sai che questo non fa parte delle nostre abitudini: un nemico lasciato in vita resterà per sempre un uomo in armi contro di noi. Mi hanno detto che non hai nemmeno voluto fare schiavi.»
«Erano rimasti soltanto alcuni vecchi e dei feriti: quasi tutta la popolazione valida di Sebes, comprese le donne e i bambini, era perita in battaglia.»
«Non mi risulta che sia andata proprio così, mio buon Vlad. Ho anche appreso che tu fai parte di un ordine cavalleresco che si prefigge di sconfiggere i figli del Profeta ovunque essi si trovino. Non è vero?»
«No, Murad. Ti hanno riferito il falso», provò a mentire Vlad, ormai alle strette.
«Comunque, ho deciso: dato che sei un fedele servitore della nostra causa, dovresti essere felice che i tuoi figli più giovani vengano educati nella devozione del Corano e del Profeta.»
«Che cosa vuoi dire, Murad?»
«Voglio dire che il giovane Vlad Dracula e il piccolo Radu verranno con me… così da suggellare in maniera indissolubile il nostro patto.»
Il regime a cui Dracula e Radu furono sottoposti era simile alla prigionia: i due bambini erano liberi di scorrazzare ovunque, all’interno del palazzo di Murad a Gelibolu, sui Dardanelli, ma non potevano uscire senza permesso del sultano e senza essere accompagnati da guardie armate.
Dracula cresceva sano, forte e abile con le armi. Il suo carattere chiuso e fiero ne faceva un allievo non facile da addomesticare: spesso gli insegnanti si dichiaravano impotenti dinanzi alla difficoltà di comunicare con lui.
Dracula non avrebbe mai scordato che il mondo dorato intorno a sé era solo una prigione lussuosamente mascherata.
Radu si era invece mostrato ben più remissivo del fratello: sin dall’adolescenza si erano manifestate le sue inclinazioni poco virili. Tali tendenze incontravano l’incondizionato favore del sultano: pareva che Murad non fosse insensibile alle attenzioni dei membri del suo stesso sesso, specie se in tenera età.
Dracula si era quindi trovato a combattere da solo un mondo che disprezzava: questo lo aveva reso ribelle, violento e molto crudele.
A uno dei suoi insegnanti, che gli chiese perché avesse ucciso un piccolo uccello impalandolo sino a fare uscire dal becco la punta acuminata del paletto, Dracula rispose che si era annoiato di quella compagnia e aveva punito il passero con il metodo che usava Murad contro coloro che gli venivano a noia.
La sua spiegazione non era del tutto incoerente: quello era il mondo nel quale Dracula stava crescendo.
Fu così che il giovane si temprò e imparò quanto scarso fosse il valore della vita del singolo di fronte alla sopravvivenza di una nazione o di un’intera civiltà. Negli anni della sua educazione, Dracula apprese a diffidare di chiunque e a conoscere e apprezzare il piacere della più feroce vendetta.
Agosto 2004
L’elicottero dell’ONU atterrò al centro del campo di calcio quando la partita era terminata da una decina di minuti. Gli annunci agli altoparlanti si erano ripetuti senza sosta, invitando il pubblico a rimanere al proprio posto per questioni di sicurezza. Gli spettatori, con l’eccezione di alcuni che avevano vibratamente protestato, erano rimasti seduti sulle tribune.
Il passaparola nel catino di uno stadio si diffonde sempre in maniera incontrollabile. La notizia del pericolo di un attentato era rimbalzata sulle prime bocche quasi in sordina, poi si era diffusa ovunque: non c’erano state scene di panico, ma l’apprensione che aleggiava palpabile aveva prodotto un irreale silenzio di attesa sulle gradinate.
La donna scese dall’elicottero mentre le pale erano ancora in moto. Era vestita come una delle tante turiste che si attardavano davanti ai negozi di souvenir dell’isola. Dietro di lei veniva un corpulento militare americano che indossava la divisa da sottufficiale dei marine.
«Colonnello Blasey», disse Cassandra tendendo la mano all’ufficiale. «Mi chiamo Cassandra Ziegler e sono un dirigente del Federal Bureau of Investigation. Credo che il dottor Oswald Breil le potrà illustrare la drammatica situazione nella quale ci troviamo.»
Oswald non si perse in convenevoli, parlò in modo conciso e inequivocabile.
«Che cosa avete già ispezionato, dottor Breil?» chiese il colonnello dei marine.
«Nelle ultime venti ore, praticamente ogni angolo dello stadio.»
«Esistono tunnel sotterranei, percorsi fognari, tombini e simili?» chiese Deidra.
«C’è un tunnel di servizio accessibile, ed è già stato esaminato palmo a palmo.»
Oswald guardò l’orologio: aveva ruotato la ghiera del Rolex Submariner in modo da far combaciare la tacca con l’ora indicata dal Giusto per l’esplosione.
La partita era incominciata alle 16.00 e terminata alle 17.50.
Il Giusto aveva chiamato alle 16.15. L’ordigno avrebbe dovuto detonare esattamente tre ore dopo.
Avevano a disposizione poco meno di un’ora e dieci minuti per individuare la bomba e renderla inoffensiva.
Nel frattempo il pubblico aveva cominciato a rumoreggiare. Gli altoparlanti diffusero immediati appelli alla calma.
«Faccia in modo che le squadre scendano nuovamente in campo, generale Sukru!» disse Breil rivolto al comandante dell’intelligence cipriota.
Se esisteva un modo per calmare i tifosi, era che le squadre riprendessero il gioco. In una delle curve gli animi si stavano scaldando e alcuni facinorosi erano intenti a scardinare un cancello che separava il campo dalle gradinate.
Per placarli fu necessario fare intervenire gli agenti addetti al servizio d’ordine. Ancora una volta l’altoparlante rassicurò il pubblico, e diffuse la notizia che le due squadre sarebbero ricomparse in campo entro pochi minuti per disputare una partita amichevole.
Breil stava osservando la scena con attenzione. Le parole del versetto contenuto nel messaggio del Giusto gli tornarono alla mente: «I miscredenti sono come bestiame di fronte al quale si urla, ma che non ode che un indistinto richiamo. Sordi, muti, ciechi, non comprendono nulla».
Gli occhi del piccolo uomo si spostarono su uno dei quattro piloni posti agli angoli del campo, sulla cui sommità si trovavano i riflettori per l’illuminazione. Lo sguardo si fermò a circa un terzo del palo nel punto dove erano montati gli altoparlanti.
«Forse ci sono!» esclamò Oswald rivolto all’ufficiale dei marine.
Oswald e gli uomini che lo seguivano ci misero più del previsto a inerpicarsi lungo la scaletta che serviva per la manutenzione degli impianti.
Le quattro casse acustiche di colore nero, sovrapposte due a due, erano circondate da una piazzola per agevolare il lavoro dei tecnici.
Oswald, aiutato dal sergente Kingston e dai militari di Sukru, aveva rimosso il materiale fonoassorbente disposto sul fronte di una delle quattro casse.
Fu quando tolsero il frontale della seconda cassa che rinvennero l’ordigno.
Si trattava di un timer dal quale uscivano dei fili di diverso colore, che si collegavano alla bomba vera e propria. Uno dei woofer era stato sostituito con una miscela di chiodi, viti e bulloni: se la bomba fosse esplosa avrebbe causato ferite gravissime al pubblico assiepato proprio davanti al pilone.
«Pensa di riuscirci, colonnello?» chiese Oswald rivolto alla Blasey.
«Non mi sembra un sistema eccessivamente sofisticato: bisogna cercare di neutralizzare i detonatori», rispose Deidra che già stava armeggiando con i fili. «L’unico problema è il tempo. Quanto ci rimane, Breil?»
«Un’ora e quattro minuti», rispose Oswald.
«Se, come credo, l’attentatore ha montato un ordigno su ogni pilone, significa che abbiamo poco più di quindici minuti per disinnescare ciascuna bomba. Faccia togliere il fronte a ognuna delle casse: in questo modo riusciremo a guadagnare un pugno di minuti.»
Le dita di Deidra maneggiavano con sicurezza il cacciavite, ma il sudore che le imperlava la fronte non aveva niente a che vedere con il caldo.
Le squadre nel frattempo erano tornate a giocare. Il pubblico era composto: dopo gli isolati casi di intemperanza, ora sembrava che la partita avesse di nuovo catturato l’attenzione dei tifosi. Nessuno prestava attenzione a coloro che stavano armeggiando sui piloni intorno all’impianto audio.
Deidra strinse nel morso della piccola cesoia il filo di colore rosso. Alzò gli occhi al cielo e recise il cavo di netto.
Un sospiro di sollievo uscì dalle labbra della donna, mentre osservava le lancette dell’orologio. La prima e più difficile operazione di disinnesco aveva richiesto ventisei minuti, nel corso dei quali aveva però reso inoffensiva anche la trappola elettronica che il Giusto aveva teso: chiunque avesse cercato di manipolare il sistema di innesco senza prima aver neutralizzato quel circuito sarebbe saltato in aria.
Dovevano fare in fretta, molto in fretta, se volevano evitare una strage, pensò Breil, mentre si avviava assieme a Deidra e al sergente Kingston verso il secondo dei quattro piloni minati.
Nel laboratorio di Roma, Sara Terracini non riusciva a staccarsi da entrambi i documenti che Oswald le aveva fatto pervenire. Passava dalla decrittazione del quaderno dove Asher Breil aveva raccolto gli appunti all’agenda personale del padre di Oswald, quasi senza soluzione di continuità.
Sara aveva momentaneamente sospeso gran parte del suo lavoro per potersi dedicare anima e corpo alle vicende che Asher aveva ricostruito con cura prima di rimanere vittima di un incidente automobilistico. Da quando Oswald le aveva affidato questo nuovo compito, la ricercatrice aveva dormito pochissimo: cosa che le capitava ogni volta che lavorava con lui.
All’inizio aveva giustificato il suo accanimento con la necessità di liberarsi al più presto dell’impegno affidatogli da Breil, ma alla fine era stata lei stessa ad ammettere che non era quello il motivo. Sara Terracini aveva dovuto confessare che la curiosità di conoscere tutta la storia riguardante l’antico Anello di Re Salomone la divorava.
«Forza, Sara! Avanti, avanti!»
Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.
Sapevo molte più cose di quanto la gente poteva supporre. In questo Nicolae Ceausescu aveva ragione.
Pur essendone certo, non avrei mai potuto provare con documenti alla mano che i conti cifrati svizzeri appartenessero alla famiglia del conducator: i miei contatti erano sempre rappresentati da intermediari e prestanome il cui silenzio era stato comprato a caro prezzo e che sarebbero stati sacrificati nel caso in cui qualche curioso si fosse messo a indagare. Ceausescu era scaltro: sapeva bene quanto la sua figura e il suo ruolo fossero necessari per i delicati equilibri del mondo. Sino a che io fossi stato benevolo con lui e con il suo governo, egli sarebbe stato altrettanto benevolo con me e con il governo del mio paese. Ero certo che la mia copertura gli serviva per i suoi affari privati. Non so sino a che punto lui si rendesse conto in che modo, oltre all’appoggio pubblico nei confronti d’Israele, lui era utile a me.
In tutto ciò, colei che sempre più sembrava voler rompere l’equilibrio dei nostri mutui interessi era la moglie, Elena Petrescu. Ero convinto che la first lady tramasse per allontanarmi dal marito.
Se mai un giorno leggerai questo mio diario, che spero di consegnarti al compimento della tua maggiore età, figlio mio, voglio che tu sappia che le mie convinzioni non sono sorte in me ora, mentre sto scrivendo e mentre i miei rapporti con i Ceausescu stanno attraversando un momento difficile. Sono da sempre sicuro che la diffidenza di Elena Petrescu sia stata il solo motivo per cui io mi sono venuto a trovare nella sgradevole situazione in cui sono adesso.
Sono passati pochi mesi da quando tua madre mi ha raggiunto a Bucarest. Maledico il giorno in cui ho insistito perché lo facesse: sarebbe stato meglio se fosse rimasta a casa in Israele…
Mancava ormai una manciata di secondi allo scadere del tempo, quando Deidra Blasey recise il cavo dell’ultimo ordigno. Il sudore le rigava le guance simile a un fiume di lacrime. Un grido di gioia uscì dalle bocche dei presenti, ma fu coperto dall’urlo dei tifosi che protestavano per un’azione fallosa non rilevata dall’arbitro.
«Ho proprio bisogno di una rinfrescata», disse Deidra, allontanandosi verso le più vicine toilette.
«Speriamo che non ce ne siano altri. Ma lo sapremo presto», disse Breil dando via al conto alla rovescia.
«Venti… quindici… dieci… cinque… quattro… tre… due… uno…»
«Il signor Breil è pregato di contattare urgentemente il centralino», gracchiarono gli altoparlanti.
«Deve festeggiare la sua prima vittoria nei miei confronti, Breil», disse la voce metallica e contraffatta.
«Lei è un assassino spietato, Giusto. Si immagina che cosa sarebbe successo se alcuni chilogrammi di T4 fossero saltati in aria con tutto il corredo di ferramenta…»
«In totale dieci chilogrammi di esplosivo e quasi un quintale tra viti, chiodi e bulloni d’acciaio. Le assicuro che non è stata una passeggiata portare tutta quella roba sui tralicci. Peccato. Lei mi ha negato un ottimo spettacolo. Però questa nostra sfida ha il potere di eccitarmi enormemente. Alla prossima, Breil.»
Sono molti gli aneddoti che tendono a offuscare la fama della Central Intelligence Agency. Uno di questi vuole che l’agenzia statunitense sia l’ultima a venire a conoscenza dei fatti di interesse nazionale.
Non era stato così per quello che era accaduto nello stadio cipriota.
Glakas aveva preavvertito i suoi uomini sull’isola non appena ricevuta la telefonata del Giusto. Naturalmente aveva tenuto nascosto il suo contatto e quanto lui fosse invischiato nella faccenda. Lo scopo di quella telefonata sarebbe stato, ad attentato avvenuto, di dimostrare ai superiori che lui era sulle tracce del terrorista, ma che, purtroppo, era arrivato tardi.
Non appena gli erano stati segnalati i movimenti di Cassandra Ziegler e Oswald Breil, aveva inviato un paio di uomini di rinforzo allo scarso organico presente sull’isola.
Il dirigente della CIA aveva seguito in diretta il disinnesco degli ordigni all’interno del 20 Temmuz Stadyum di Kyrenia, collegato via cellulare con uno dei suoi che non aveva mai perso di vista la Ziegler.
Il telefono privato di Glakas prese a suonare nello stesso istante in cui Oswald Breil, a migliaia di chilometri di distanza, interrompeva la chiamata con il terrorista.
«Sono convinto che non ti sei perso la scena, Glakas», disse la solita voce metallica.
«I miei uomini mi hanno tenuto al corrente. Questa volta hai fallito, Giusto.»
«No, ho solamente perso la battaglia che avevo messo in conto di perdere per vincere la guerra. E tu sai di che guerra sto parlando, vero?»
La voce assunse un tono quasi isterico, e ciò non aveva nulla a che vedere con il marchingegno elettronico che l’alterava: il Giusto sembrava aver perso la sua proverbiale calma.
«No, non so di che guerra parli.»
«Vedrai, Glakas, vedrai. Anche loro avranno paura a camminare per la strada, avranno paura a mandare a scuola i loro figli, avranno paura a vivere. Anche loro come noi, Glakas.»
Glakas assunse un’aria pensosa non appena il Giusto interruppe la conversazione. Vincere quella guerra interessava anche a lui. Ma l’avrebbe fatto senza il Giusto, che diventava una presenza sempre più scomoda e pericolosa.
Era arrivato il momento di rendere inoffensivo il serial bomber.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
«Ricordo ancora il contenuto della lettera con cui Minhea mi comunicò la sua decisione di trattenersi in America per qualche tempo, dopo che già aveva fatto la spola diverse volte tra l’Europa e il nuovo continente alla vana ricerca dell’Anello dei Re. Qualche cosa mi diceva che difficilmente sarebbe ritornato in patria. Pensi, Asher, abbiamo combattuto assieme su quelle vette», aveva detto l’anziano generale Sciarra, indicando le montagne che circondavano Cortina. Quindi si era messo a declamare quasi a memoria il testo della lettera.
«Nessuna cosa, Alberto caro, mi lega più al mio paese, se non il dovere che ho nei confronti di un impegno che ho giurato di rispettare, così come hanno fatto, prima di me, i miei avi: avere cura dell’Anello dei Re e conservarlo anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita. Io purtroppo ho disatteso al giuramento. E il mio compito, ora, è quello di recuperare l’antico talismano dei principi di Valacchia. Sono convinto che il tenente Blasko — o come diavolo si farà chiamare lui adesso — non ha ancora lasciato gli Stati Uniti. Devo riuscire a scovare il suo nascondiglio. Fraternamente ti abbraccio. New York, 1925.»
Stati Uniti d’America, 1921-1925
Béla Blasko non si nascondeva affatto, anzi aveva solamente voglia di «apparire». Aveva cambiato ancora una volta nome, ma per un semplice gioco delle circostanze…
«Blasto?» gli aveva chiesto l’agente dell’Immigration Office.
«Blasko!» aveva ripetuto per l’ennesima volta l’ungherese.
«E come si scrive Béla Blasko?» Non che fosse duro di comprendonio, ma l’America non voleva che la forza lavoro rappresentata dagli immigrati rimanesse ancorata alle sue antiche origini: il nome era parte delle radici che l’immigrato avrebbe dovuto recidere per poter diventare un vero americano.
Chi si apprestava a calcare il suolo degli Stati Uniti doveva essere sano di costituzione, non presentare gibbosità o mutilazioni e non mostrare altre deformazioni scheletriche. E l’ungherese soddisfaceva questi requisiti. Poco, se non nulla, importava al paese come aveva dichiarato di chiamarsi l’ennesimo clandestino senza passaporto che veniva accolto sul suolo americano.
«Come si scrive Blasko?» chiese ancora l’agente.
«Scriva Lugosi, Béla Lugosi», disse l’ungherese tracciando le lettere sul piano del polveroso tavolo nell’ufficio immigrazione. Quel nome sarebbe stato il suo tributo alla città di Lugos, in Romania, che lo aveva visto nascere nell’ottobre del 1882.
Erano trascorsi alcuni anni da quel giorno. Béla ricordava ancora quando, seduto in un tram affollato, aveva oltrepassato la periferia di Los Angeles ed era entrato in quello che aveva sempre immaginato come lo scenario di una fiaba.
La città, e in particolar modo il quartiere di Hollywood, aveva fatto molta strada da quando i nativi cahuenga e cherokee abitavano le valli e le praterie della regione. La popolazione era cresciuta in maniera esponenziale e lì aveva sede una tra le più ricche industrie del territorio americano, l’industria dove i sogni di un mediocre attore europeo avrebbero potuto realizzarsi.
Béla Blasko-Lugosi percorreva ogni mattina la Wilcox Avenue, intitolata ai primi abitanti di razza bianca della zona, per raggiungere l’Hollywood Hotel.
Nelle sue continue passeggiate in cerca di una scrittura, transitava dinanzi alle ville delle celebrità del grande schermo. Aveva ormai imparato i nomi delle star e dei magnati del cinema che vi abitavano protetti dagli invalicabili muri di cinta: Mary Pickford, Cecil DeMille, Louis Mayer, Jackie Coogan, Rodolfo Valentino, Dolores del Rio, Wallace Reid.
«Prima o poi potrò permettermi anche io una villa così», si ripeteva Béla Lugosi, entrando negli uffici del Central Casting Office.
Il Casting Office era una sorta di grande emporio dove un produttore, un costumista o un regista potevano approvvigionarsi di comparse e caratteristi, animali ammaestrati e musicisti, attori sull’onda del declino e giovani talenti. Insomma, ogni persona, animale o oggetto in grado di calcare la scena era schedata nello sconfinato archivio del Central Casting Office.
Anche Lugosi si era messo in lista appena arrivato a Hollywood, nel 1923. Poco dopo era arrivata la prima piccola parte in un film realizzato con l’aiuto finanziario delle forze armate statunitensi. Erano seguite una serie di scritture; per lo più si trattava di ruoli da comparsa che però gli davano da vivere in maniera dignitosa.
Tra alti e bassi Béla Lugosi era andato avanti per quattro anni, sino a che non si era presentata l’occasione che gli avrebbe cambiato radicalmente la vita.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
«Buonasera, signor principe», aveva detto il concierge dell’hotel Plaza di New York chinando il capo in segno di rispetto. Minhea Petru aveva preso la chiave con la mano percorsa da un leggero tremito, che aveva cercato di nascondere.
La stanza da lui occupata era sempre la stessa ormai da qualche anno. Gli unici periodi nei quali il nobile rumeno non era annoverato tra gli ospiti fissi del lussuoso hotel corrispondevano ai suoi sempre più rari ritorni in Europa. Ormai Minhea faceva parte delle leggende del Plaza, di quel sommesso mormorio che nasce dall’accumularsi di piccole indiscrezioni da parte dell’abbottonato personale. C’era chi diceva che Petru fosse alla ricerca di un tesoro di famiglia che gli era stato sottratto; chi sosteneva che avesse abbandonato il vecchio continente per dimenticare un amore non corrisposto. L’unica cosa su cui tutti si trovavano d’accordo era che il principe da alcuni anni aveva cominciato a bere.
Quel tenore di vita non influiva sulle sue finanze: le cospicue rendite di cui disponeva non risentivano in alcun modo delle spese sostenute per vivere a New York.
Minhea salì nella suite numero 799, all’ottavo piano del palazzo la cui elegante architettura si rifaceva a quella dei castelli francesi.
La vista su New York era straordinaria. Sotto di lui, all’angolo tra Fifth Avenue e la Cinquantanovesima, il traffico di pedoni, auto e mezzi pubblici scorreva senza sosta. Forse, tra quella gente indaffarata, camminava anche il motivo della sua ossessione… la sua ossessione.
Minhea allungò una mano sotto il letto e ne estrasse una bottiglia di vetro chiaro piena a metà di una bevanda dal colore paglierino.
Il diciottesimo emendamento alla costituzione degli Stati Uniti era in vigore dal 1919 e vietava la diffusione, la fabbricazione, la vendita e il trasporto dei liquori che presentavano più dello 0,5 per cento di alcol.
Minhea benedisse il giovane cameriere italiano del Plaza e le sue amicizie con i contrabbandieri di whisky.
La bevanda scese lungo l’esofago provocandogli un piacevole bruciore. Ancora un sorso, ancora uno e la mente si annebbiò: i contorni dell’ossessione si fecero meno distinti, le ferite meno dolorose.
Petru aveva incominciato a bere circa due anni prima: aveva cercato rifugio nell’alcol nel tentativo di attenuare il senso di frustrazione per l’insuccesso della sua ricerca di Blasko e dell’Anello dei Re.
Minhea guardò ancora alla finestra, in direzione del Central Park. Fece appello a quanto rimaneva della sua lucidità e sedette allo scrittoio: l’amico Alberto Sciarra non avrebbe mai dovuto venire a conoscenza della sua debolezza.
Stati Uniti d’America, 1927
Molto lontano da New York, ma sempre in territorio statunitense, la persona che Minhea Petru stava cercando si apprestava a compiere un rito a cui non si dedicava più da tempo.
Nella stanza occupata da Béla Blasko, all’Hollywood Hotel, c’era una cassaforte murata nella parete dinanzi al letto. Al suo interno era riposto il cofanetto antico. Lugosi era stanco, aveva appena terminato una lunga e tediosa apparizione da caratterista in un film in costume. Aveva preso l’Anello dei Re dal portagioie, lo aveva infilato all’indice e la mente era corsa ai sogni di gloria che, dopo quasi sei anni dal suo arrivo a Los Angeles, andavano assumendo l’aspetto di illusioni.
Il trillo del telefono era risuonato tra le mura confortevoli, anche se modeste, dell’Hollywood Hotel.
Poco dopo il portiere bussava alla porta.
«Signor Lugosi», aveva detto oltre l’uscio chiuso, «ha telefonato il Central Casting Office, chiede se domattina può essere da loro molto presto. Hanno un ruolo importante da proporle.»
Al mattino Lugosi si era svegliato di buon’ora e si era recato all’appuntamento.
Con una certa apprensione, per lui che ancora non parlava alla perfezione l’inglese, aveva realizzato che la sua parte non sarebbe stata quella di recitare in una pellicola cinematografica muta, bensì sul palcoscenico di un teatro con tanto di monologhi nel corso dei quali sarebbe stato impossibile ripetere la scena.
Lugosi aveva accettato: si trattava del primo incarico importante che gli veniva offerto e il personaggio che avrebbe dovuto interpretare lo esaltava.
Sarebbe stato Dracula, nella riduzione teatrale di Deane tratta dall’omonimo romanzo di Bram Stoker.
Egrigoz, Asia Minore, 1447
Il sultano Murad aveva convocato Dracula e suo fratello Radu nella stanza del trono. I due ragazzi avevano rispettivamente sedici e nove anni.
«Dovete essere forti», aveva detto Murad dopo averli fatti sedere sui cuscini ricamati. «Purtroppo ho in serbo per voi una brutta notizia. Vostro padre Vlad Dracul è rimasto vittima di una congiura. La stessa sorte è toccata a vostro fratello Mircea.»
Radu, essendo prigioniero del sultano dall’età di pochi mesi, non aveva praticamente conosciuto i genitori e il venire a sapere di quella morte lo lasciò piuttosto indifferente. Vlad, invece, sentì il mondo crollargli addosso: il suo sogno ricorrente, quello di vedere il padre che lo liberava dalla prigionia, sfumava per sempre. La speranza che per una decina d’anni aveva alimentato ogni suo pensiero naufragava in un mare tempestoso e pieno di incertezze. Che cosa ne sarebbe stato di loro? I turchi li avrebbero uccisi?
L’unica soluzione, a quel punto, pareva essere la fuga.
Murad era adagiato tra le braccia di una delle sue innumerevoli concubine. Lo strumento che gli aveva consentito di tenere sotto controllo la popolazione dell’Est europeo gli era stato sottratto: Vlad II Dracul era stato un fedele alleato e aveva contribuito alla realizzazione di buona parte dei piani del sultano nell’Europa orientale. Ma la fedeltà del principe valacco ai turchi aveva provocato odi e rancori, sfociati nella congiura che aveva messo fine alla vita di Dracul nei pressi di un antico monastero, nelle paludi di Balteni.
A poco erano importate agli ex alleati cristiani le motivazioni che aveva addotto Vlad II a sua difesa: due dei suoi figli in ostaggio presso il sultano non avevano costituito un motivo sufficiente per salvargli la vita. Invano il principe aveva detto agli aguzzini che la pena per la disobbedienza al sultano sarebbe stata la decapitazione di Dracula e di Radu. L’ordine di sbarazzarsi dello scomodo voivoda di Valacchia proveniva dall’alto. Era stato il principe ungherese János Hunyadi a ordire la trappola in cui Dracul era caduto e aveva altresì incoraggiato i nobili di Tirgoviste a eliminare anche il figlio maggiore, il valoroso Mircea.
In questa maniera il principato ribelle sarebbe tornato sotto l’ala protettrice ungherese.
Murad non era un uomo impulsivo, voleva valutare, conoscere, capire per avere saldamente in pugno la situazione. Aveva esaminato a fondo la questione, quando chiamò uno dei suoi comandanti.
«Liberate Dracula», disse il sultano, con un tono che non ammetteva repliche. «Agevolate il suo rientro in Transilvania e fate sì che abbia tutto l’aiuto necessario per detronizzare il principe fantoccio della dinastia Danesti che Hunyadi ha voluto mettere sul trono della Valacchia.»
Mentre Vladislav Danesti era impegnato a combattere le orde musulmane a sud del Danubio, gli giunse la notizia che il giovanissimo Dracula si era insediato sul trono con un’azione fulminea, il cui successo era stato determinato dall’appoggio di un folto contingente di turchi al suo servizio.
La permanenza di Dracula a palazzo durò però due soli mesi: rientrato in forze, Danesti costrinse Vlad Dracula a fuggire presso un cugino nella Moldavia settentrionale.
Per rientrare in possesso del trono, Danesti era stato costretto a un repentino cambiamento di fronte: il fedele servitore di Hunyadi si era schierato contro il suo re e aveva ordito congiure nei confronti degli ungheresi, spalleggiato dai turchi.
Vlad Danesti non era un grande stratega: alcune delle sue campagne militari si erano tradotte in sonore disfatte, ma era capace di alleanze e tradimenti improvvisi, se solo questi avessero fatto comodo ai suoi interessi.
Dracula e il cugino Stephen avevano appena terminato le lezioni di lettura e scrittura con i monaci. Sulla città di Suceava, sede del principato di Moldavia, era scesa una fitta coltre di neve.
«Sono solo contro tutti, cugino mio», disse Dracula guardando Stephen con i suoi occhi neri e penetranti.
«Non dire così, Vlad. La nostra casa è la tua casa. Mio padre Bogdan ti vuole bene come a un figlio.»
«Lo so bene. Ed è per questo motivo che mi spiace di non riuscire a comportarmi come un figlio o come un fratello.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Il corpo di mio padre e quello di Mircea reclamano vendetta. E io vivo tra le mura sicure del vostro palazzo.»
Ma mentre questa conversazione aveva luogo, un gruppo di cavalieri armati fece irruzione all’interno della corte. Li comandava Petru Aron, acerrimo rivale del principe di Moldavia.
Il padre di Stephen, il principe Bogdan, fu orrendamente trucidato. Dracula riuscì a mettersi in salvo, ritrovandosi ancora una volta solo e in balia di un destino di cui non riusciva a essere l’artefice.
Ma la sorte questa volta fu benevola col principe: János Hunyadi, impensierito dal tradimento di Danesti, decise di riporre in Vlad Dracula le sue speranze. Avrebbe saputo indirizzare quel giovane virgulto verso la luce del sole.
Agosto 2004
Sara Terracini si morse il labbro inferiore. Era sempre più coinvolta dai risvolti di quella vicenda. Doveva fare presto: il suo amico si era appena fatto vivo con un messaggio di posta elettronica e sembrava ansioso di conoscere l’intera storia. Represse un moto di stizza: nessun altro si permetteva di farle pressione in quel modo. Ma era altrettanto vero che nessun altro era in grado di trascinarla con tanto entusiasmo nelle sue avventure.
Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.
… già, tua madre. Voglio che tu mi creda, Oswald: non avevo mai avuto occhi per nessun’altra donna. Aliah era ed è per me la più bella e la migliore. Eppure, quando poco tempo fa mi sono trovato davanti quella donna, ti confesso che la sua bellezza è stata in grado di far vacillare ogni mia convinzione.
«Molto lieta, dottor Breil», aveva detto, tendendomi la mano con un gesto amichevole e sensuale allo stesso tempo. Parlava un perfetto inglese, o meglio un perfetto americano con l’accento del Sud.
L’avevo invitata a sedersi, inebriato dal suo profumo.
Lei aveva accavallato le gambe lunghe e mi osservava con gli occhi verdi come il mare.
«Mi hanno detto di rivolgermi a lei per effettuare un’operazione bancaria estera.»
«Lei conosce certamente le restrizioni di questo paese: le operazioni estere sono consentite soltanto ai vari ministeri e dietro presentazione di un giustificati…»
«Proprio del giustificativo le vorrei parlare», disse la donna, estraendo dalla borsetta un foglio. «Credo lei riconosca la firma.»
L’ordine di spostare la somma di cinquecentomila dollari americani da un conto riconducibile a Nicolae Ceausescu su un altro conto cifrato, a me sconosciuto, recava in calce la firma del conducator. Era la prima volta che Ceausescu si esponeva in prima persona in quel genere di operazioni.
«Ogni suo desiderio è per me un ordine, signora.»
«Davvero?» I suoi occhi erano capaci di mettere a repentaglio ogni mia certezza.
Dopo quel giorno l’avevo rivista molte volte e non nego di aver perso la testa per lei. Ci incontravamo in un appartamento all’ultimo piano in strada Dobrescu, una via centrale di Bucarest. Facevamo l’amore e poi tornavamo ciascuno alle rispettive occupazioni. Ma ti assicuro che non ho fatto mai mancare nulla a tua madre. Nemmeno l’affetto.
Jenica Mantu, così si chiamava, mi aveva detto di avere sangue ungherese da parte di padre, ma sua madre era rumena. I suoi si erano trasferiti negli Stati Uniti, dove lei era cresciuta. Il febbrile ritmo di vita americano non le era però mai piaciuto e così aveva deciso di prendersi un periodo di riflessione nel paese che aveva da sempre nel cuore: la Romania. Non le avevo mai chiesto apertamente quali fossero i rapporti che la legavano a Ceausescu, ma non mi ero scordato l’ingente bonifico che avevo effettuato dietro ordine espresso del conducator.
Sapevo bene che una donna come Jenica Mantu corrispondeva perfettamente all’immagine dell’agente segreto. E sapevo che allora la Securitate rumena era intenta a dispiegare ovunque i suoi pericolosi tentacoli.
Un giorno si stava rivestendo. Si era alzata dal letto ed era andata in bagno. La sua borsetta era posata sulla sedia.
Non fu la pistola automatica che rinvenni nella borsa a mettermi in allarme, ma un oggetto raro e prezioso: una spilla raffigurante un drago alato. Il simbolo dell’appartenenza all’antico Ordine del Drago appariva fuori posto nella borsetta di una donna.
«Non abbiamo vinto che una battaglia, signori», aveva detto Oswald ai suoi compagni di viaggio, mentre l’Executive dell’FBI stava riportandoli in territorio americano.
Deidra Blasey aveva accettato di buon grado il passaggio offertole, dato che le sue lezioni presso la forza di pace ONU di stanza a Cipro erano terminate.
Anche il sergente Kingston si era unito al gruppo.
Nel corso del viaggio, Oswald aveva aperto il computer portatile e attivato la connessione satellitare.
Avrebbe letto in un secondo tempo la pagina inviatagli da Sara: il viaggio verso gli Stati Uniti era ancora lungo. Aprì la mail che gli aveva spedito il fedele capitano Bernstein: Oswald sapeva che il responsabile della Sezione 8200, l’efficiente apparato archivistico e tecnologico del Mossad, non era solito scrivere messaggi a meno che non fosse più che necessario e, quando lo faceva, era molto… telegrafico.
Breil attese che i programmi segreti e inviolabili del suo computer decifrassero la missiva di Bernstein. Quindi la lesse un paio di volte, incredulo.
‹SALVE, MAGGIORE BREIL. COME VANNO GLI SVILUPPI DELLA SUA VICENDA PERSONALE? SPERO BENE. NON CREDA CHE LE SUE FACCENDE PRIVATE NON DESTINO INTERESSE. ANCHE LA COLONNELLO BORS MI CHIAMA PER SAPERE SE SONO RIMASTO SODDISFATTO DEL LAVORO. CREDO NON CAPISCA IL MOTIVO PER CUI IL MOSSAD SI INTERESSI, OGGI, A QUEGLI APPUNTI. NATURALMENTE HO OMESSO DI DIRE CHE QUELLE VICENDE INTERESSANO LEI DIRETTAMENTE, MA SONO CONVINTO CHE L’INTERA STORIA ABBIA POCHI SEGRETI PER L’EX UFFICIALE DELLA SECURITATE.
SAPENDOLA IMPEGNATA IN MISSIONE A CIPRO HO ANCHE LAVORATO SULL’ELENCO DI SOSPETTABILI COMPILATO DALL’FBI CHE LEI MI HA FATTO PERVENIRE. UTILIZZANDO GLI STESSI ARCHIVI DEI FEDERALI AMERICANI E INSERENDO LA VARIABILE CIPRIOTA NELLE DESTINAZIONI, IL NUMERO DEI SOSPETTABILI SI RIDUCE DRASTICAMENTE. GUARDI UN PO’ CHI SI TROVA IN CIMA ALLA LISTA! RITENEVO DOVEROSO INFORMARLA. LE ALLEGO ANCHE UNA SCHEDA PERSONALE DEL SOGGETTO IN QUESTIONE. NON SI PUÒ DIRE CHE NON ABBIA LE SUE RAGIONI PER RECLAMARE VENDETTA NEI CONFRONTI DEI MUSULMANI.›
Breil scorse la lista e rimase incredulo: il primo nome che figurava, oltre a pochi altri che non si soffermò neppure a visionare, era quello di Deidra Blasey, il colonnello degli artificieri dei marine che tanto aveva contribuito a sventare l’attentato nello stadio di Cipro.
‹HO PRESO NOTA DEL SUO SUGGERIMENTO, CAPITANO›, rispose Breil. ‹IN QUESTO MOMENTO MI TROVO IN VOLO SULL’ATLANTICO E, A POCHI SEDILI DI DISTANZA DA ME, SIEDE IL NOSTRO SOSPETTATO NUMERO UNO. È ANCORA PRESTO PER GIUNGERE A DELLE CONCLUSIONI, MA STARÒ CON GLI OCCHI BENE APERTI.›
«Che cosa le succede, dottor Breil?» disse una voce femminile alle sue spalle. «Sembra che la lettura della posta abbia suscitato in lei una certa apprensione.»
«Ha colto nel segno, colonnello Blasey. Ha proprio colto nel segno», ripeté Oswald preparandosi a un’altra notte insonne: non doveva perdere di vista nemmeno per un attimo il principale indiziato della sua inchiesta. Anche a bordo di un aereo il Giusto sarebbe stato capace di preparare qualche brutta sorpresa, sempre ammesso che dietro l’efficiente colonnello artificiere si celasse un pericoloso assassino. Il sesto senso di Oswald lo faceva propendere verso un certo scetticismo: stentava a credere al coinvolgimento della Blasey, anche se l’essersi esposta in prima persona per neutralizzare gli ordigni nello stadio cipriota poteva far parte di una messa in scena architettata dalla mente perversa del Giusto. Era anche vero che il trauma di vedere l’unico figlio straziato da una bomba avrebbe potuto sconvolgere la più sana delle menti.
L’aereo volava verso occidente, inseguendo le ombre della notte. Oswald finse di assopirsi. Per tutta la durata del viaggio avrebbe tenuto d’occhio l’ufficiale americano: ogni movimento di Deidra sarebbe stato vagliato dalla mente allertata di Oswald.
L’Executive, una volta atterrato all’aeroporto La Guardia a New York, si era diretto verso la zona riservata ai voli privati. Da lì Deidra Blasey e Kingston avrebbero proseguito per la Carolina con un volo di linea.
Non c’era motivo di intervenire con urgenza, aveva pensato Oswald: sarebbe stato sufficiente non attenuare la sorveglianza del colonnello Blasey per alcuni giorni. Nel malaugurato caso in cui lei e il Giusto si fossero rivelati essere la stessa persona, sarebbero riusciti a mettere insieme delle prove schiaccianti.
Prima di abbandonare l’aereo, Deidra ringraziò Cassandra per il comodo passaggio transcontinentale.
«Sono io a ringraziare lei, colonnello: a quest’ora, senza il suo provvidenziale intervento, saremmo ancora a Cipro a contare le vittime. L’attentato che lei ha contribuito a sventare avrebbe potuto uccidere almeno un migliaio di persone.»
«Sono stata una semplice esecutrice degli ordini del dottor Breil. Per me è stato un vero piacere lavorare al suo fianco, Oswald.»
Ma non appena Deidra mise piede sul suolo americano, non trovò ad attenderla la parata a stelle e strisce con cui l’America accoglie i suoi eroi, bensì due uomini che la affiancarono e la presero rudemente sottobraccio.
«Sono il capitano Ted Russo della polizia militare, colonnello», disse uno dei due mostrando a Deidra un tesserino e un foglio. «Questo è un mandato di arresto nei suoi confronti. Lei ha il diritto di non rispondere ma, se risponderà, ogni sua dichiarazione potrà essere usata contro di lei. Ha diritto all’assistenza di un legale. Sarà giudicata da una giuria militare per i reati di strage aggravata e terrorismo internazionale. Ha capito quali sono i suoi diritti?»
«Sta scherzando, capitano! Mi tolga subito le mani di dosso. Ci dev’essere stato un errore.»
Ma il capitano Ted Russo non stava scherzando e aveva immobilizzato con un paio di manette cromate le mani di colei che riteneva essere il Giusto in nome di Dio.
Altri agenti erano apparsi tra i velivoli parcheggiati e si erano stretti attorno a Kingston per prevenire ogni sua reazione.
Sotto gli occhi di Oswald e Cassandra, Deidra Blasey venne rapidamente condotta verso una berlina scura.
Un uomo scese dall’auto e si avvicinò all’Executive. Sia Breil che Cassandra lo riconobbero immediatamente.
«Touché!» disse Glakas con un sorriso beffardo sulle labbra. «Mi fa specie che i miei cugini dell’FBI, oltre ad aver intralciato indagini federali, si dilettino a scorrazzare pericolosi terroristi in giro per il globo terrestre. I vostri saranno comportamenti che le commissioni disciplinari dovranno valutare sino in fondo, dottoressa Ziegler… sino in fondo!»
«Credo che lei abbia preso un granchio, Glakas», disse Oswald, cercando di indirizzare la conversazione su toni più amichevoli: innanzitutto voleva discolpare Cassandra dalle gravi accuse che Glakas aveva mosso.
«Lei, dottor Breil, non rappresenta nulla se non un ospite a carico dei contribuenti americani su un aereo di proprietà di un ente federale. Nei miei confronti non ha alcuna autorità e, contravvenendo ai precetti alimentari della sua religione, le auguro di poter gustare i granchi e le aragoste che pescherà nei mari che circondano la sua Israele… o forse si trova qui perché non la vogliono più nemmeno a casa sua?»
Quando l’aereo decollò nuovamente, Cassandra Ziegler aveva la netta sensazione che la sua carriera sarebbe finita entro pochi giorni.
Stati Uniti d’America, 1931
Béla Lugosi si era messo diligentemente in coda, sebbene fosse convinto che la parte di Dracula il Vampiro gli spettasse ormai per diritto di anzianità: erano quattro anni che calcava i palcoscenici nel ruolo del principe delle Tenebre.
La Universal, una delle major cinematografiche, aveva messo in cantiere la riduzione per il grande schermo del celebre romanzo di Bram Stoker e stanziato la ragguardevole cifra di quattrocentomila dollari per la sua realizzazione.
Lugosi rimase in attesa del suo turno per il provino. Era vestito con l’abituale costume da vampiro: frac nero e attillato, papillon bianco di seta, cipria bianca e occhi evidenziati da linee di nerofumo.
La produzione era molto preoccupata dal fatto che la vedova di Bram Stoker avesse chiesto la cifra di duecentomila dollari per la cessione dei diritti cinematografici, ma Lugosi aveva scritto lunghe lettere alla signora Stoker nella lontana Inghilterra, convincendola a rivedere le sue pretese: la richiesta iniziale era stata ridotta a un quinto.
Forte del successo diplomatico, l’attore arrivò dinanzi agli esaminatori della Universal. Ma non dovette sostenere nemmeno il provino: la sua discreta fama e le doti di intraprendenza che avevano ridotto enormemente il budget di spesa della Universal fecero sì che il ruolo fosse suo.
Nella Hollywood del cinema muto stava per nascere una nuova stella, e quella stella sarebbe stata un faro per le speranze di tanti immigrati giunti nel paese dove ogni sogno poteva diventare realtà.
Lugosi non era il solo ungherese ad aver percorso la via del successo nel mondo della celluloide: nomi come Curtiz, Benedek, Korda e, non ultimo William Fox, fondatore della omonima casa di produzione, lo avevano preceduto. Nessuno di loro aveva voluto cancellare le proprie origini balcaniche, anzi per lo più tutti ne andavano fieri. Così sarebbe stato anche per l’ex tenente dell’esercito d’Ungheria.
Nell’ambiente si mormorava che la parte di Dracula, al momento dell’avvio della produzione, fosse già stata affidata dal regista Tod Browning a Lon Chaney. L’attore aveva scarsa dimestichezza col cinema sonoro ed era stato riluttante ad accettare, poi, finalmente, l’amico regista Browning era riuscito a convincerlo. Ma non appena sciolta la riserva, Chaney era stato portato via da un cancro alla gola in pochissimo tempo.
La scelta del grande regista, proveniente da un’oscura quanto misteriosa carriera di clown, sarebbe quindi ricaduta, dopo un attento casting, su un attore poco conosciuto che aveva però già diretto in una parte secondaria di una sua pellicola: Béla Lugosi.
Da quel giorno l’ascesa dell’immigrato ungherese sarebbe stata fulminante: nel solo 1931, Béla Lugosi avrebbe preso parte a sette pellicole con ruoli da protagonista.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
Minhea Petru stava camminando di buon passo lungo la Cinquantunesima, verso il luogo fissato per l’appuntamento. Era tormentato dall’ansia di non riuscire a ottenere ciò che più al mondo desiderava. Niente di quanto accadeva intorno a lui era ormai in grado di suscitare il suo interesse: fino a che non avesse messo le mani sul suo bottino non sarebbe stato tranquillo.
Il giovane fornitore gli aveva promesso che quel pomeriggio gli avrebbe consegnato qualche preziosa bottiglia distillata clandestinamente.
Minhea stringeva nella mano una borsa di pelle vuota: tra poco l’avrebbe riempita di recipienti colmi di felicità.
Nella sua stanza al Plaza, nascosta dentro l’armadio, era rimasta l’ultima bottiglia con poche dita di liquore. Ma si disse che non c’era ragione di temere: Cesare — il cameriere italiano imparentato con alcuni produttori di alcolici — non aveva mai deluso il suo facoltoso cliente.
Minhea girò a destra sulla Nona e bussò a una porta di legno verde, all’apparenza l’ingresso di un vecchio negozio chiuso da tempo.
Cesare aprì e gettò un’occhiata circospetta sulla strada, quasi deserta a quell’ora della sera.
«Venite dentro, signor principe», disse l’italiano, guidando Minhea attraverso ambienti polverosi e disabitati da anni.
Quindi il ragazzo bussò a sua volta a un’altra porta interna, battendo con un ritmo che sembrava un codice di riconoscimento.
Un uomo dalla carnagione scura li accolse e si trovarono in un altro mondo: lampadari a goccia scendevano dal soffitto e illuminavano l’ampio salone. Il bancone della mescita era in legno scuro e il piano era ricoperto di marmo bianco. Dietro al banco stavano allineate decine di bottiglie, anonime solo per coloro che non conoscevano il forte piacere dell’alcol nelle vene.
Il bar clandestino era ancora chiuso ma avrebbe aperto da lì a poco: gli avventori sarebbero arrivati alla spicciolata, passando attraverso il negozio dismesso, e si sarebbero attardati, appoggiati al bancone, a degustare il nettare proibito.
Minhea non condannava — e non sarebbe stato possibile — i suoi compagni di sventura. Non riusciva però a condividere il loro modo di esibire la dissolutezza. Forse era il rigore della sua educazione aristocratica che spingeva il rumeno a non indulgere in pubblico al suo vergognoso vizio. Preferiva restare solo a pregustare il momento in cui i dubbi e le sofferenze della sua esistenza scomparivano in un attimo per lasciare il posto all’oblio.
La lingua italiana con la quale Cesare si rivolgeva a Petru risvegliò i ricordi di quel signore aristocratico: erano trascorsi tredici anni dalla fine della guerra e il mondo stava vivendo in maniera traumatica gli strascichi di una crisi economica senza precedenti.
Uscì di nuovo in strada, costeggiò alcuni isolati della Cinquantatreesima sino a Broadway.
Notò il cartellone fuori dal cinema quasi per caso. Il nome dell’antico antenato non fu la sola cosa ad attirare la sua attenzione. Minhea osservò ancora una volta il manifesto su cui spiccava il ritratto del protagonista. Scrollò la testa, come se cercasse di allontanare le allucinazioni di cui spesso era preda. No, non aveva ancora bevuto, fatta eccezione per il bicchiere colmo che gli avevano offerto gli italiani della distilleria. Non aveva dubbi: l’attore che interpretava il ruolo di Vlad Dracula si faceva chiamare Béla Lugosi, ma altri non era se non Béla Blasko, l’ufficiale ungherese a cui stava dando la caccia da oltre un decennio.
«Faccia attenzione, Asher», disse Sciarra. «Il treno per Calalzo transita di rado, ma comunque transita. Stia attento a camminare lungo la strada ferrata.»
«Non si preoccupi, generale. L’unico pericolo che corro è quello di essere tanto trascinato dagli avvenimenti del suo racconto da non accorgermi dell’arrivo del treno.» Asher Breil sorrise. «Può continuare, generale, la prego?»
«Dove eravamo rimasti?»
«Al cartellone del film.»
«Già… le coincidenze… Un uomo trascorre la vita con l’angoscia di non poter compiere la missione che si è prefissato, per poi accorgersi che la persona che cerca è sotto ai suoi occhi… o meglio, sotto agli occhi di tutti.»
Tenendo ben stretta la borsa, Minhea si mise in coda per acquistare il biglietto del successo cinematografico del momento: sembrava che la gente fosse in preda alla frenesia di assistere alle gesta del famoso vampiro.
Ma non furono le pose terrificanti di Béla Blasko con le mani protese e le dita piegate ad artiglio a far trasalire Minhea Petru sulla sedia: aveva finalmente trovato il suo acerrimo nemico e ora doveva solo escogitare il sistema per recuperare il tesoro della sua famiglia.
Minhea uscì dal cinema due ore più tardi. Si incanalò nel fiume di persone che stavano abbandonando la sala. Probabilmente, quando fu sul marciapiede, inciampò tra la folla. La borsa di pelle cadde a terra ai piedi di un poliziotto che sorvegliava il traffico. L’agente raccolse la borsa con gesto cortese, ma subito l’espressione gentile si tramutò in uno sguardo indagatore. L’odore del whisky aveva raggiunto le narici del poliziotto.
Poco più tardi Minhea Petru sedeva su una panca del distretto di polizia di Manhattan.
«Ve lo ripeto, signor Petru», disse il detective puntandogli contro un dito minaccioso, «se ci dite dove avete preso quelle bottiglie, vi lasciamo andare senza procedere nei vostri confronti e vi assicuriamo che nessuno fuori di qui verrà a conoscenza di questo episodio. Avete capito?»
«Vi ho detto che ho trovato la borsa di pelle dentro al cinema», mentì il rumeno.
«Non penserete davvero che io ci creda! Ve lo chiedo per un’ultima volta. Dove avete trovato quelle bottiglie?»
«Dal carcere Minhea mi aveva scritto. Poi è seguito un lungo silenzio, che soltanto il tempo mi ha spiegato.» Sciarra fece una breve pausa, quindi riprese il racconto.
Dieci giorni più tardi Minhea Petru usciva dalla cella di sicurezza del distretto di polizia: per tirarlo fuori, dietro il pagamento di una consistente cauzione, si erano disturbati i più quotati e costosi avvocati di New York.
«Vi accompagno in albergo, signor principe? La mia auto è proprio qui sotto», gli aveva chiesto il suo legale, mentre firmava le carte per il rilascio.
«Non preoccupatevi, avvocato, prenderò un taxi», aveva risposto Minhea con modi sicuri che mal si addicevano al suo aspetto trasandato.
«Mi permetto di insistere. Credo voi abbiate bisogno di abiti puliti e di una bella doccia, eccellenza.»
«Non insistete, avvocato, vi prego. Vi ringrazio davvero molto, ma ho bisogno di stare un po’ da solo. Vi ripeto, prenderò un taxi per andare al Plaza.»
Quando Minhea salì sull’auto pubblica, non chiese di essere portato all’angolo tra la Cinquantanovesima e la Quinta, dove si trovava il suo albergo, ma sulla Nona, nei pressi di una vecchia drogheria ormai chiusa da tempo.
Minhea era seduto al bancone da qualche ora, ormai. Gli abiti lisi lo facevano sembrare uno dei tanti disperati che si aggiravano come spettri nella città attanagliata dalla crisi economica.
«Un altro, giuro che è l’ultimo», aveva detto Minhea protendendo il bicchiere verso il barman. Data l’ora, i camerieri si apprestavano a chiudere il locale clandestino.
L’uomo dall’altra parte del bancone aveva obbedito.
Minhea era uscito dal bar quando il sole aveva ormai allontanato l’oscurità della notte. Il nobile rumeno barcollava vistosamente.
Si diresse verso Central Park: forse sarebbe riuscito a fermare uno dei rari taxi che a quell’ora giravano per la città. Ma quando mise mano alla tasca interna della giacca, si accorse che non vi aveva riposto il portafogli dopo aver pagato le consumazioni del bar: poco male, i contanti in suo possesso erano stati spesi al bancone e nessuno si sarebbe interessato ai documenti di un cittadino dell’Est europeo.
Le poche persone che incontrava, quando lo vedevano, cambiavano percorso. Di taxi nemmeno l’ombra.
Attraversò la Cinquantottesima con l’attenzione che può prestare un ubriaco all’alba in una strada deserta.
Il camion del latte avanzava a velocità sostenuta. Il giovane autista era in ritardo sulle consegne. Troppo tardi si accorse di quell’uomo sbucato all’improvviso.
L’ultima cosa che Minhea Petra disse, prima di perdere i sensi, fu: «L’anello! Devo riportare a casa l’anello», quindi chiuse gli occhi, mentre un rivolo di sangue gli usciva dall’orecchio.
«Si tratta di un grave trauma cranico», disse poco dopo un medico dell’ospedale dove avevano portato Petra. «Quest’uomo è in grave pericolo di vita. Siamo riusciti ad avvertire la sua famiglia, infermiera?»
«No, dottore. L’uomo non aveva documenti con sé. Dallo stato degli abiti che indossava credo si tratti di uno dei tanti senzatetto di cui pullula New York. Nessuno sul luogo dell’incidente lo conosceva.»
«Ciò non ci esime dal cercare di salvarlo in ogni modo. Ma temo che il suo sistema neurologico ne risentirà anche se riusciremo a strapparlo alla morte. Faccia preparare la camera operatoria.»
«Ricevuta la lettera di Minhea, mi recai a vedere il film Dracula non appena venne proiettato in Italia. Non ricordavo alla perfezione i tratti di Blasko, ma di certo l’attore che interpretava Dracula gli assomigliava molto. Scrissi le mie impressioni a Minhea, e gli dissi anche di essere molto preoccupato: il mio amico mi aveva confessato di aver scritto la sua ultima lettera dalla cella di un carcere. Non mi tranquillizzava molto il fatto che Minhea mi avesse assicurato che il reato per cui era stato arrestato non era grave e che entro pochi giorni sarebbe stato di nuovo libero. Inoltre, non mi aveva detto di che reato si trattasse. Purtroppo mi attendeva una brutta sorpresa», disse Alberto Sciarra incamminandosi lungo la linea ferroviaria che correva a poca distanza dal centro abitato di Cortina d’Ampezzo.
«Non appena la mia lettera mi venne restituita, corredata da una breve nota del direttore del Plaza di New York, ebbi un cattivo presentimento», aveva quindi continuato, rivolto a Asher Breil.
«Il direttore manifestava tutta la sua apprensione: non aveva più notizia del principe Petru da oltre un mese. Non c’era tempo da perdere: dovevo correre a New York, sperando che non fosse già troppo tardi.»
Il Conte Biancamano era un bastimento di circa venticinquemila tonnellate di stazza. Era stato costruito sei anni prima nei cantieri inglesi Beardmore per conto della compagnia di navigazione italiana del Lloyd Sabaudo. La nave era caratterizzata da una poppa tonda e alta sulla linea di galleggiamento, dove era stata collocata una sfarzosa sala da ballo di forma circolare. A bordo regnava l’eleganza più raffinata e il servizio era impeccabile: il Conte Biancamano era la nave che l’aristocrazia europea e i magnati americani privilegiavano proprio per l’esclusivo trattamento riservato ai passeggeri.
«Mi lasciate qui a difendere la cassa, marchese Sciarra della Volta?» aveva chiesto Kimberly con un’espressione ironica dipinta in volto.
«Lungi da me relegare a un ruolo di così scarso spessore la mia suffragetta», aveva risposto Alberto, facendosi vento con due biglietti di prima classe. «Era da tempo che dovevo andare in America per lavoro. Ho pensato bene che potevamo prenderci un po’ di vacanza entrambi, anche se non si tratterà di un vero e proprio periodo di riposo. La sparizione di Minhea mi preoccupa davvero molto.»
«Sono felice che tu abbia deciso di portarmi con te. E ancor più dal momento che non te lo avevo chiesto. Credi che l’ex ufficiale ungherese, quello che oggi è diventato un famoso attore, sia coinvolto nella scomparsa di Petru?»
«Non so, anche se quella sarà senza dubbio una delle piste che dovremo seguire, se vogliamo arrivare alla verità.»
Stati Uniti d’America, 1931
Béla Lugosi si allontanò dal cantiere della sua villa in costruzione sulle colline di Hollywood. Ormai vestiva sempre di scuro e i suoi abiti ricordavano quelli di scena. L’automobile con autista lo attendeva sul viale.
Non appena salì a bordo, il suo segretario-agente si diede da fare per ricordare all’attore l’elenco dei molti impegni che lo attendevano: le luci della ribalta richiedevano il loro prezzo e l’ungherese aveva sempre meno tempo per sé.
«Non ritengo sbagliato», aveva detto il segretario, «che voi, signor Lugosi, prendiate parte a periodici incontri con la numerosa comunità ungherese sia a Hollywood che nelle piazze che visiterete per promuovere la pellicola: così facendo, vi accattiverete le simpatie dei vostri connazionali, e inoltre ogni immigrato in terra americana guarderà con benevolenza un grande attore che non dimentica le proprie origini.»
«Mi sembra una notevole perdita di tempo», aveva commentato Béla.
«Tutt’altro che una perdita di tempo, signor Lugosi. Vi ricordo che un vostro connazionale ha dato il nome alla Fox e che la popolazione americana è costituita al settantacinque per cento da immigrati che vivono qui da meno di una generazione. Dobbiamo cercare di promuovere in ogni campo la vostra immagine: l’immagine di Dracula il Vampiro.»
Alla realizzazione della villa di Lugosi avevano preso parte, oltre ai più affermati architetti, i migliori esperti di effetti speciali di Hollywood: il progetto prevedeva scenografie degne di un film dell’orrore.
La casa confinava da un lato con un precipizio sul quale si affacciavano le finestre lunghe e strette che caratterizzavano l’intero edificio. Lungo i muri perimetrali si aprivano solo quattro finestre per ogni lato: un numero irrisorio, rispetto alle enormi dimensioni della villa. Una volta ultimata, la casa sarebbe stata ricoperta di edera e, al posto di un parco luminoso, nell’ampio giardino sarebbero state collocate delle sculture di marmo bianco, molto simili alle lapidi di un macabro camposanto abbandonato. L’uscio era in ebano e il batacchio aveva la forma di un vampiro in metallo pregiato con le ali da pipistrello dispiegate. Nessuno sarebbe mai stato ricevuto da Dracula oltre l’ingresso, che era presidiato da otto colossali armature. Negli anni, sulla villa, così come sulla vita privata di Béla Lugosi, sarebbero sorte incredibili leggende: anche queste facevano parte del personaggio. Un personaggio che si recava alle prime delle sue pellicole sdraiato in una bara di legno pregiato, portata a spalla da servitori orientali sordomuti.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
Le sfarzose sale del Conte Biancamano avevano ospitato poche volte Alberto Sciarra della Volta e la sua signora nel corso della traversata: il nobile italiano preferiva alla mondanità le passeggiate all’aperto. Adorava lasciarsi cullare dalle onde lunghe dell’Atlantico e ammirare lo sconfinato paesaggio dell’oceano, seduto su una delle sedie di teak del ponte di prima classe.
Sbarcare a New York per i coniugi Sciarra fu come mettere piede su un altro pianeta: la città gli apparve scintillante, caotica e grandiosa. Persino il lungo bancone in marmo bianco del Plaza era di dimensioni impensabili rispetto agli standard europei. Tutto sembrava gigantesco in quella metropoli: lungo Fifth Avenue, una ventina di blocchi prima del Plaza, avevano superato un enorme cantiere.
Il tassista aveva risposto alle loro domande spiegando: «Lì sta nascendo l’edificio più alto del mondo: l’Empire State Building. Oltre quattrocento metri di altezza di acciaio, cemento e vetro. Al mondo non esiste niente di simile!»
Il direttore dell’hotel Plaza, dove anche Alberto e Kimber avrebbero preso alloggio, si strinse nelle spalle: «Non sappiamo davvero che fine abbia fatto il principe Petru, signor Sciarra. Quasi due mesi or sono è scomparso dall’hotel senza lasciare alcun messaggio. Il signor principe era una persona… ehm… singolare, ma estremamente corretta».
«Potremmo vedere il suo appartamento?» chiese Alberto.
«Certamente, signor Sciarra. È ancora tutto in ordine, e noi continuiamo a sperare che vi faccia ritorno al più presto. Il principe Petru era persona assai previdente ed era sua consuetudine anticipare l’affitto di anno in anno. Per quanto riguarda la direzione di quest’hotel, l’appartamento sarà a disposizione esclusiva del principe almeno sino alla fine di quest’anno. Allo scadere di questo periodo, se non avremo più avuto sue notizie, consegneremo gli averi del signor principe ai suoi parenti, che ci auguriamo voi vorrete cortesemente indicarci, generale Sciarra.»
«A quanto so Minhea non ha fratelli né sorelle, ma uno stuolo di cugini che si occupano di amministrare i vasti possedimenti della famiglia in Romania. Vi farò sapere, direttore, nel malaugurato caso in cui non dovessi riuscire a ritrovare il mio amico scomparso.»
Nell’appartamento regnava un ordine quasi inquietante, come se qualcuno si fosse dato da fare per fermare il tempo e congelare i ricordi.
L’appartamento era pieno di antichi cimeli, di fotografie e lettere, di disegni raffiguranti l’Anello dei Re.
Alberto aprì l’armadio e spostò alcuni vestiti. La bottiglia era nascosta dietro a dei pantaloni piegati.
Sciarra tolse il tappo e annusò l’odore forte del liquore: quella bottiglia non avrebbe dovuto essere lì.
Improvvisamente tutto gli fu chiaro: l’ultima lettera che il suo amico gli aveva scritto proveniva dal distretto di polizia di Manhattan. Da lì avrebbero cominciato le loro ricerche.
«No, signore. Minhea Petru è uscito da quella porta da un paio di mesi e non è più tornato a farci visita. Una persona veramente priva di riconoscenza.»
Il sarcasmo trapelava dal tono dell’agente mentre scorreva un registro vergato a mano.
Alberto era uscito e si era fermato smarrito sul marciapiede davanti alla stazione di polizia.
Sentiva che Minhea era vivo, e che probabilmente aveva bisogno di lui, ma non sapeva come continuare a cercarlo.
«Signore», disse una voce in italiano alle sue spalle, «mi chiamo Cesare e lavoro all’hotel Plaza. Promettetemi che non direte nulla alla direzione dell’albergo: se i miei superiori dovessero venire a conoscenza anche di un solo particolare di questa vicenda, mi licenzierebbero su due piedi. So che siete qui per cercare il signor principe Petru.»
«È così, Cesare. Tu sai qualche cosa? Ti prego, dimmi tutto.»
«Il signor principe aveva il vizio di bere.»
«Lo sospettavo da tempo e ne ho avuto conferma curiosando nell’armadio del suo appartamento.»
«Date le mie conoscenze si rivolgeva a… ehm… membri della mia famiglia per rifornirsi di liquori che, come voi saprete, sono da anni severamente proibiti qui negli Stati Uniti.»
«Vai avanti, Cesare.»
«Quando venne rilasciato dalla prigione, credo si sia recato direttamente in un bar clandestino a poca distanza dall’albergo. Da lì è stato visto uscire alle prime ore del mattino… non era in buone condizioni… insomma, il signor principe era completamente ubriaco.»
«Tu hai idea di dove avrebbe potuto recarsi, una volta abbandonato il locale?»
«Lo hanno visto percorrere la Nona in direzione nord, verso Central Park. Era sprovvisto dei documenti di identità, dato che sul bancone del bar aveva lasciato questo. Ne sono venuto in possesso da pochi giorni: il barista era convinto che il principe si sarebbe fatto vivo, prima o poi.» Così dicendo Cesare gli porse il portafogli che Petru aveva dimenticato nel locale clandestino.
Stati Uniti d’America, 1931
Béla Lugosi sedeva su un palco, accanto a lui c’erano il regista Browning e qualche pezzo grosso della casa di produzione. Coccarde col tricolore dell’Ungheria verde bianco e rosso erano ovunque, nella sala da pranzo dell’hotel Plaza lussuosamente imbandita.
Quando Béla Lugosi pronunciò il suo discorso in lingua magiara, il più scatenato a prodursi in fragorosi applausi fu un ometto insignificante, accompagnato da una donna dai capelli color biondo platino che ostentava improbabili atteggiamenti da gran dama.
Se Béla Blasko avesse prestato attenzione a quel suo sfegatato ammiratore, si sarebbe reso conto che lo conosceva già: si trattava del passeggero che anni prima, durante la traversata atlantica, lo aveva denunciato al comandante.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
«Non appena saremo in albergo», aveva detto Alberto alla moglie, «tu recupererai più informazioni possibili presso ospedali e uffici di polizia: sarà anche sconfinata questa metropoli, ma adesso siamo in possesso di una data precisa e di una zona sufficientemente circoscritta. Vedrai che lo troveremo.»
Giunti nuovamente al Plaza, Sciarra rimase a osservare i colori delle coccarde: erano gli stessi della bandiera italiana.
«C’è forse una festa di miei connazionali?» chiese alla reception.
«No, signore. Si tratta di ungheresi che festeggiano…»
In quel momento Béla Lugosi sbucò da uno dei corridoi della hall, seguito da un codazzo di ammiratori. Non era possibile non notarlo: indossava un frac nero con una camicia e una cravatta candide. Il volto era spolverato di cipria bianca e gli occhi sottolineati dal nerofumo.
Sciarra gli si fece vicino ed esclamò ad alta voce: «Blasko! Béla Blasko!» Il dito di Alberto era puntato verso l’attore.
Lugosi non si scompose, mentre Sciarra continuava: «Il vostro nome è Blasko, tenente nell’esercito ungherese durante la prima guerra mondiale. Non è vero?»
Lugosi lo osservò con uno sguardo gelido e incredulo al tempo stesso. «Voi vi sbagliate, mio caro amico. Io sono Béla Lugosi, il grande attore.»
Quello strano incontro non era certo sfuggito all’occhio attento di Teofil Bàlaj e di sua moglie, che stavano camminando al seguito dell’artista.
«Quando lo abbiamo conosciuto noi, invece, si chiamava Olt, se non vado errata. Vero, Teofil?» disse la signora Bàlaj rivolta al marito. «Credo che il signor Béla ‘Dracula’ Lugosi sia una persona piuttosto originale e che andrebbe tenuta d’occhio, non trovi, Teofil?» L’espressione da oca petulante era scomparsa dal volto della donna, per lasciare il posto a uno sguardo tanto indagatore quanto scaltro.
Il mattino seguente Kimberly era già al lavoro di buon’ora. Entro poche ore la ricerca produsse i suoi frutti.
«Un uomo senza documenti è stato ricoverato a seguito di un grave incidente in un ospedale vicino all’Undicesima.»
«Pensi si possa trattare di Minhea?» le aveva chiesto Alberto, ancora scosso dall’incontro del giorno precedente con Béla Blasko.
«La descrizione corrisponde.»
«Ed è ancora vivo?» chiese poi Sciarra con la voce rotta dall’emozione.
«Sì, anche se non credo che questo sia un bene: dimesso dopo un delicato intervento chirurgico, si trova ora in un ospedale psichiatrico. Le conseguenze del trauma hanno prodotto un grave danno cerebrale e la totale perdita della memoria.»
«Si tratta di danni irreversibili?»
«Al telefono non si sono molto sbilanciati. Ma se si trattasse veramente di Minhea, temo che il nostro amico vegeti come se fosse stato lobotomizzato.»
Era sufficiente una visita nel reparto chiamato Madhouse, il manicomio all’interno del N.Y. General Hospital, per provocare uno shock anche nella persona più forte ed equilibrata. I malati si aggiravano come fantasmi, ciondolando lungo i corridoi avvolti negli ampi camicioni bianchi. Alcuni gesticolavano, altri parlavano da soli, altri ancora stavano in disparte, accostati al muro o nascosti dietro un angolo, annientati dalla loro stessa follia.
Il medico con cui i coniugi Sciarra avevano ottenuto un appuntamento li aveva guidati verso il proprio ufficio: «Possono aggirarsi liberamente per l’istituto soltanto pochi dei ricoverati: quelli che non sono considerati pericolosi per sé e per gli altri sono autorizzati a muoversi all’interno di alcune sezioni della struttura.» Quindi, osservando con attenzione la cartella clinica, aveva continuato: «Voi dite che uno di questi pazienti potrebbe essere il vostro amico, signor Sciarra?»
«È molto probabile, dottore. Devo soltanto vederlo per riconoscerlo.»
«Tra qualche istante sarà qui, gli infermieri sono andati a prendere la persona che risponde alla vostra descrizione.»
«Credete che i danni da lui subiti siano irreversibili, dottore?»
«La mente umana è la più incomprensibile delle macchine, signor Sciarra. Nonostante il buon livello di conoscenze a cui è arrivata la medicina moderna, il cervello e il suo modo di reagire a stimoli, traumi o malattie è ancora oggetto di teorie controverse. A giudicare da quanto leggo, il paziente potrebbe restare per sempre nella condizione in cui si trova o, anche se non lo escludo, pur ritenendolo molto difficile, potrebbe svegliarsi all’improvviso da quello che sembra uno stato ipnotico.»
La porta si aprì.
Alberto balzò in piedi e si diresse verso l’uomo che si trovava sulla soglia, accompagnato da un infermiere.
Sciarra strinse l’antico compagno d’armi tra le braccia: sul cranio rasato spiccava una cicatrice che andava da una tempia all’altra. Altri segni di ferite in altre parti del corpo stavano a testimoniare la violenza che doveva aver subito nell’urto contro il camioncino del latte.
Sciarra abbracciò Minhea. «Amico mio, amico mio caro…» disse l’italiano commosso.
Non vi fu risposta.
Le parole che Kimberly aveva pronunciato quella mattina gli risuonavano nelle orecchie come una premonizione: Minhea Petru non stava vivendo, stava vegetando in uno stato di profondo torpore.
Transilvania, 1456
Il caldo non accennava a calare, nemmeno nelle limpide serate estive illuminate dal cielo stellato. E fu proprio osservando il cielo che gli astronomi annotarono sui loro registri l’apparizione di un insolito corpo celeste: una cometa di incredibile luminosità le cui due code, una rivolta a oriente e l’altra a occidente, occupavano gran parte della linea dell’orizzonte. In quei giorni, era il giugno del 1456, Vlad Dracula III saliva al trono di Valacchia.
L’avvistamento di una cometa produce negli uomini reazioni opposte: c’è chi l’avverte come presagio di disgrazia e c’è invece chi saluta l’apparizione astrale come il migliore degli auspici.
Il neoprincipe di Valacchia era convinto che fosse un augurio con cui il cielo aveva voluto salutare il suo insediamento. Dracula commissionò addirittura il conio di una moneta che raffigurasse da un lato l’aquila valacca, dall’altro una stella con la doppia coda che attraversava il cielo.
I catastrofisti, invece, associavano la comparsa dell’astro infuocato con la morte del re Hunyadi, in conseguenza della quale si erano susseguite aspre lotte di successione tra i discendenti del sovrano e gli Asburgo. Ladislas, figlio maggiore di Hunyadi e buon amico di Dracula, era stato ucciso nel corso di questa faida che aveva insanguinato il territorio ungherese, rendendo ancor più vulnerabili le porte dell’Occidente ai tentativi di invasione dei turchi.
«Riesumate la salma!» La voce di Dracula si levò alta e fiera.
Il volto del voivoda di Valacchia aveva perso i tratti della giovinezza: a venticinque anni si doveva essere uomini. Dopo essersi emancipato dal giogo del sultano turco, era stato il re ungherese a completare l’educazione del giovane che aveva voluto alla sua corte.
Dracula aveva la carnagione olivastra e gli occhi a mandorla, segno di una qualche contaminazione orientale tra gli antenati della sua dinastia. Gli occhi erano scuri, ma osservandoli con attenzione — sempre ammesso che si fosse stati capaci di sostenere il suo sguardo — si sarebbero notati dei riflessi color cobalto: il colore del mare più profondo. Non era alto, ma robusto e forte. Portava baffi lunghi e ben incerati. Vestiva in maniera elegante, secondo la moda dei ricchi boiari della Valacchia e della Transilvania. Raramente si concedeva un sorriso. Il suo volto impenetrabile avrebbe presto rappresentato l’effigie della paura per chiunque avesse tentato di sbarrargli la strada.
«Riesumatela!» ripeté il principe.
I presenti si segnarono con la croce, mentre la bara — quattro assi di legno inchiodate — veniva aperta.
Lo spettacolo che si presentò era raccapricciante: il corpo di Mircea, fratello di Dracula, giaceva a faccia in giù. Le unghie avevano graffiato il legno della cassa, nel vano tentativo di aprirsi un varco. Nelle orbite oculari erano ancora conficcati i ferri aguzzi con cui era stato accecato. Il voivoda aveva avuto conferma al dubbio che gli rodeva la mente: suo fratello era stato seppellito vivo, dopo atroci torture.
Dracula si inginocchiò di fianco alla salma: «Dio abbia pace per la tua anima, fratello, e guidi la mia mano vendicatrice».
Il principe si era fatto un’idea chiara su come erano andati i fatti e chi dovessero essere considerati i responsabili dell’assassinio di Mircea e della morte di suo padre.
La mano di Dracula accarezzò il legno della bara, vicino al teschio ancora ricoperto dalla fluente capigliatura del valoroso Mircea. Quindi gli occhi del principe si soffermarono sull’oggetto che stava cercando. L’antico anello d’oro mandava sinistri bagliori al dito indice dello scheletro. La mano di Vlad si strinse sul simbolo dell’antico potere. Dracula infilò l’Anello dei Re nell’indice della mano destra e rimase per qualche secondo a osservarlo, pregustando il sapore della vendetta.
Tirgoviste era in festa: il principe appena eletto aveva voluto che tutti i notabili prendessero parte ai festeggiamenti. I boiari avevano accolto di buon grado l’invito: sia per loro che per le corporazioni mercantili, essere in buoni rapporti con il sovrano equivaleva a godere di notevoli vantaggi. Non erano da meno le alte sfere ecclesiastiche: il metropolita e i vescovi della regione presenziavano al gran completo al banchetto. Tutti si erano parati a festa per l’importante occasione. I boiari portavano vesti variopinte e adorne di ricchi ricami, mentre le dame, al loro fianco, lasciavano intravedere preziosi gioielli fra i drappeggi degli abiti. Tutti volevano mostrare di appartenere a una classe sociale potente e agiata: i nobili erano giunti nei giardini dove avrebbe avuto luogo la festa a bordo di lussuose carrozze, poi, via via, a seconda del ceto sociale, il corteo aveva visto ridursi l’eleganza degli abiti e lo sfarzo dei mezzi di trasporto.
Dracula osservava con sguardo freddo e distaccato i preparativi e rispondeva con brevi gesti del capo o delle mani ai saluti degli ospiti.
La festa ebbe inizio nel corso della mattinata: la carne degli agnelli cotti alla brace si sposava perfettamente con i vini prelibati che Dracula aveva ordinato fossero serviti. Durante il pranzo il principe fu visto ancor più cupo del solito: non parlò quasi con nessuno dei commensali, ma spesso si appartava per conferire con il comandante della sua guardia.
Terminato il banchetto, i bambini presero d’assalto i giochi che erano stati allestiti per loro, mentre gli adulti si abbandonarono alle danze, accompagnati dai musici che avevano allietato l’intera cerimonia.
Dracula non si unì a loro. I suoi occhi scuri scrutavano il profilo dei Carpazi oltre i quali il sole stava tramontando.
Fu sufficiente un segno della mano del principe per dare inizio alla vendetta pianificata con cura.
Gli uomini di Vlad uscirono dalla boscaglia che confinava con i giardini nei quali era in corso la festa. Tra lo stupore dei presenti si avventarono contro alcuni tra gli invitati. La guardia di Dracula piantò in profondità nel terreno dove, sino a poco prima, si erano svolte le danze, dei pali acuminati. Quindi vennero condotti dinanzi ai pali i nobili e i possidenti più anziani di Tirgoviste, colpevoli di aver tradito il padre di Vlad e di aver fatto assassinare il fratello Mircea.
«Questa è la fine che ho preparato per voi: non solo mi avete privato dei più cari affetti e ordito congiure contro la mia famiglia, ma avete riservato a mio fratello, il nobile Mircea, una morte atroce. Ora proverete anche voi ciò che significa morire fra atroci tormenti, dopo essere stati beffati dal tradimento.»
Vlad abbassò una mano e i poveretti vennero conficcati sulle punte dei pali protese verso l’alto.
«Quanto a voi», continuò Dracula rivolto ai sudditi più giovani che, assieme a donne e bambini, erano stati rinchiusi all’interno di un recinto sorvegliato dai soldati, «quanto a voi, la vostra colpa è quella della complicità e della mancanza di carattere che vi ha lasciati imperturbabili di fronte a crimini tanto brutali. Espierete i vostri peccati divenendo complici della mia imbattibilità: sarà grazie alla vostra mano d’opera che edificherò la mia inespugnabile dimora. E ora, in marcia!»
Legati in catene l’uno all’altro, i nobili e i possidenti di Tirgoviste, con ancora indosso i loro vestiti migliori, si mossero simili a un serpente variopinto che si snoda per diverse centinaia di metri. Ai loro lati, la guardia personale di Dracula, composta da uomini tanto valorosi e abili quanto spietati, sorvegliava i prigionieri.
La lunga marcia verso Arges di quel corteo di persone fino a poco prima allegre e spensierate e improvvisamente gettate nella più cupa disperazione era appena incominciata. Molti di loro morirono durante il cammino. Quelli che giunsero a destinazione lavorarono per anni trattati come animali per erigere, sopra un picco inaccessibile, il castello di Vlad Dracula. Inerpicandosi lungo un sentiero ripido che sfidava i fianchi della montagna i forzati costruirono, pietra dopo pietra, un rifugio inespugnabile: una fortezza maestosa e severa che nulla aveva a che vedere con il lusso e la comoda eleganza dei castelli transilvani dei boiari.
Da quella rocca Vlad III Dracula, voivoda di Valacchia, avrebbe messo in atto la seconda parte del suo piano: sbarrare il passo ai turchi invasori, a coloro che gli avevano fatto trascorrere l’infanzia e l’adolescenza in prigionia.
Settembre 2004
«Merda!» esclamò Deuville, gettando sul tavolo la comunicazione ufficiale con cui Cassandra Ziegler veniva sospesa dal servizio a tempo indeterminato in attesa dei risultati della commissione d’inchiesta. «Glakas non ha perso tempo, Cassandra. Mentre voi atterravate a New York, io ricevevo questa lettera. Mi immagino già che cosa leggeremo domani: ‘Un alto funzionario del Federal Bureau of Investigation scorrazza in giro per il mondo con il Giusto in nome di Dio’. I giornali avranno di che parlare per mesi.»
Cassandra non poté far altro che allargare le braccia. Si sentiva completamente impotente.
Fu Oswald a parlare: «Comunque io sono certo che Deidra Blasey e il Giusto non siano la stessa persona.»
«Certo, dottor Breil, questa sarebbe la soluzione ideale ai nostri problemi», disse ancora il direttore dell’FBI. «Peccato che la CIA abbia collezionato prove che sembrano inconfutabili, prima tra tutte il fatto che la Blasey era sempre nelle vicinanze di tutti i luoghi dove sono avvenuti gli attentati del Giusto. Ha avuto modo anche lei di constatare quanto ormai si sia ridotto il numero dei sospettabili…»
«Ha utilizzato il termine corretto, Deuville: sospettabile. Ma da quando un sospettabile deve per forza essere colpevole? Fino a oggi abbiamo considerato solo la possibilità che il Giusto fosse da rintracciare tra i ranghi delle forze armate americane. E se invece non si trattasse di un militare? E nemmeno di un cittadino americano? Capite bene che il raggio delle ricerche si aprirebbe di nuovo. Inoltre sarebbe impossibile seguire ogni cittadino indagato nel corso dei suoi spostamenti.»
«Che cosa vuol dire con questo, Oswald?»
«Che è presto per fasciarci la testa.»
La segretaria personale di Deuville bussò alla porta.
«Chiedo scusa, signori», disse la donna entrando nell’ufficio del direttore. «È arrivata questa lettera per lei, dottoressa Ziegler. Mi è stato detto di consegnargliela con la massima urgenza.»
Cassandra osservò l’anonima busta e l’indirizzo stampato nel carattere Times New Roman presente in ogni programma di scrittura. Ancor prima di aprirla aveva riconosciuto il mittente. L’unico particolare, non del tutto irrilevante, era che il sospettato numero uno, colonnello Deidra Blasey, in quel momento era rinchiuso in un carcere federale di massima sicurezza.
«Chissà dove ti trovi in questo istante, mentre io sto sgobbando per te, Oswald Breil», disse tra sé Sara Terracini, seduta dinanzi allo schermo sin troppo familiare del suo computer…
Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.
Adesso molte cose mi appaiono nel loro aspetto reale. Non so se ciò che provo si possa definire paura: è una sensazione diversa da quella che mi attanagliava nella cabina di pilotaggio di un caccia supersonico. In quella occasione ero arbitro e padrone del mio destino e del mio aereo. Adesso non so da dove proverrà l’attacco né quali armi avrò a disposizione per difendermi.
Tutto è cominciato quando il conducator mi ha invitato per una nuova battuta di caccia. Quel giorno ci eravamo recati a poca distanza da Bucarest, sul lago di Snagov, a ventinove chilometri dalla capitale. Qui giunti ci appostammo. Dovevamo aspettare il passo di anatre e di altri uccelli che sostano nei pressi di laghi e stagni. Come al solito accettai un fucile da caccia, sapendo che non lo avrei usato: ci avrebbe pensato Ceausescu a riempire il paniere. Ero certo che il conducator si sarebbe comportato con i volatili come aveva fatto con i maestosi orsi dei Carpazi.
A differenza delle altre volte, in cui la caccia era per me un pretesto per lunghe chiacchierate con Ceausescu, ero rimasto da solo nel capanno vicino alla riva. L’accompagnatore e Ceausescu mi avevano suggerito di non abbandonare la postazione, se non volevo rischiare di venire impallinato.
Quando li vidi salire su un piccolo motoscafo disobbedii alle raccomandazioni e lasciai il capanno di frasche. Al molo era ormeggiata una barchetta a remi: salii a bordo senza esitare. L’isola era poco distante.
Cominciai a remare avvolto dalla sottile coltre di nebbia che si stendeva sopra il lago.
Una volta a terra mi diressi verso il monastero di Snagov, fatto costruire da Vlad Dracula l’Impalatore: lì, in una cappella poco vicino, si dice riposino le spoglie del condottiero valacco.
Mi nascosi in una nicchia all’interno della cappella. Dal mio nascondiglio ebbi modo di osservare i particolari della cerimonia.
«Ho giurato fedeltà al vincolo indissolubile e segreto che mi lega agli altri cavalieri del Drago, e ho sempre prestato fede al mio giuramento.» Con queste parole la donna inginocchiata terminò il suo discorso.
«Con l’autorità che mi deriva dall’essere gran maestro dell’Ordine, ti sono grata per ciò che hai fatto, che Dio sia con te», disse Elena Ceausescu, appoggiando la spada sulla spalla della donna genuflessa dinanzi a lei.
L’altra a questo punto si alzò e io riuscii a vederla in volto: era la stessa persona con cui avevo trascorso ore di passione infuocata in una mansarda nel centro di Bucarest, Jenica Mantu. Elena Petrescu, invece, teneva tra le mani un cofanetto antico. Con gesti solenni lo consegnò al conducator, rimasto in disparte per tutta la durata della cerimonia. Nicolae Ceausescu lo aprì. Dal mio nascondiglio non riuscii a scorgere il contenuto, ebbi però modo di vedere l’anello che aveva preso. Lo riconobbi immediatamente: si trattava dell’Anello dei Re.
«I tuoi genitori naturali, anni addietro, hanno fatto sì che questo forziere giungesse integro sino a me. Per questo saremo eternamente grati a te e a loro, anch’essi membri dell’Ordine. Tutti voi avete fatto molto per la nostra nazione», disse Ceausescu rivolto a Jenica Mantu. Quindi il conducator fece cenno a Jenica di abbandonare la chiesetta.
Rimasto solo con la moglie, il conducator riprese a parlare: «Adesso è mio dovere riconsegnare il tesoro all’eroe che ne è l’unico proprietario».
Così dicendo Ceausescu nascose l’antico cofanetto, trattenendo però l’Anello dei Re e l’antico papiro, in una nicchia segreta.
Avevo visto abbastanza: era tempo di tornare indietro se non volevo venire scoperto.
Risalii in barca e mi diressi verso la terraferma. La nebbia si era infittita. Nella foschia udii il motore fuoribordo dell’imbarcazione di Ceausescu mentre questa mi stava oltrepassando.
Quando giunsi al moletto di legno il motoscafo era già là: con ogni probabilità, a un osservatore attento non era passata inosservata l’assenza della barca a remi.
Corsi a perdifiato. Quando giunsi nei pressi della radura mi fermai e, non senza difficoltà, orinai contro a un cespuglio. Raggiunta l’altana trovai Ceausescu ad attendermi. Aveva ancora in mano il fucile automatico. Accanto a lui si trovavano la moglie Elena e il guardacaccia.
«Le era stato raccomandato di non abbandonare la sua postazione, signor Breil», disse Ceausescu con aria severa.
«Ho avuto un bisogno impellente, conducator», risposi.
«Talmente impellente da esser costretto a prendere il largo, signor Breil?» Lo sguardo gelido di Elena Petrescu riuscì, ancora una volta, a mettermi a disagio.
«Preso il largo?» dissi incredulo. «Non capisco che cosa vuole dire, Elena. Non vorrei sembrare irriverente, ma mi doleva la vescica e ho orinato tra quei cespugli. Se volete potete verificare.»
«È quello che faremo», concluse Elena, gli occhi ridotti a fessure colme di odio.
Durante il viaggio di ritorno, nessuno aprì bocca: l’atmosfera a bordo dell’elicottero che ci riportava a Bucarest era glaciale.
Continuavo a ripensare a ciò che avevo visto: ogni particolare della vicenda mi era ormai chiaro. Te ne parlerò, ma ora non ne ho il tempo.
Una volta a casa avevo riletto con attenzione gli appunti da me raccolti durante la conversazione con Sciarra della Volta. Ho deciso che non abbandonerò mai questi due quaderni: qualunque cosa dovesse succedermi, se dovessero far parte dei miei effetti personali ci saranno maggiori probabilità che ti vengano consegnati, Oswald.
Sto combattendo contro forze capaci di sovrastare chiunque. Spero che un’attenta lettura del Pentateuco e un comportamento conforme ai doveri religiosi di un buon ebreo e alla legge mi siano d’aiuto nella sgradevole situazione in cui mi trovo.
Sara Terracini, profondamente scossa, trascrisse a fatica le ultime parole del diario. Nel gennaio 1968 Asher Breil e sua moglie Aliah erano stati travolti e uccisi da un camion su una strada alla periferia di Bucarest. Due nuove vittime di un pirata della strada, avevano titolato i giornali. Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena si erano detti molto addolorati per la scomparsa di un ottimo uomo d’affari e di due cari amici.
Nessuno, tra i ranghi del Mossad, aveva creduto nemmeno per un attimo che quella fosse stata una morte accidentale.
Cassandra Ziegler lesse ad alta voce il testo della nuova lettera del Giusto, quindi i suoi occhi azzurri si posarono su quelli di Oswald. La domanda che si ponevano era la stessa per tutti: «Che fare?» ma soprattutto «Come riuscire a farlo?»
«Mi stia ad ascoltare, Deuville», disse Oswald, dopo averci pensato un istante. «Se la battaglia deve essere persa, almeno cerchiamo di ottenere l’onore delle armi.»
«In che senso, dottor Breil?»
«Non credo che lei, direttore, passerà indenne attraverso la bufera che si abbatterà sul Bureau nel corso dei prossimi giorni. Se le mie convinzioni sono esatte abbiamo qualche ora di vantaggio sulla concorrenza per riscattare il buon nome di Deidra Blasey e, oltre al suo, salvare anche il nostro nobilissimo didietro.»
«Ci dica quali sono le sue idee e come ha intenzione di muoversi, Oswald.»
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
La piacevole chiacchierata si era protratta per tutto il tempo della discesa dai sentieri tra i boschi verso la cittadina dolomitica.
Lì giunti sedettero ancora una volta sulla terrazza all’aperto dell’hotel della Posta e il generale Sciarra si apprestò a concludere la sua storia che si era sviluppata attraverso quasi mezzo secolo…
«Una nuova guerra passò sopra le nostre teste. La mutilazione da me subita durante il primo conflitto mi aveva esonerato dalle azioni al fronte. Tuttavia ero molto impegnato. Ricordo quando Kimberly e io riportammo con noi Minhea Petru. Il fatto di non aver avuto figli ci permise di dedicare a lui tutto il nostro tempo e la nostra assistenza: il giovane e coraggioso nobile rumeno aveva bisogno di cure pressoché costanti.
«Le cose erano molto cambiate dopo il nuovo conflitto. La guerra tra i paesi del blocco occidentale e quelli al di là della cortina di ferro era finita solo in apparenza, ora se ne combatteva una che, in qualche modo, ricordava quella che avevamo sostenuto nelle trincee. Una guerra fatta di piccoli passi, informazioni, spionaggio. Ma era pressoché impossibile ottenere vittorie decisive con le armi in mano, perché si sarebbe corso il rischio di distruggere l’intero pianeta. Bisognava conquistare il favore dei popoli e soprattutto i loro sistemi economici. In quella direzione si stavano muovendo i potenti della terra.»
Stati Uniti d’America, 1941
Béla Lugosi non rimase inattivo di fronte al nuovo conflitto: da un divo di Hollywood ci si aspettava che prendesse posizione contro le crudeltà commesse dal nemico. E un attore, giunto a Hollywood dalla lontana Europa, aveva una ragione in più per rendersi utile a quell’America alla quale doveva tanto.
Gli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale erano stati molto impegnativi per l’ungherese. Nel frattempo la sua favolosa ricchezza era diventata materia di leggende quanto, e forse più, i suoi lugubri spettacoli.
Spinto da un lodevole spirito patriottico, e dalla lungimiranza del suo agente, Béla fu tra i fondatori dell’Hungarian Anti-Fascist Committee. Per raccogliere fondi organizzò una tournée in giro per il paese. I proventi degli spettacoli venivano destinati a sostenere la resistenza in Europa e a soccorrere le vittime del nazismo.
I coniugi Bàlaj avevano messo in programma la nascita di un figlio, non tanto per un reale desiderio di procreazione quanto per dare un aspetto di normalità alla loro esistenza in America. I due agenti segreti avevano giurato fedeltà eterna alla causa comunista. Ancora prima di giungere negli Stati Uniti e di avviare una soddisfacente attività commerciale che fungesse da copertura, si erano legati ai servizi segreti della Russia comunista. Con il crescere del numero dei paesi favorevoli alla politica sovietica, ottenuto il benestare del KGB, i Bàlaj avevano iniziato a offrire i propri servigi anche ad alcuni paesi del blocco.
Ci pensava il servizio di spionaggio russo a smistare le notizie che riteneva degne di nota. Inutile dire che, fra le tante informazioni che i Bàlaj passavano all’URSS, erano poche quelle che avrebbero abbandonato gli archivi segreti del palazzo della Lubjanka, sede del KGB.
In tale contesto, Béla Blasko era una sorta di sorvegliato speciale e la sua scheda era gestita da un’altra organizzazione, il Komitet Gosudarstvennoi Bezopasnosti, il comitato per la sicurezza dello Stato sovietico. L’archivio dei Bàlaj era costituito da oltre ventimila soggetti schedati con meticolosa precisione. E tra questi figuravano persone influenti nella politica e nell’industria americana.
Quando si era presentata dinanzi a Béla Lugosi, con la scusa di chiedergli un autografo, Bryga Bàlaj era al settimo mese di gravidanza. Era l’estate del 1941.
«Sono davvero emozionata di esserle vicino, signor Lugosi», aveva detto in magiaro la signora Bàlaj. «Mi userebbe la gentilezza di farmi un autografo?»
Teofil si era tenuto in disparte: sebbene fosse pressoché impossibile che Blasko lo riconoscesse, pensava fosse meglio essere prudenti. Il vederli insieme avrebbe potuto risvegUare nell’attore ricordi lontani.
«Ma certo, signora», aveva risposto Lugosi, quindi, indicando la pancia della donna, «e, se mi permette vorrei dedicare il mio autografo a questo nascituro con sangue ungherese. Come si chiamerà il bambino che verrà al mondo in terra d’America?»
«Grazie, signor Lugosi. In realtà soltanto suo padre è ungherese, non io. Se sarà maschio lo chiameremo Toma, ma io sono convinta che sia una femmina e la vorrei chiamare Jenica.»
«Allora scriverò così: ‘Per Jenica (o Toma?), con affetto, Béla Lugosi’.»
«Ancora grazie!» esclamò la donna, mentre i suoi occhi si soffermavano sull’antico anello d’oro che il principe delle Tenebre di Hollywood portava al dito indice.
Pochi mesi più tardi un fiocco rosa sulla porta del negozio nel quartiere francese di New Orleans informava i clienti che Jenica Bàlaj era venuta al mondo.
Béla Lugosi non aveva prestato grande attenzione alla donna incinta e quell’incontro fu subito dimenticato. Sembrava che l’attore volesse raggiungere al più presto il suo camerino: ad aspettarlo c’era una scatola d’argento, all’interno della quale erano contenuti dei piccoli cristalli di morfina. Da qualche tempo Béla si era rifugiato negli oppiacei: diceva a se stesso che questo era l’unico modo per sfuggire alla tensione della sua frenetica vita.
Ma in realtà si trattava di un alibi: Lugosi non riusciva a rassegnarsi all’idea che, dopo un decennio di trionfi, la sua carriera avesse imboccato la via del declino.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
Minhea Petru si risvegliò all’improvviso, una mattina dell’ottobre del 1949, nel momento in cui la radio diffondeva la notizia della nascita della Repubblica Popolare Cinese.
I medici avrebbero definito quell’inattesa uscita dal suo stato di torpore come un inspiegabile miracolo.
Gli occhi di Petru, rimasti spenti e vuoti per quasi vent’anni, si animarono senza alcun preavviso e, così come ne era uscito, il principe rumeno rientrò nel mondo dei vivi.
Furono necessari altri quattro anni, nel corso dei quali Minhea si applicò con grande costanza in estenuanti esercizi di riabilitazione fisica e mentale, prima di poterlo considerare del tutto ripreso.
«Non so davvero come potrò mai ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me, Alberto. Senza di voi sarei rimasto senza il calore di una famiglia, e forse è stato anche il vostro affetto a farmi tornare alla vita», aveva detto il rumeno rivolto ai coniugi Sciarra. «Credo di essere stato un peso non da poco per te e per Kimberly, e ora è giunto il momento che io lasci libero lo spazio che ho occupato sino a oggi nella vostra esistenza. Ma voglio che sappiate che la mia gratitudine nei vostri confronti sarà eterna.»
«Che cosa vuoi dire, Minhea?» aveva chiesto Sciarra, consapevole che nulla avrebbe potuto impedire a Petru di riprendere la sua strada.
«Voglio dire che in questi ultimi quattro anni ho lavorato sodo con una sola idea nella testa: portare a termine la mia missione. Partirò per l’America con il primo piroscafo.»
Stati Uniti d’America, 1950
La piccola Jenica cresceva sana, forte e incredibilmente bella: fisicamente non assomigliava ai suoi genitori, ma da entrambi aveva ereditato il carattere freddo e determinato.
«Guarda qui: il nostro vecchio rapporto sull’attore ungherese sembra che abbia smosso le acque», aveva detto Teofil alla moglie, passandole un messaggio cifrato che gli avevano appena consegnato.
«Il nostro contatto mi ha detto che il rapporto su Béla Lugosi-Olt-Blasko è stato esaminato da un pezzo grosso del governo rumeno», aveva continuato Teofil. «Sembra che un viceministro sia molto interessato alla carriera dell’attore ungherese. Mi sono state richieste ulteriori informazioni sull’anello che tu gli hai visto al dito. Pare che sia un oggetto antichissimo a cui questo ministro deve tenere molto.»
«In realtà non ci avevo fatto molto caso, allora. E non saprei come reperire altre notizie oltre a quelle che abbiamo già raccolto. Sai anche come si chiama il mio connazionale interessato all’anello?» chiese Bryga Bàlaj rivolta al marito.
«Attualmente riveste il ruolo di viceministro delle Forze armate, ma mi dicono sia un giovane che farà molta carriera all’interno del partito. Si chiama Nicolae Ceausescu o qualche cosa di simile.»
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
Quando Minhea Petru varcò la soglia dell’hotel Plaza su Fifth Avenue, nella primavera del 1954, ebbe la sensazione che il tempo si fosse fermato alla mattina di ventitré anni prima, quando era uscito a comprare il liquore nella distilleria clandestina nella Nona. Ma questa volta era risoluto ad arrivare sino in fondo e nulla lo avrebbe fermato.
Un uomo maturo ma dall’aspetto giovanile gli si fece incontro. «Signor principe Petru, lei non sa quanto sono felice di rivederla…»
«Cesare?» chiese Minhea, mentre la finestra dei suoi ricordi gli si spalancava dinanzi agli occhi.
«Sì, signore, sono proprio io. Il giovane cameriere di un tempo. Ho fatto carriera: ora sono il vicedirettore dell’albergo. Sa, signor principe, non riuscivo a darmi pace dopo la sua scomparsa, me ne sentivo quasi responsabile.»
«L’unico ad avere colpa per quanto è accaduto sono io, non certo lei o chiunque altro, Cesare.»
«Grazie, signore, sono felice di darle il bentornato. L’hotel Plaza è lieto di mettere a sua disposizione la solita suite all’ottavo piano, signor principe.»
Romania, 1462
Stavano in silenzio, nascosti tra la fitta vegetazione, a poca distanza dalla riva. Simili a un branco di lupi famelici, gli uomini di Dracula osservavano le operazioni di sbarco dell’esercito nemico. E come lupi uscirono dai nascondigli, spronando i cavalli sino a sfiancarli, manifestando il desiderio di uccidere che avevano nel cuore, sguainando le lame lucenti che riflettevano i raggi di un timido sole primaverile.
Le truppe turche avevano utilizzato settanta tra zattere e imbarcazioni leggere per attraversare il Danubio. Lo scontro era inevitabile, Dracula lo sapeva bene e sperava che il re d’Ungheria, Matthias, gli inviasse al più presto rinforzi e truppe fresche. Ma i soldati tardavano ad arrivare e i turchi nel frattempo avevano scavato delle trincee e puntato i loro micidiali cannoni contro le postazioni valacche.
Non c’era tempo da perdere.
«Pronti ad attaccare i turchi non appena sbarcheranno il secondo contingente», aveva detto Dracula ai suoi, indicando le zattere che si accingevano a effettuare un nuovo trasbordo.
Il primo assalto di cavalleria fu devastante: mentre l’esercito del sultano Mehmed II era intento alle operazioni di sbarco, la cavalleria guidata da Dracula si abbatté sugli invasori con una forza dirompente. Almeno trecento turchi furono uccisi in una sola carica, prima che avessero avuto modo di organizzare la loro difesa.
Ci volle qualche tempo perché i musulmani si riprendessero dallo smarrimento, poi si asserragliarono alle spalle del centinaio di cannoni che avevano già trasportato al di là del fiume e misero i pezzi in batteria. Allora i generali turchi ordinarono il fuoco e dispersero la cavalleria assalitrice.
La battaglia lungo le rive del Danubio non durò a lungo: Dracula sapeva bene che, perso l’effetto sorpresa, il suo esercito era estremamente vulnerabile. Fu sufficiente un ordine del principe di Valacchia, e i suoi uomini scomparvero in brevissimo tempo nella foresta. La ritirata di Dracula verso l’interno della Romania era iniziata.
La tecnica della guerriglia era stata usata da Dracula nel corso di tutte le ultime battaglie: il principe era consapevole dell’inferiorità numerica del suo esercito rispetto a quello del nemico, per questo mirava all’annientamento psicologico dell’avversario. I suoi uomini sbucavano all’improvviso dal nulla e colpivano come predatori. Dopo aver causato morte e terrore, così come erano venuti i soldati valacchi scomparivano di nuovo, simili a fantasmi capaci di svanire nel nulla dopo ogni assalto.
I turchi avanzavano incerti: nelle truppe si era diffusa la leggenda di un esercito nemico invincibile e formato da fantasmi immortali e ferocissimi.
Dracula, tenendo a freno l’irruenza del suo destriero nero e lucente, aveva ordinato: «Dovete abbandonare il villaggio e rifugiarvi sulle montagne».
«Perdonatemi, altezza, ma noi qui abbiamo tutto quello che possediamo», gli aveva risposto il boiaro che reggeva la cittadina. «Molti di noi preferiscono resistere e combattere per tentare di salvare le loro case e le loro famiglie.»
«Da quella direzione», aveva detto Dracula indicando la strada che portava al Danubio, «stanno arrivando oltre trentamila soldati turchi agli ordini di Mehmed. E voi sperate che i vostri sporchi e inesperti uomini e le fragili mura di questa città possano fermarli? Avete ancora qualche ora di tempo. Radunate i cittadini, dite loro di portare con sé tutto ciò che possono e mettetevi in salvo. È un ordine. Voi sapete dopo quali e quanti supplizi i turchi uccidono i loro prigionieri, non è vero?»
Così come aveva fatto per ogni altro villaggio o città incontrati nel corso della sua ritirata, Dracula, una volta che gli abitanti si erano allontanati, aveva appiccato il fuoco alle case e aveva avvelenato l’acqua dei pozzi.
«I turchi dovranno incontrare soltanto terra bruciata lungo il loro cammino», diceva il principe mentre i bagliori dell’incendio ne illuminavano gli occhi freddi come il ghiaccio.
E così era stato: l’esercito invasore, sempre più demoralizzato e stanco, si era visto costretto a marce forzate per approvvigionarsi d’acqua e di viveri che si erano ormai resi irreperibili. Le avanguardie di soldati turchi incaricate della ricerca, inoltre, costituivano la più appetibile preda per gli attacchi dei guerriglieri di Dracula.
Ma il peggio doveva ancora venire: la sottile mente del principe aveva in serbo alcune sorprese per piegare definitivamente il nemico.
La tenda del sultano si trovava al centro dell’accampamento. Era riconoscibile dall’esterno per le sue dimensioni e per la ricercatezza delle finiture. I soldati musulmani avevano marciato per sette giorni senza trovare un pozzo che non fosse contaminato, né viveri freschi, e l’esercito stremato godeva finalmente di alcune ore di riposo. Il caldo, in quell’estate del 1462, rappresentava un altro nemico da combattere: molti turchi erano morti a seguito del propagarsi di malattie dovute alla malnutrizione, alla mancanza d’acqua e al clima torrido. Ma finalmente la meta sembrava a portata di mano: la capitale Tirgoviste distava ormai pochi giorni di marcia.
Ancora una volta il branco famelico di lupi assalì i turchi all’improvviso. Dracula, alla guida di un piccolo manipolo, piombò sull’accampamento armi in pugno. L’intento del principe era quello di raggiungere la tenda del sultano e assassinarlo.
Come furie i valacchi lanciavano i destrieri negli spazi tra le tende e si accanivano contro ogni soldato nemico che osava pararsi loro dinanzi.
Mehmed II era un abile combattente, ma fu colto di sorpresa: i suoi nemici stavano raggiungendo il centro del campo.
«Presto, armatevi e difendiamoci!» disse il sultano, impugnando la scimitarra e ponendosi alla guida dei suoi che sbandavano in preda al terrore.
Quell’incitamento fu da sprone alla riscossa: seguendo il loro condottiero, i turchi organizzarono la difesa, riuscendo infine a respingere l’assalto a pochi passi dalla tenda di Mehmed. Il prezzo che pagarono fu però altissimo: un migliaio di soldati persero la vita e innumerevoli furono i feriti.
Tra i valacchi caddero un centinaio di cavalieri.
«Avanti, parla: quali sono i piani del tuo principe Dracula?» aveva chiesto il gran visir Machumet a un cavaliere che i suoi uomini avevano catturato.
L’altro rimase in silenzio, mentre una folla di soldati si raccoglieva intorno a loro per vedere come si sarebbe concluso l’interrogatorio. Il cerchio si aprì, il sultano Mehmed sopraggiunse per rivolgere alcune domande al prigioniero.
«Il gran visir ti ha chiesto di rivelarci i piani di Dracula e in cambio avrai salva la vita. Mi hai compreso?»
Il fedele soldato di Vlad continuò a tacere.
«Vediamo se questo riuscirà a scioglierti la lingua», disse il visir mentre due enormi soldati si avvicinavano tenendo una grossa sega di quelle utilizzate per abbattere gli alberi. «Ti farò segare in due se non parli.»
Per tutta risposta il cavaliere si sdraiò, invitando il gran visir a dare subito l’ordine di ucciderlo.
Non un lamento uscì dalla sua bocca mentre veniva tagliato in due pezzi all’altezza dello stomaco.
Buona parte dell’esercito turco aveva assistito ammutolito all’eroismo con cui il soldato aveva affrontato una morte atroce: quel comportamento aveva rafforzato nei musulmani il timore di trovarsi di fronte a una leggendaria armata di invincibili.
L’attacco era fallito: il sultano era ancora vivo, ma Dracula era certo che gli animi dei nemici avessero subito un fiero colpo.
Quando Mehmed, vestito con i paramenti regali, entrò in Tirgoviste, dovette combattere contro il nulla: la capitale era deserta, i pozzi avvelenati e le poche riserve di cibo rimaste erano state date alle fiamme.
Mehmed fece un giro completo su se stesso, una volta all’interno delle mura.
«Dove ti nascondi, creatura infernale?» gridò il sultano, mentre, nel silenzio della città abbandonata, risuonava solo l’eco della sua voce.
Qualche palazzo era stato risparmiato dalle fiamme. I turchi vi entravano, allettati dal miraggio di un ricco bottino, ma ne uscivano poco dopo a mani vuote: ogni sacra reliquia o tesoro era stato portato via dai cittadini in fuga.
Come una furia il sultano balzò nuovamente a cavallo e urlò, rivolto ai suoi uomini: «In marcia! Dobbiamo scovarlo, non può essere lontano!»
La gola si trovava poco lontano, a nord di Tirgoviste: da sempre era stata eletta a luogo ideale per le imboscate degli uomini di Dracula. Mehmed intuiva il pericolo che poteva nascondere quel luogo angusto e perciò aveva ordinato ai suoi di muoversi con circospezione. Quando le vedette andate in avanscoperta tornarono indietro, fu come se avessero appena incontrato il demonio: frustavano a sangue i cavalli per mettere quanta più distanza potevano tra loro e il signore degli inferi.
Lo spettacolo dinanzi al quale i turchi, data la posizione in cui ormai si trovavano, sarebbero stati obbligati a passare era macabro e spaventoso: la gola era lunga un migliaio di metri. Il terreno era stato trasformato in una sorta di fitto bosco di pali sui quali erano stati infilzati vivi uomini, donne o bambini, poi orribilmente mutilati dagli uccelli e sfigurati dal procedere della decomposizione.
Molti erano lì da tempo, e all’interno delle loro gabbie toraciche avevano nidificato i merli o altri volatili.
Mehmed distolse lo sguardo dalla scena. In quel cimitero gli oltre ventimila cadaveri fungevano da monito: così erano finiti coloro che avevano osato tradire Dracula.
Il fetore era insopportabile.
In una piccola zona rialzata erano stati impalati i prigionieri turchi catturati dai valacchi nel corso della campagna militare di Mehmed.
Pochi giorni più tardi l’esercito turco aveva annunciato la sua ritirata.
«Si dice che il numero dei condannati a morte tramite l’impalazione per ordine del principe di Valacchia sia superiore a duecentomila», aveva detto al sultano il gran visir, mentre si accingevano a rientrare nei territori assoggettati alla Turchia al di là del Danubio.
«Quello che dobbiamo scovare è il lato debole di Dracula: la sua ferocia potrebbe essere la leva sulla quale agire per ottenere qualche risultato», aveva detto il sultano con aria pensosa. «Stai meditando di fomentare una rivolta, mio signore?» «La pace interna è da sempre una chimera per le turbolente regioni dell’Europa orientale. Noi conosciamo forse meglio degli occidentali quanto potere abbiano la diffusione del dubbio e il timore del tradimento tra le file del nemico. Un potere sicuramente maggiore di quello che ha appena mostrato il nostro esercito in armi. Non credo dovremo andare molto lontano per trovare chi farà da miccia per accendere le polveri.»
Radu, il fratello che aveva condiviso con Dracula la prigionia e che si era rifiutato di seguirlo nella fuga, si era perfettamente adattato ai costumi dei turchi. I due sultani che si erano avvicendati dal giorno del suo arrivo a palazzo non gli avevano mai fatto mancare nulla, nemmeno quelle attenzioni particolari a cui si diceva che Radu il Bello non fosse insensibile.
Facendo leva sulla ferocia che Dracula mostrava anche nei confronti dei suoi stessi sudditi, alcuni infiltrati al soldo di Mehmed fecero serpeggiare il tarlo della rivolta tra i nobili locali che, sempre più numerosi, presero a inneggiare a Radu come loro signore. La situazione capitolò in breve tempo.
Dracula era solo. Ogni richiesta d’aiuto era rimasta inascoltata anche dai suoi più fedeli sudditi.
«Solo pochi anni fa è stato recitato in ogni chiesa cristiana il Te Deum, e le campane da Roma a Parigi hanno suonato a festa in mio onore come segno di ringraziamento solenne per aver respinto gli invasori infedeli. Oggi mio cugino Stephen di Moldavia si è alleato con Radu contro di me. Non credo manchi molto alla fine, moglie mia», aveva detto Vlad Dracula asciugando una lacrima sul volto della donna.
Poco fuori dal maniero di Poenari, costruito tempo addietro dai nobili resi schiavi, le truppe nemiche si andavano radunando per l’assedio.
Contingenti turchi nell’autunno avevano nuovamente varcato il Danubio e avevano affiancato gli insorti sotto il comando di Radu.
Vlad III Dracula sapeva che la sua resistenza sarebbe durata poco.
Il figlio di Vlad aveva appena due anni e cominciava a muovere i primi passi. Il bambino sorrise al padre: un sorriso spensierato che non riusciva a mascherare la straordinaria somiglianza con Dracula. Il principe, guardandolo, tradì un’espressione di cui nessuno avrebbe mai detto fosse capace: i suoi occhi di ghiaccio parvero per un momento percorsi da un moto d’amore. Vlad III Dracula si tolse la catena d’oro che portava al collo. Forzò una maglia e vi inserì l’Anello dei Re, prima di richiudere la catena e di cingerla al collo del bambino.
Quindi tornò nella sala del castello, dove i suoi generali lo aspettavano per preparare con lui un piano di fuga. Lì rimase per tutta la giornata, sino a che un servo non lo andò a chiamare: sua moglie, in preda alla disperazione, si era suicidata gettandosi da una torre del maniero. Il 1462 volgeva alla fine e l’inverno si annunciava rigido e cupo.
Doveva tentare a ogni costo la fuga, doveva salvare la vita di suo figlio.
I ferri vennero inchiodati al contrario sotto gli zoccoli dei cavalli: chiunque avesse visto le loro tracce sulla neve appena scesa non avrebbe mai pensato che si trattasse di fuggitivi, bensì di un contingente che si era recato al castello per dar manforte al principe.
Protetti dalle tenebre, Dracula e una dozzina dei suoi erano usciti da un passaggio segreto che sbucava fuori dalle mura. Una volta elusa la sorveglianza del nemico, sarebbero fuggiti in direzione di Brasov: in quella città, infatti, era accampato col suo esercito il re d’Ungheria, Matthias. Il re non gli avrebbe negato il suo aiuto.
Il principe cavalcava il suo destriero tenendo stretto tra le ginocchia il figlio.
I cannoni del castello spararono una salva contro le milizie di Radu. Era una mossa che faceva parte del piano di Dracula per distogliere l’attenzione degli assediami dai fuggitivi. I musulmani risposero al fuoco come indiavolati: i proiettili caddero un po’ ovunque, anche molto vicino al gruppetto dei fuggiaschi. Il cavallo montato da Dracula si imbizzarrì, si drizzò sulle gambe posteriori cercando di disarcionare il cavaliere, quindi si lanciò in un galoppo che nemmeno un esperto fantino come il principe poté fermare. Quando finalmente Vlad riuscì a domare l’animale, si accorse con sgomento che il bambino non si trovava più tra le sue gambe e che i legacci con cui lo aveva assicurato si erano spezzati.
Dracula percorse a ritroso la via: del piccolo non trovò traccia. Dovette abbandonare le ricerche quando, giunto nei pressi del castello, notò che era in corso un attacco da parte degli assediami e che pattuglie di militari turchi stavano setacciando la zona in cerca di eventuali fuggitivi. Non poteva correre il rischio di venire catturato: sarebbe tornato a cercare suo figlio con i rinforzi che Matthias gli avrebbe senz’altro concesso.
Ma l’accoglienza che attendeva Vlad fu ben diversa dalle aspettative del principe.
«Devo tornare sui miei passi, maestà, ritrovare mio figlio e cacciare gli invasori dalle terre cristiane», disse Dracula rivolto al re, una volta che fu al suo cospetto.
«Le mie truppe devono restare a presidiare i confini del paese. Su quanti uomini puoi contare, Vlad?»
«Non più di qualche centinaio», rispose Dracula.
«Potrei fornirti un piccolo contingente di mercenari slovacchi, comandati da un certo Jisk di Brandys. È un uomo a me fedele e un valoroso.»
«Qualunque cosa, maestà. Per me l’importante è conoscere quale destino ha incontrato il mio piccolo.»
Il drappello si arrestò dinanzi a un precipizio che sbarrava il percorso.
Gli uomini di Dracula e i carri vennero calati nella gola.
Il principe si accorse troppo tardi di essere rimasto solo sulla rocca: intorno a lui c’erano soltanto i mercenari che il re gli aveva messo a disposizione.
«Ho l’ordine di arrestarti, Vlad Dracula», disse con aria grave il comandante dei mercenari Jisk di Brandys.
Dracula aveva tentato una reazione, e almeno cinque avversari erano caduti sotto i colpi della sua spada, prima che i soldati avessero il sopravvento su di lui.
L’uomo camminava con il capo chino, cercando di scaldare con il proprio fiato le mani gelide e deformate dai calli.
La notte era illuminata dai colpi di cannone che piovevano sul castello.
«Poco importa alla campagna delle lotte tra i potenti: il grano va seminato in inverno e raccolto in estate, qualunque sia il principe di turno», mormorava tra sé il contadino, con la saggezza della gente semplice.
Il pianto, flebile come un lamento, arrivò sino alle sue orecchie.
Si fermò e si mise in ascolto. Quindi si mosse verso un cespuglio, rovistò per qualche minuto nel sottobosco. Il pianto si era fatto più vicino. Si fermò di nuovo ad ascoltare.
Il bambino era sdraiato tra l’erba. Mostrava una vistosa ferita sulla fronte, probabilmente conseguenza di una brutta caduta che gli aveva fatto perdere i sensi. Il piccolo era vestito con abiti caldi e costosi: forse anche per quello era riuscito a sopravvivere ai rigori della notte.
Il brav’uomo si chinò e lo prese in braccio, quindi lo tastò per verificare che il corpo del bambino non presentasse altre ferite.
L’Anello dei Re infilato nella catena catturò l’attenzione del contadino: non erano molti i bambini che potevano permettersi tali abiti e certi gioielli.
Quella stessa mattina era circolata la voce che il principe Dracula e suo figlio fossero riusciti a fuggire nel corso della notte. L’uomo nutriva più di un sospetto sull’identità di quel bambino. Il contadino si fece il segno della croce: quello era un segnale di Dio. Se qualcuno avesse reclamato il piccolo, lui lo avrebbe restituito.
«Altrimenti», disse rivolto al piccolo, come se potesse comprenderlo, «ho già quattro figli: le mie bestie e i miei campi riusciranno a dar da mangiare anche a un quinto. Che tu sia il benvenuto, Iosua. Sì, ti chiamerò Iosua.»
E si avviò verso casa.
Settembre 2004
Oswald stava leggendo ad alta voce l’ultima missiva ricevuta.
Le loro riunioni, dopo che Cassandra Ziegler era stata sospesa, non si svolgevano più nei lussuosi e ovattati uffici dell’FBI. La saletta di un ristorante o una stanza d’albergo erano tutto ciò a cui potevano aspirare per confrontare opinioni e fare programmi. Anche le loro possibilità di azione si erano notevolmente ridotte: Oswald e Cassandra, ora, erano due privati cittadini e nulla di più.
Ho deciso che festeggeremo la vigilia del primo giorno del mese di Ramadan e il 10 del mese di Dhul-Hijja 1425 nel modo migliore: preparandoci al futuro.
Come sempre il Libro mi è venuto in aiuto per scegliere le modalità per onorare i precetti: per la prima delle «ricorrenze» infatti dice:
«Si trovava all’orizzonte più elevato».
«Per quelli che sono miscredenti non basteranno i loro beni e i loro figli per metterli al riparo da Allah. Saranno combustibile del Fuoco.»
«Questa volta», aveva detto Oswald, «se l’intenzione del Giusto è davvero quella di agire il primo giorno del Ramadan e il 10 del dodicesimo mese lunare del calendario islamico, il mese di Dhul-Hijja, dovremmo avere un po’ più di tempo. Le date indicate, nel calendario gregoriano, corrispondono rispettivamente al giorno prima del 15 ottobre 2004 e a venerdì 21 gennaio 2005. Il fatto che oltre un mese ci separi dalla prima delle date non deve però indurci alla calma: da questo momento siamo rimasti soli, tu e io, alla ricerca della verità.»
Così dicendo Oswald indicò il letto della sua stanza d’albergo, letteralmente sommerso dai quotidiani di tutto il mondo. La notizia, a titoli cubitali in prima pagina, era la stessa per tutti: CATTURATO IL GIUSTO! Seguivano poi sottotitoli inquietanti del tipo: «Il pericoloso terrorista, una donna, colonnello dei marine, viaggiava su un velivolo di proprietà dell’FBI in compagnia di una dirigente federale e di Oswald Breil, già capo del Mossad ed ex primo ministro di Israele. L’ombra di un complotto dietro al vendicatore antimusulmano?»
«Siamo nella merda sino al collo, Oswald», disse Cassandra, passandosi una mano tra i capelli.
«Non proprio, Cassandra, se ti può consolare ho passato momenti peggiori. A ogni modo, il mio motto è ‘non scoraggiarsi mai!’»
«Non mi scoraggio, sono realista.»
Oswald sorrise, guardò l’orologio, fece il calcolo della differenza d’orario e compose un numero sulla tastiera del telefono.
«Mai pensare che un ebreo si possa trovare da solo», disse ancora Breil, appoggiando una mano sul microfono mentre aspettava che, a Tel Aviv, qualcuno rispondesse alla sua chiamata.
«Agli ordini, maggiore», rispose la voce squillante di Bernstein all’altro capo della linea.
«Quanto dista da lei un computer, capitano?»
«Poco più di un palmo dal mio naso.»
«Se ne ha voglia ci facciamo una chiacchierata in linea.»
«Lei sa che per me è sempre un enorme piacere conversare con lei.»
Pochi minuti più tardi i due dialogavano utilizzando una linea protetta dai più elaborati sistemi di crittografia e antintrusione esistenti.
‹… E QUESTO È TUTTO, CAPITANO. LE RIGHE CHE LE HO APPENA INVIATO CORRISPONDONO AL TESTO ESATTO CHE ABBIAMO RICEVUTO DAL GIUSTO.›
‹ARGUISCO CHE ANCHE LEI RITIENE, AL CONTRARIO DELLA CIA E DELL’OPINIONE PUBBLICA MONDIALE, CHE IL COLONNELLO BLASEY NON SIA LA RESPONSABILE DEGLI ATTENTATI, DOTTOR BREIL.›
‹ESATTAMENTE, CAPITANO, E LA LETTERA SPEDITA NEL MOMENTO IN CUI NOI ERAVAMO IN VOLO SULL’ATLANTICO POTREBBE ESSERE LA PROVA A FAVORE DELLA MIA TEORIA.›
‹QUANTO TEMPO MI CONCEDE, MAGGIORE?›
‹POCO, CAPITANO. DOBBIAMO RISOLVERE ENTRAMBI GLI ENIGMI BEN PRIMA DELLA SCADENZA.›
‹CI PROVERÒ. VEDO COMUNQUE CHE PER LEI È IMPOSSIBILE PERDERE IL BRUTTO VIZIO DI COMPARIRE SULLE PRIME PAGINE DEI GIORNALI, MAGGIORE.›
‹COSA VUOLE CHE LE DICA? NOI STAR NON RIUSCIAMO A STARE TROPPO LONTANO DALLE LUCI DELLA RIBALTA. MA AL DI LÀ DELLE BATTUTE DI SPIRITO, QUELLO CHE MI AUGURO È CHE L’OTTUSITÀ DI ALCUNI NON PROVOCHI UN NUOVO SPETTACOLO «PIROTECNICO».›
Quindi, dopo essersi congedato dal capo della Sezione 8200, Oswald si rivolse a Cassandra. «Adesso dobbiamo cercare di tirare fuori dai guai la Blasey. Hai preso appuntamento con Glakas?»
«Ho dovuto insistere parecchio. Ha minacciato di non ricevermi, sino a che non gli ho detto di dovergli consegnare una nuova lettera del Giusto e che, dato che era stata indirizzata personalmente a me, e che io sono ormai sospesa dal servizio, mi ritenevo libera di divulgare la notizia alla stampa. Solo a quel punto Glakas è riuscito ‘a trovare un buco nella sua agenda’.»
Glakas li accolse con modi falsamente amichevoli che stonavano con i provvedimenti da lui adottati nel corso dell’intera vicenda: un po’ di sana rivalità avrebbe potuto anche essere stimolante per i componenti dei due maggiori servizi federali di intelligence, ma la piega che l’uomo aveva fatto prendere alla faccenda sin dalle prime indagini andava oltre qualsiasi regola.
«Mi dispiace che tu ti sia dovuta trovare in questo guaio, Cassandra. Del resto ti era stato detto in tutti i modi di startene alla larga. Quanto a lei, dottor Breil, sono molto lusingato di riceverla, ma le devo ricordare il carattere del tutto informale di questa visita. Veniamo a noi: mi dicevi che ti è arrivata un’altra lettera.»
«Sì, certo, una lettera che reca il sigillo del Giusto e che scagiona Deidra Blasey», rispose Cassandra.
«Posso vederla?»
«Certamente, sono qui per consegnartela.»
Glakas, indossati un paio di guanti di lattice, estrasse la busta dal sacchetto trasparente su cui spiccava stampigliata in bianco la scritta FBI EVIDENCE.
Glakas osservò il timbro postale.
«Come vedi non è possibile che l’abbia spedita la Blasey.»
«Potrebbe averla imbucata un complice, un ignaro dipendente di un centro di logistica o il concierge di un albergo che ha ricevuto istruzioni in merito.»
«Che cosa pensa di fare, signor Glakas? Aspettiamo che saltino in aria qualche altro centinaio di musulmani o ha intenzione di svolgere le indagini che le sono state affidate in esclusiva?» chiese Oswald, che stava perdendo la pazienza di fronte all’evidente malafede del dirigente della CIA.
«Come le ho già detto, signor Breil», rispose Glakas, che, una volta ottenuta la lettera, non aveva più alcun interesse a trattenersi con quegli scomodi visitatori, «lei qui è soltanto un ospite e mi auguro che come tale si comporti. Se non sbaglio, il paese che fa della caccia all’arabo uno scopo di vita è quello del quale lei è stato primo ministro. In ogni caso non sono autorizzato a divulgare lo stato delle indagini. Credo che la nostra conversazione si possa considerare conclusa. Buona giornata, dottor Breil. Molti auguri per la tua futura carriera, Cassandra», concluse bruscamente Glakas, senza nemmeno alzarsi dalla poltrona girevole su cui si era dondolato tutto il tempo.
«Abbiamo fatto quanto potevamo con lui. Ora non ci rimane altro che aspettare: spero davvero che Glakas ci dia retta», disse Cassandra, non appena furono fuori dal palazzo sede della CIA, una costruzione progettata negli anni ’50 dal famoso studio di New York Harrison Abramovitz.
«Io non riesco a essere ottimista, Cassandra», rispose Breil. «Sarà solo una sensazione, ma ho avuto l’impressione che Glakas non abbia alcuna intenzione di riaprire le indagini per un caso che considera chiuso.»
«Mi auguro che tu ti stia sbagliando. Per il bene di tutti. Hai davvero deciso di partire, Oswald?»
«Sì, Cassandra. Credo che qualche giorno dai miei genitori adottivi in Colorado non possa farmi altro che bene. Ho bisogno di staccare per un po’, e poi c’è un’altra questione della quale vorrei venire a capo…»
«Quella di cui mi hai accennato, che riguarda il sigillo con cui il Giusto si firma e che coinvolge i tuoi genitori e non ho capito cos’altro?»
«Esatto, Cassandra.»
«Naturalmente non posso chiederti di più. Non è vero?»
«Ti prometto che saprai presto ogni cosa. Molto presto, mi auguro.»
«Vorrei anche un’altra rassicurazione da te, Oswald… Non metterai da parte la nostra questione?»
«Come potrei ignorare un problema che mette a repentaglio la vita di tanti innocenti?»
«Vuoi che ti accompagni all’aeroporto?»
«Non ce n’è bisogno. Ma mi dispiace di lasciarti tornare da sola.»
«Avrò sicuramente paura senza la tua protezione, Oswald. Il centro di Washington dista da qui ben tredici chilometri!»
«Ti accompagno alla macchina, così recupero la mia valigia. Poi prenderò un taxi.»
L’auto di Cassandra si trovava nel parcheggio riservato ai visitatori, poco distante dal palazzo.
Non appena furono vicino all’automobile, la donna prese dalla borsa la chiave con il telecomando di apertura.
«Aspetta!» le gridò Breil.
«Che cosa succede, Oswald?»
«La tua auto ha un sistema automatico di chiusura dei cristalli? Quei marchingegni tipo sistemi d’allarme che chiudono automaticamente i vetri quando sono stati dimenticati aperti?»
«L’unica diavoleria elettronica è il sistema telecomandato di accensione. Mi hanno detto che questa macchina era destinata ai mercati dell’Alaska e che per questo era stato predisposto un optional in più. Non l’ho mai usato, ma dicono che sia utile quando le temperature sono molto rigide e si vuole riscaldare l’abitacolo prima di salirvi. Perché me lo chiedi?»
«Non so: ero sicuro d’aver lasciato due dita del mio finestrino aperto, cosa che faccio sempre quando esco da un’auto sulla quale dovrò risalire entro breve tempo. Guarda: il finestrino è chiuso. Hai con te il telecomando per la messa in moto a distanza?»
«Sì, certo, è questo pulsantino rosso sulla chiave.»
Dall’ufficio di Glakas si vedeva il parcheggio ospiti. Il dirigente della CIA si affacciò, come buona parte dei suoi colleghi, subito dopo che una violenta esplosione ebbe scosso l’intero edificio.
Oswald tolse il braccio con cui aveva protetto il capo di Cassandra, stesa a terra di fianco a lui, quindi si alzò in piedi e si volse verso il palazzo alle sue spalle. Vide chiaramente la sagoma di George Glakas dietro la finestra dell’ufficio d’angolo al quarto piano.
Quello che rimaneva dell’auto di Cassandra ardeva con gli sportelli sradicati dalla violenza della detonazione: la dinamica dell’attentato era la stessa di quella con cui era stato tolto di mezzo l’agente Firenall a Cipro.
«E adesso qualcuno ci racconterà una bella storia di complici o di concierge di un hotel che piazzano bombe nelle auto, mentre il Giusto si trova in una galera federale», disse Breil, guardando fisso in direzione della finestra.
La versione ufficiale fu addirittura più semplice: gli uomini della CIA che li interrogarono per oltre due ore insistevano sul fatto che persone come loro avessero molti nemici pronti a fargli la pelle e che l’ordigno, con ogni probabilità, non era stato piazzato mentre l’auto si trovava all’interno del parcheggio, ma prima. A riprova della loro teoria gli agenti avevano visionato assieme a Oswald e Cassandra la registrazione di una telecamera a circuito chiuso che riprendeva il parcheggio da una tale distanza da rendere irrilevante qualsiasi immagine.
Oswald aveva perso il primo aereo e non voleva perdere il secondo.
«Credo che non sia opportuno che tu rimanga a Washington, Cassandra.»
«Mazal tov, Oswald! Grazie a Dio, Oswald… non ti è successo nulla. Ho appena sentito alla televisione la notizia. E anche lei, signorina, per fortuna non si è fatta nulla. Se non erro è stata la sua auto a saltare in aria.» Lilith Habar accolse sia Breil che Cassandra con i suoi modi ospitali e la solita allegria.
«Quell’orso di mio marito passa tutto il giorno davanti alla tv, da quando è stato messo in pensione. Ma questa volta sei riuscito a farlo sobbalzare sulla seggiola. Era talmente agitato che non è riuscito nemmeno a spiegarmi che cosa stava succedendo. Adesso che siete qui, però, sono più tranquilla. Per Cassandra ho preparato la stanza degli ospiti, tu invece dormirai sul divano, Oswald.»
«Grazie, Mame-loshen, e scusami tanto per questo disagio.»
«Ma quale disagio: un po’ di compagnia è quello che mi ci vuole, dato che il mio appassionato marito me ne dedica ben poca.»
Cassandra si ritirò nella stanza che Lilith aveva preparato per lei, stremata da una giornata che avrebbe messo a dura prova chiunque.
Oswald, invece, sedette dinanzi allo schermo del computer portatile e attivò la connessione: la posta in arrivo conteneva voluminosi file inviatigli da Sara.
George Glakas si allontanò dalla finestra per rispondere al telefono.
«Stai perdendo colpo su colpo, non capisco che cosa mi spinga a parlare ancora con te.»
«Il fatto è che siamo sulla stessa barca, caro mio, e che quei due figli di puttana l’hanno fatta franca anche questa volta», disse la voce metallica. «Ricordi chi mi ha procurato l’esplosivo per l’attentato allo stadio? Con quello che mi è avanzato farò una bella festa nei prossimi giorni. Tu sei colpevole quanto me, con l’aggravante che il tuo ruolo ufficiale, caro Glakas, dovrebbe essere quello di liberare il mondo dalla gente come me e non di metterle a disposizione plastico ad alto potenziale. Anzi, ti volevo appunto comunicare che per la prossima fornitura dovrai superare te stesso… no, ma forse è ancora prematuro parlarne. Ti ringrazio per aver indirizzato i sospetti e le indagini su quella marine cicciona. Ma pensavo che sareste arrivati prima a lei.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Che sono molto più furbo di quanto tu non creda, Glakas. Deidra Blasey è una delle volpi che ho fatto correre per confondere il fiuto dei segugi. Mi rifarò vivo.»
Oswald Breil lesse le ultime parole che suo padre aveva scritto per lui e che, per una serie di circostanze, gli erano giunte dopo quasi quarant’anni. In quelle pagine si trovava con ogni probabilità la verità sull’incidente che aveva ucciso i suoi genitori.
Guardò l’orologio: in Italia dovevano essere le prime ore del mattino. Non poteva pretendere che Sara Terracini fosse ancora sveglia: le avrebbe mandato una mail, anche se sapeva che, per la risposta, avrebbe dovuto attendere alcune ore.
‹GRAZIE, AMICA MIA. NON CREDO TU POSSA IMMAGINARE QUANTO IL TUO LAVORO MI SIA STATO UTILE. FINALMENTE, FORSE, RIUSCIRÒ A FAR LUCE SU UN INCIDENTE CHE HA SEGNATO LA MIA VITA. HAI MAI SENTITO PARLARE DI ELS (EQUIDISTANT LETTER SEQUENCES)?›
Oswald stava per spegnere il computer: qualche ora di sonno non gli avrebbe potuto fare che bene. Lo scampanellio lo avvertì che qualcuno gli aveva inviato un messaggio.
‹EQUIDISTANT LETTER SEQUENCES???› furono le sole parole che Sara aveva scritto nella speranza che il piccolo uomo fosse ancora in linea.
‹MA TU NON DORMI MAI, DOTTORESSA TERRACINI?›
‹NO, DA QUANDO LA SORTE HA FATTO SÌ CHE IO TI CONOSCESSI, BREIL. HO APPENA PORTATO A TERMINE UNO DEI DUE «COMPITI A CASA» CHE MI HAI AFFIDATO. STO ANCORA LAVORANDO SUGLI APPUNTI CHE TUO PADRE HA RACCOLTO DURANTE LA CONVERSAZIONE CON IL GENERALE ITALIANO. MA BANDO AI CONVENEVOLI: PERCHÉ PARLI DI SEQUENZE DI LETTERE EQUIDISTANTI?›
‹UN TALE RABBINO H.M.D. WEISSMANDEL PUBBLICÒ PER PRIMO NEL 1958 UNO STUDIO IN CUI SI TENDEVA A DIMOSTRARE CHE NEL PENTATEUCO SI CELASSERO DEI MISTERI SEGRETL›
‹CONOSCO QUELLA STORIA E SO ANCHE CHE RECENTEMENTE UN CERTO DROSNIN HA SCRITTO UN LIBRO — CODICE GENESI — IN CUI SOSTIENE CHE NEI PRIMI CINQUE LIBRI DELLA BIBBIA, IL PENTATEUCO APPUNTO, SIANO PREVISTI ALCUNI DEGLI AVVENIMENTI CHE HANNO CONDIZIONATO LA NOSTRA STORIA, INCLUSO L’OMICIDIO DI RABIN E LA DISTRUZIONE DELLE TORRI GEMELLE A NEW YORK. CI STO ARRIVANDO, OSWALD…›
‹IO VIVEVO A TEL AVIV E PRESTO MI SAREI DOVUTO TRASFERIRE ANCH’IO IN ROMANIA PER SEGUIRE I MIEI. RICORDO CHE UNA DELLE ULTIME DISCUSSIONI CHE HO AVUTO CON MIO PADRE RIGUARDAVA PROPRIO L’OPERA DI WEISSMANDEL E LE ELS. NON C’ERA MOTIVO LOGICO PER NOMINARE IL PENTATEUCO SUL FINIRE DI UNA LETTERA A UN FIGLIO, A MENO CHE MIO PADRE NON AVESSE INTENZIONE DI TRASMETTERMI UN MESSAGGIO SEGRETO. DEL RESTO È LUI CHE MI HA LASCIATO IN EREDITÀ LA PASSIONE PER OGNI TIPO DI LINGUAGGIO CRIPTATO O ALFABETO SEGRETO…›
‹CONOSCO BENE QUESTO TUO DIFETTUCCIO. DAMMI UNA CHIAVE E VEDRÒ DI SCOPRIRE L’ARCANO! ›
‹GIÀ, UNA CHIAVE, GENERALMENTE UN NUMERO O UNA PROGRESSIONE DI NUMERI CHE INDICANO, ALL’INTERNO DI UN TESTO, QUALI LETTERE UTILIZZARE PER COMPORRE LA PAROLA O IL MESSAGGIO SEGRETO
‹SHALOM, OSWALD, E… ACCIDENTI A ME CHE CI CASCO SEMPRE. MI METTO SUBITO AL LAVORO, ANZI… ACCIDENTI A TE!›
Senza nemmeno aspettare che Breil rispondesse al saluto, Sara Terracini chiuse la comunicazione.
Erano le sette del mattino quando Oswald uscì sul porticato prospiciente la villa degli Habar e raccolse il giornale appena depositato davanti all’uscio. Dopo l’arresto di Deidra Blasey aveva esaminato con attenzione la lista dei sospettati a cui erano giunti per eliminazione: si aspettava quella notizia.
Bussò alla porta della stanza di Cassandra. Dato che non ottenne risposta, Oswald entrò in punta di piedi. La donna dormiva profondamente.
Le lenzuola erano scivolate ai piedi del letto. Le gambe lunghe e flessuose sembravano sculture nella penombra della stanza.
«Ehm… Cassandra…» disse Oswald con una punta di imbarazzo. «Cassandra, svegliati!»
«Ma che ore sono, Oswald?»
«Sono passate da poco le sette. Ti avrei lasciata dormire ancora se non avessi visto questo.» Così dicendo, Oswald aprì la prima pagina del giornale davanti ai begli occhi azzurri e assonnati della donna.
«Arrestato il complice del Giusto in nome di Dio, si tratta del sergente Kingston, assistente del colonnello Blasey. Anche sulle sue mani gli esami di laboratorio hanno evidenziato tracce di T4. Il sottufficiale ha sempre seguito la donna in tutti i suoi spostamenti.»
«E certo che c’erano tracce di esplosivo: quei due poveracci se lo sarebbero anche mangiato il T4, pur di scongiurare il pericolo di un’esplosione nello stadio gremito», esclamò Cassandra.
«Temo si tratti di un altro tentativo di depistaggio del nostro amico Glakas. Vado sino all’edicola per comprare altri giornali.»
Oswald uscì nella fresca aria di settembre che calava dalle Montagne Rocciose.
Aveva fatto solo pochi passi che un uomo lo avvicinò. Contemporaneamente un cameraman si piazzò davanti a loro, l’uomo allungò un microfono sotto la bocca di Breil e fece partire il servizio.
«Buongiorno da Jordan Cruner per la K.C. News. Stiamo camminando al fianco di Oswald Breil. Per chi non lo conoscesse, ricordo che ha ricoperto le massime cariche nei servizi segreti israeliani e che è stato membro del governo e primo ministro del suo paese. Da qualche tempo lo troviamo spesso presente sulla scena degli atti terroristici del Giusto. Ieri è stato vittima di un attentato mentre si trovava in compagnia della dottoressa Ziegler, recentemente sollevata dal suo incarico dirigenziale all’interno dell’FBI. Per fortuna siete entrambi sfuggiti all’esplosione della vostra auto. Vuole raccontare qualche particolare ai nostri telespettatori, dottor Breil?»
«Sono in corso indagini che non mi autorizzano a rilasciare alcuna dichiarazione», rispose Breil continuando a camminare.
Jordan Cruner lo seguiva con il suo passo dinoccolato, lievemente zoppicante.
«La sua presenza a fianco degli uomini… pardon… delle donne dei servizi governativi può significare qualche cosa in particolare… che so, indagini congiunte tra i servizi del suo paese e i nostri?»
«Sono un comune cittadino e da tempo non rivesto alcun incarico ufficiale né in Israele né altrove.»
«E come spiega la sua presenza a Cipro con Cassandra Ziegler e con colei che è stata accusata di essere l’attentatore che si fa chiamare il Giusto in nome di Dio?»
Oswald era arrivato all’edicola, dribblò abilmente il cronista e il cameraman e, acquistati i giornali che gli interessavano, riprese la strada di casa, mentre Jordan Cruner si fermava all’angolo per relazionare i suoi telespettatori in merito all’evolversi delle indagini. L’argomento era sulla bocca di tutti: l’arresto del Giusto in nome di Dio e del suo complice, sergente Kingston, era una notizia da prima pagina.
Dagli appuntì raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
Il locale notturno su Sands Avenue, nel centro di Las Vegas, era gremito. L’aria era satura di un fumo denso e azzurrognolo, attraverso il quale il fascio di luce dell’occhio di bue faceva fatica a passare.
Ben diverse però erano le platee oceaniche a cui un tempo era abituato il grande attore. Ormai gli spettatori andavano a vederlo con lo stesso spirito con cui si osservano le fiere allo zoo: l’ammirazione aveva lasciato il posto alla curiosità e a un malcelato senso di compassione.
Il cerchio di luce si fece più largo e nella sala scese il silenzio. Quindi uno speaker cominciò a parlare con voce grave e profonda: «’Ho ucciso uomini e donne, vecchie e bambini di Oblucitza e Novoselo, dove il Danubio si getta nel mare fino a Rahova. Abbiamo ucciso 23.884 turchi e bulgari, senza contare coloro che sono arsi vivi nelle case a cui abbiamo appiccato il fuoco e quelli le cui teste non sono state mozzate dai nostri soldati…’ Da una lettera di Dracula datata 11 febbraio 1462 e indirizzata a Matthias Corvinus, re d’Ungheria».
Lo speaker a questo punto uscì dalle quinte e, continuando a parlare, si incamminò con passi lenti e calcolati sul palcoscenico: «Forse non tutti sanno che la creatura infernale è realmente esistita: Vlad III Dracula, signore di Valacchia, chiamato Tepes, l’Impalatore, ha calpestato la terra, prima che questa si aprisse e lo inghiottisse tra le fiamme degli inferi. Nacque a Sighisoara nel 1431 e morì in battaglia, nei pressi di Bucarest, nel 1476. Le sue spoglie, prive della testa che venne inviata come trofeo al sultano, furono sepolte nel monastero che sorge sull’isola di Snagov. Nel 1931, una volta individuata la tomba del principe valacco una spedizione di archeologi aprì il sepolcro. All’interno venne rinvenuto soltanto lo scheletro di un animale.
«Gli aneddoti sulla malvagità dell’Impalatore si sono diffusi per secoli tra le popolazioni germaniche e russe».
Ogni volta che il narratore faceva una pausa, una musica inquietante contribuiva ad accrescere la suspense.
«Si narra che una volta, mentre Dracula banchettava nei pressi del campo dove giacevano impalati i suoi condannati, un importante ospite gli chiese se l’olezzo dei cadaveri non turbasse il suo desinare. Dracula ordinò che l’impertinente venisse conficcato sul palo più alto, in modo che potesse godere appieno dei profumi provenienti dai suoi compagni di sventura.»
Il fascio di luce divenne rosso, l’atmosfera pareva dipinta col colore del sangue vivo.
«Una volta Dracula riunì tutti i poveri e i mendicanti in una grande sala e offrì loro una sontuosa cena. Al termine Vlad l’Impalatore chiese loro se volevano che lui li sollevasse dall’indigenza e dalla povertà. Un coro di sì si levò dalla folla dei poveretti. A un comando di Dracula, le guardie sprangarono le porte dall’esterno e appiccarono il fuoco alla sala gremita.»
Dei pipistrelli, manovrati da fili invisibili, incominciarono a volteggiare per la sala, mentre dagli altoparlanti proveniva il fastidioso squittio degli animali: «Alcuni ambasciatori del sultano turco giunsero un giorno alla corte di Dracula. Questi rimase ad ascoltarli con attenzione e quindi chiese loro perché non si fossero tolti il turbante al suo cospetto. Essi risposero che era usanza delle loro genti tenere il capo coperto in ogni circostanza. Dracula comandò che i turbanti venissero inchiodati alle teste degli ambasciatori, in modo che non potessero più venire meno agli usi delle loro terre».
Il fumo artificiale si alzava dal centro del palco, dove un marchingegno idraulico stava sollevando una bara mirabilmente intagliata. Il narratore continuò: «Molti sarebbero ancora gli aneddoti sul principe delle Tenebre, ma io vorrei tornare al mistero della sua morte. Trovata vuota la tomba, in molti si interrogarono sul luogo ove potesse trovarsi il corpo di Vlad. Si diceva altresì che, assieme alle spoglie del principe, era stato tumulato l’ingente tesoro della sua famiglia. Venne quindi rinvenuta e aperta una seconda tomba, sempre sull’isola di Snagov e a pochi passi dalla prima. In essa giaceva il corpo di un uomo. Dai resti degli abiti venne appurato che si poteva trattare di un notabile dell’epoca. Al dito portava due anelli. Alcuni studiosi della storia della Romania e conoscitori dell’Ordine del Drago, un ordine cavalleresco a cui anche Dracula apparteneva, nell’esaminare gli anelli dissero che uno dei due era attribuibile ai membri dell’Ordine e che l’altro era un semplice gioiello di ricca fattura. Mancava però un anello, quello che Vlad era solito indossare sempre. Un antichissimo anello d’oro le cui oscure origini si perdevano nella notte dei tempi… Il fatto che l’anello non fosse al dito del cadavere riesumato significava che quello non poteva essere il corpo di Vlad III Dracula. Ed è così, dal momento che Dracula il Vampiro è ancora tra noi…»
La bara si aprì con un sinistro scricchiolio e Béla Lugosi si alzò in piedi, vestito con il solito frac nero e la camicia candida, il volto incipriato per sottolineare il pallore cadaverico e gli occhi cerchiati di nerofumo. La mano al cui indice si trovava l’Anello dei Re era bene in vista e illuminata da un faro bianco.
Il Béla Lugosi Review era cominciato.
Minhea Petru era rimasto in disparte, seduto a un tavolo d’angolo. Ascoltava il narratore, nell’attesa trepidante che la bara si aprisse.
Quella messa in scena aveva qualcosa di nostalgico e di decadente: Béla Lugosi aveva ormai inesorabilmente imboccato il viale del tramonto. Era il 1953 e, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’attore non era riuscito a partecipare a più di una pellicola all’anno. E spesso con ruoli secondari. I tempi gloriosi in cui recitava contemporaneamente in diversi film e spettacoli erano un lontano ricordo.
Gli occhi di Minhea caddero sulla pagina di giornale che due suoi vicini di tavolo stavano guardando: era la stessa pagina che Petru portava sempre con sé. Béla Lugosi vi era ritratto nella sua classica posa vampiresca con le dita delle mani protese verso il volto di una ignara vittima. L’Anello dei Re splendeva all’indice del vampiro in procinto di aggredire.
Ciò che aveva fatto trasalire il rumeno era che nel ritaglio che l’uomo stava mostrando alla donna l’anello era stato cerchiato in rosso.
Ci vollero alcuni minuti prima che Petru li riconoscesse: si trattava dei coniugi Bàlaj, quelli che avevano fatto il viaggio verso gli Stati Uniti con Béla Blasko, circa trent’anni prima. Da loro Minhea aveva acquistato la fotografia in cui si intravedeva l’assistente di macchina sullo sfondo.
Era difficile che lo avessero riconosciuto e ciò lo tranquillizzò: dato quello che aveva intenzione di fare, era auspicabile che nessuno lo identificasse.
Minhea cercò di captare i loro discorsi. L’uomo si rivolgeva alla moglie in lingua magiara.
«Ceausescu ci sarà infinitamente grato se gli porteremo l’anello», stava dicendo Teofil.
Quella frase sconvolse i piani di Minhea: doveva agire subito, alla fine dello spettacolo.
«Le lettere che Minhea mi inviava erano ricche di descrizioni e di particolari», stava dicendo a Asher Breil il generale Sciarra. «Questo è il motivo per cui riesco a raccontare i fatti quasi li avessi vissuti personalmente.»
«E il suo resoconto è tanto nitido che anche a me sembra di viverli in prima persona. Vada avanti, generale, la prego.»
Lo spettacolo era finito da oltre un’ora. Il teatro era deserto: i frequentatori di Las Vegas considerano gli spettacoli teatrali, nelle sale adiacenti ai grandi casinò, alla stregua di un passatempo durante le soste tra un tavolo da gioco e l’altro. Una volta terminata la pièce, i giocatori ritornano a dedicarsi al gioco d’azzardo, dispensatore di fortuna o di rovina.
Minhea si incamminò lungo il corridoio dove si aprivano le porte dei camerini. Non c’era nessuno, né fan in attesa di chiedere un autografo, né fattorini che portavano mazzi di fiori, né giornalisti. Si fermò davanti a quello di Béla «Dracula» Lugosi. La mano si strinse attorno al calcio del revolver. Minhea aprì la porta ed entrò con la pistola puntata.
Béla Blasko giaceva sul divano in posizione supina. Un filo di bava scendeva al lato della bocca.
Per un attimo Minhea pensò che fosse morto, poi il torace si sollevò in un profondo respiro: Lugosi stava solo dormendo.
Minhea osservò la scatoletta d’argento sul tavolino di fianco al divano: si rese conto immediatamente che era stata la morfina a ridurre Blasko in uno stato molto vicino all’incoscienza.
«Questo mi facilita il compito», si disse Minhea afferrando l’anello con la mano destra.
Un’intensa emozione lo colse quando strinse l’Anello dei Re. Le immagini cominciarono a correre davanti ai suoi occhi come le sequenze di una pellicola. Rivide le epiche battaglie del Mediterraneo tra il Muqatil e Hito Humarawa. Rivide la città di Venezia invasa dalla peste. Rivide il volto della sua ava Celeste e quello arcigno di Campagnola. Rivide i fasti imperiali della Roma dei Cesari. Quante storie era capace di custodire dentro di sé quell’oggetto! Quante mani si erano attardate sui suoi rilievi! Anche quella di Dracula, del vero Dracula, non dell’usurpatore che, imbottito di morfina, stava adesso russando sonoramente davanti a lui.
Minhea tirò ancora più forte e l’anello si sfilò dal dito indice di Lugosi; lo infilò in tasca, quindi si girò e uscì nel corridoio.
Percorse alcuni metri prima di udire dei passi provenienti dalla direzione opposta alla sua. Aveva riconosciuto i coniugi Bàlaj che venivano verso il camerino di Lugosi: la donna aveva tra le mani un grande mazzo di fiori. Sapeva che era quasi impossibile che i due non l’avessero visto mentre si nascondeva in un altro camerino vuoto, ma sperava che non lo avessero riconosciuto.
Quando ebbe raggiunto la sua camera nell’hotel di Las Vegas, Minhea depose l’anello sullo scrittoio e rimase a rimirarlo, ancora incredulo, per una buona mezz’ora, poi prese carta e penna e si accinse a scrivere all’unico amico che avesse.
«La lettera», disse Sciarra estraendo dalla tasca un foglio di carta ingiallito dal tempo e cominciando a leggere, «si conclude con queste parole: ‘Adesso che la mia missione è compiuta, credo che mi fermerò qui negli States per qualche tempo: devo pur festeggiare il coronamento di un sogno che ormai si era trasformato in un’ossessione che mi ha accompagnato per tutta la vita. No, non aver paura, Alberto: niente più alcol. Sono stato assente troppo tempo dal mondo per bruciare in quel modo anche un solo secondo della vita che mi rimane. Tu e Kimber mi mancate’.»
Alberto Sciarra aveva ricevuto la lettera nove giorni dopo che era stata spedita. Il generale italiano l’aveva letta con trepidazione ma, a discapito delle parole di Minhea, non riusciva a sentirsi sollevato: aveva la sensazione che non tutto fosse finito e che una grave minaccia incombesse sul suo amico.
Era notte fonda quando, nella camera da letto di Kimberly e Alberto, era squillato il telefono. I tempi in cui Sciarra veniva svegliato di notte per problemi connessi al lavoro erano ormai lontani. Doveva essere successo qualche cosa di grave.
«Una chiamata da New York per lei, signore», aveva detto la voce di una centralinista.
«Sono Cesare, il vicedirettore dell’hotel Plaza di New York. Parlo con il generale Alberto Sciarra della Volta?»
«Sono io, Cesare, che cosa è successo?»
«Una terribile disgrazia, marchese Sciarra», disse sconvolto il dirigente dell’albergo newyorkese.
«Che cosa è successo?»
«Il signor principe… oh mio Dio, che cosa orribile… si è gettato dalla finestra della sua stanza poche ore fa. Un volo di otto piani. Non c’è stato nulla da fare.»
Alberto rimase ammutolito, con la sensazione che il suo cuore avesse cessato di battere. Ebbe solo la forza di chiedere: «Come è successo?»
«La polizia ha appena completato le indagini: sono certi si tratti di suicidio. Nella stanza sono state rinvenute molte bottiglie e alcuni degli abiti del principe Petru erano impregnati di liquore: per questo sono giunti alla conclusione che il signor principe, ubriaco, si sia lanciato nel vuoto.»
Pochi istanti più tardi Alberto riagganciava il ricevitore.
Kimberly gli cinse le spalle con un abbraccio: aveva capito che cosa era successo e non riusciva a trattenere le lacrime.
«Domani stesso partiremo per New York. Dobbiamo riportare Minhea in Europa e inoltre io voglio vederci più chiaro in questa storia, Kimber: ci sono alcune cose che non mi tornano.»
Sciarra benedisse i quattro motori Wright Cyclone che equipaggiavano il Lockheed Constellation della compagnia irlandese che li stava portando a New York: non avrebbe sopportato i tempi lunghi della navigazione, con l’angoscia che gli attanagliava lo stomaco.
Cesare era andato personalmente all’aeroporto a prenderli. Non appena giunti al Plaza, Sciarra si recò nella stanza di Minhea: non vi regnava lo stesso ordine della volta precedente.
«La polizia ha portato via ogni cosa ritenuta importante per fare luce sui motivi del suicidio», disse Cesare.
«Sa se hanno preso anche un antico anello d’oro? Un sigillo con una stella a sei punte.»
«No, ne sono certo. Sono stato presente alla perquisizione e ho firmato io stesso la lista degli oggetti che venivano prelevati: nessun anello d’oro.»
Quando Kimberly e Alberto giunsero al distretto di polizia di Manhattan, si resero conto di quanto l’industria cinematografica avesse erroneamente esaltato l’efficienza delle forze dell’ordine americane. Vi regnava lo stesso incredibile caos che ci si potrebbe aspettare negli uffici della polizia di Mombasa subito dopo una retata: sembrava che nessuno avesse sotto controllo la situazione.
«Si accomodi, signor Sciarra. Lei e sua moglie parlate inglese?»
Sciarra riconobbe nel detective che li aveva accolti la stessa persona che, anni prima, li aveva informati che Minhea era uscito dal carcere la mattina in cui era stato investito.
L’italiano rispose con un cenno affermativo, evitando di dire al poliziotto che si erano già incontrati tempo addietro.
«È evidente che il vostro amico si è suicidato a seguito di una grave crisi depressiva. Questa è la conclusione a cui siamo approdati attraverso le nostre indagini.»
«A volte ciò che appare evidente può trarre in inganno, detective», disse Alberto con aria severa.
«Non avrei voluto arrivare a questo: anche se sono vecchio del mestiere non mi è mai piaciuto infangare la memoria di chicchessia.» Così dicendo il poliziotto tirò fuori da un cassetto della scrivania due bottiglie vuote e prese a scorrere un vecchio registro: «Minhea Petru — tralascio i nomi che seguono e i titoli nobiliari — nato a Sighisoara in Romania, è stato arrestato per consumo di sostanze alcoliche nel 1931. E queste bottiglie vuote rinvenute nella sua stanza confermano il fatto che non aveva perso il vizio col passare degli anni. Sono convinto che il vostro amico si sia gettato dall’ottavo piano del Plaza completamente ubriaco: addirittura i suoi vestiti erano impregnati di liquore».
«Ho la sensazione che siate fuori strada. Minhea mi aveva assicurato soltanto pochi giorni fa che non sarebbe mai ricaduto nel baratro dell’alcolismo.»
«Le solite promesse degli schiavi del vizio…»
«La pregherei di moderare i toni delle sue considerazioni e di essere meno superficiale, detective. Lei non conosce la storia di Minhea Petru e la grave malattia che lo ha portato lontano dall’alcol.»
«Non ho avuto questo onore, ma leggo quello che c’è scritto in questa pagina: il suo amico era un alcolista sin dal 1931.»
«È stata disposta un’autopsia?»
«Sì, ma i risultati non ci sono ancora pervenuti… anche se non credo ci saranno sorprese…»
«Posso vedere gli oggetti prelevati dalla stanza del principe Petru?»
Dopo una rapida occhiata al sacchetto trasparente che conteneva l’orologio, la molletta portasoldi d’oro e qualche centinaio di dollari in contanti, Alberto riprese: «Qui manca un oggetto di grande valore e per il mio amico molto importante. Un oggetto che è sicuramente stato trafugato dalla stanza di Minhea: un antico anello in oro».
«Non c’era nessun anello d’oro nella stanza. Io stesso ho diretto l’ispezione.»
«E io le dico, detective, che l’anello c’era e che potrebbe essere stato la causa del volo nel vuoto di Minhea Petru.»
«Ha delle velleità investigative, signor Sciarra?»
«No, detective, voglio solo far luce su una vicenda che coinvolge il migliore dei miei amici. Purtroppo lui non potrà mai raccontarci come è andata veramente, ma l’autopsia forse potrebbe indicarci la strada.»
«L’autopsia dimostrò con certezza che Minhea Petru non aveva ingerito alcuna sostanza alcolica nelle ore precedenti la sua morte. In compenso, alla base del collo, l’esame necroscopico aveva riscontrato una tumefazione non collegabile con la caduta, ma provocata in precedenza. Il caso venne riaperto, però nessuno venne incriminato per l’omicidio, benché io avessi raccontato agli inquirenti dell’ultima lettera di Petru e dell’ambiguo ruolo svolto nella storia dai coniugi Bàlaj.»
«Come è andata a finire, generale?»
«I Bàlaj vennero arrestati dopo due mesi di pedinamenti: erano entrambi sospettati di spionaggio, ma solo l’uomo fu condannato. Bryga venne assolta: il fatto che la donna dovesse occuparsi dell’educazione della figlia poco più che decenne ebbe un peso determinante su questa decisione. Il marito invece dovette scontare quindici anni di carcere. Dovrebbe essere uscito di prigione da poco.»
«Nessuno associò la loro attività di spie con la morte di Minhea Petru?»
«No, nessuno. Così come non si trovò più alcuna traccia dell’anello, anche se devo dire che io feci il possibile per recuperarlo. Nella mia ricerca ho avuto anche un insperato aiuto da Béla Lugosi.»
«In che senso?»
«Dracula Blasko smaniava con le autorità e coi federali: sosteneva che il prezioso anello gli era stato sottratto con destrezza dal suo camerino e aveva promesso una taglia a chi gli avesse riportato il prezioso amuleto. Qualche giorno dopo il furto, anche la sua villa a Hollywood venne visitata dai ladri, che si impossessarono solo di un antico portagioie pieno di pietre preziose. Blasko aveva detto che si trattava di un tesoro di famiglia. Aveva omesso di dire che quella famiglia non era la sua.»
«Come è andata a finire la carriera di Blasko-Olt-Lugosi-Dracula?»
«Morì in una clinica di Los Angeles il 16 agosto del 1956. Appena prima di chiudere gli occhi per sempre aveva pronunciato queste parole: ‘Io sono il conte Dracula, io sono il re dei vampiri, io sono immortale’.
«Pensi, dottor Breil, che la leggenda del vampiro non si è fermata qui: si racconta che l’ultimo visitatore che aveva reso omaggio alla salma, nell’allontanarsi lungo i corridoi dell’obitorio, avesse visto volteggiare un gigantesco pipistrello che, infilata una porta aperta, fuggiva verso la libertà.»
«Lei mi ha raccontato una storia avvincente, generale Sciarra. Una bellissima storia… Mi rammarico solo del fatto che sia finita», aveva detto Asher Breil. «Posso chiederle qual è la sua idea in merito alla fine dell’Anello dei Re?»
«Visto l’interesse che aveva suscitato presso personaggi molto importanti, è probabile che sia stato rimesso proprio tra le mani di questo Nicolae Ceausescu. Se vuole la mia personale opinione, le dirò una cosa: non credo che la storia si sia ancora conclusa. Qualcuno avrà ancora a che fare con l’Anello dei Re. Lei non crede, signor Breil?» Gli occhi dell’anziano generale assunsero un’espressione da simpatico satrapo. «Sono ancora molti i misteri da risolvere: il tesoro di Dracula, il cofanetto pieno di pietre preziose, il sigillo di Re Salomone. Ma stia molto attento, Asher. La soluzione di quei misteri è fatale: è già successo molte volte.»
«Le assicuro che mi comporterò con tutte le cautele, generale Sciarra.»
«Che Dio, il Dio di tutti gli uomini, la benedica, Asher Breil.»
Un nuovo tramonto dipingeva con tutte le gradazioni del rosa le rocce delle Dolomiti. Asher Breil abbracciò l’uomo che l’aveva trascinato in quel lungo racconto. L’israeliano era consapevole di aver ricevuto il testimone di una staffetta che aveva attraversato i secoli e i continenti: adesso toccava a lui e a lui solo recuperare l’Anello dei Re.
Sara Terracini alzò le dita dalla tastiera e finalmente si lasciò andare a un lungo sospiro liberatorio. Le ultime battute del racconto di Asher Breil l’avevano lasciata senza fiato.
Impacchettò l’inaspettato finale e lo spedì lungo le autostrade telematiche del mondo, sapendo che Breil avrebbe ricevuto il suo messaggio e avrebbe trepidato, così come aveva fatto lei, man mano che la conclusione di quella lunga storia avesse preso corpo ai suoi occhi.
Ma il suo compito non era finito: il piccolo uomo le aveva commissionato un altro incarico.
«Hai mai sentito parlare di ELS?» le aveva chiesto Oswald.
Dopo alcune ore di lavoro attorno al testo, le sembrò di avere scoperto quale potesse essere la «chiave».
Nei linguaggi cifrati veniva definita «chiave» una parola, numero o formula in base alla quale era possibile decrittare un testo.
«Non fermiamoci proprio adesso, Sara», disse a se stessa la giovane ricercatrice, nel tentativo di farsi forza e di vincere la stanchezza. «E speriamo che, per una volta, la presenza di Oswald non debba essere associata alla solita scia di guai che si porta appresso ovunque vada.»
L’intuito le diceva che la sua speranza si sarebbe rivelata un’utopia. La cometa di Oswald Breil non poteva transitare senza alterare, nel bene o nel male, i destini del mondo, e quello di Sara Terracini in particolare.
Valacchia, 1474
I lunghi anni di prigionia, la solitudine, il distacco dal mondo avevano profondamente cambiato il principe Dracula. Pur non avendo perso né il coraggio né la fierezza, Vlad III era diventato un uomo più pacato e nel suo cuore ora trovavano posto sentimenti nuovi, in contrasto con la crudeltà e la sete di vendetta che ne avevano fatto il terrore dei suoi nemici.
Il pensiero di Dracula corse all’anello che aveva assicurato attorno al collo di suo figlio e sorrise: per ironia della sorte, la rocca che faceva parte dei possedimenti del re Matthias nei pressi della città di Buda e nella quale era stato rinchiuso, si chiamava la Rocca di Salomone.
Il chiavistello venne aperto dall’esterno. Un carceriere gli legò le mani, mentre un secondo lo teneva a bada con una picca.
«Te lo chiedo un’ultima volta, Vlad: la libertà, il principato di Valacchia e la mano di mia nipote», disse il re, «in cambio dell’abbandono del rito ortodosso e della tua conversione a quello cattolico romano.»
«Mio signore, sono trascorsi dieci lunghi anni in cui ho languito nelle vostre prigioni, senza un regolare processo e infamato dall’accusa di tradimento. Non vi ho mai tradito, né mai sono sceso a patti col nemico, meno che mai con i turchi.»
«Ci sono tre lettere firmate di tuo pugno che provano il contrario.»
«Voi sapete bene quanto me che si tratta di falsi, sire. Io vi sono sempre stato fedele.»
«E sia, ma per riavere ricchezza, potere e libertà dovrai rinnegare l’ortodossia», incalzò Matthias.
«Sono pronto a convertirmi alla fede cattolica, mio re», disse Dracula chinando il capo.
Il re fu di parola. La conversione di Dracula valeva forse di più di una vittoria sul campo: nelle strategie di governo e nei giochi di alleanze, tale successo rassicurava il re d’Ungheria. L’appoggio del papa era indispensabile per Matthias e la conquista, in nome della Chiesa romana, della Valacchia sarebbe stata un’ottima credenziale.
La liberazione del principe Dracula avrebbe poi fatto tacere le proteste che si erano levate da più parti: ortodosso o no, Dracula era da molti riconosciuto come un accanito difensore delle frontiere del cristianesimo.
Vlad e la giovane seconda moglie, di discendenza regale, si trasferirono in una lussuosa casa di Buda, in attesa del momento propizio per prendere nuovamente possesso del trono di Valacchia.
«A cosa stai pensando, mio signore?» chiese un giorno la principessa ormai prossima al parto.
«Ti giuro che amerò e proteggerò questo mio figlio a costo della mia stessa vita.»
«Perché dici questo, marito mio?»
«Sono stato costretto ad abbandonare un figlio durante la mia fuga da Poenari.»
«Lo so. E immagino la tua sofferenza, ma se credi che possa farti piacere, potresti raccontarmi com’è accaduto. A volte parlare può servire a liberarsi dei sensi di colpa.»
Brevemente Dracula riassunse le fasi concitate della sua fuga.
«Non mi sembra che tu debba sentirti responsabile per ciò che è accaduto. Ti sei comportato come il migliore dei padri cercando di regalare la libertà a tuo figlio. Sei sicuro che egli sia morto?»
«Ne sono certo: come potrebbe un bambino che a stento cammina sopravvivere ai rigori e ai pericoli della foresta?» Vlad fece una pausa, quindi continuò. «Qualora riuscissi a tornare nella mia terra e a salire di nuovo sul trono, tu e i nostri figli non vi muoverete da Buda. Sono troppi i pericoli a cui andreste incontro come miei familiari. Non voglio esporvi alle infide trame dei miei tanti oppositori.»
«Ma chi potranno essere mai gli oppositori di un principe, nelle cui vene scorre il nobile sangue dei regnanti di Valacchia e che, dopo la sua conversione al cattolicesimo, gode dell’appoggio del re d’Ungheria?»
«Potrei citarne molti, ma ti ricorderò soltanto i più dichiarati, moglie mia: i boiari, i sassoni, le stirpi dei Basarab e dei Dinesti e, non ultimi, i soldati agli ordini del sultano di Turchia. Ti sembrano sufficienti?»
«Iosua!» chiamò l’uomo, con un tono rude che mal celava l’amore e la forza del sentimento paterno. «Le vacche stanno ululando come lupi affamati. Hai provveduto a mungerle?»
«No, padre, stavo per farlo», rispose il giovane, poco più che quattordicenne, mostrando il secchio di legno nel quale raccogliere il latte.
L’uomo aveva guardato Iosua con affetto e orgoglio: quello era di sicuro il migliore dei suoi cinque figli. Iosua era sveglio, obbediente, pronto e aitante. Non mancava mai di soddisfare ogni sua aspettativa.
L’uomo sollevò il pagliericcio sul quale dormiva, spostò un mattone del pavimento proprio sotto al letto ed estrasse la catena. Rimase a guardare affascinato l’Anello dei Re. Non aveva mai avuto dubbi sulle origini del piccolo da lui trovato nella foresta. Adesso che in molti parlavano dell’imminente ritorno di Dracula sul trono, la sua onestà gli avrebbe imposto di presentarsi dinanzi al sovrano e restituire a lui l’anello e, a malincuore, anche il figlio che aveva allevato e amato teneramente.
Matthias, Dracula e suo cugino Stephen di Moldavia decisero di dimenticare il passato fatto di tradimenti e antichi rancori e sancirono per iscritto un patto nell’estate del 1475. I tre condottieri, uniti, avrebbero dato compimento alle loro crociate contro gli invasori saraceni. La preparazione militare e la perseveranza di Dracula e dei suoi alleati nel respingere i continui assalti dei turchi riuscirono a confinare gli infedeli al di là del placido Danubio.
Era l’estate del 1476 quando il metropolita di Arges investiva nuovamente Dracula della carica di principe di Valacchia.
«Perché hai chiesto udienza?» chiese Dracula invitando con un gesto il contadino e il ragazzo al suo fianco a rialzare la testa.
«Quello che ho da dirti, mio signore, è una cosa molto privata e preferirei non ci fosse nessuno ad ascoltare.»
Dracula stava per adirarsi per quella mancanza di rispetto, poi pensò che non rischiava nulla: l’uomo aveva un aspetto mite e sembrava animato dalle migliori intenzioni. Decise quindi di assecondare il desiderio del contadino e fece uscire tutti dalla sala. Rimasti soli, lo invitò a parlare.
«Io sono Mihail e questo è mio figlio Iosua, signore. Coltivo la terra dai tempi in cui tuo padre governava queste regioni.»
«Continua, Mihail», lo incoraggiò il principe.
«Iosua non è davvero mio figlio, egli è un trovatello.»
«È cosa nobile prendersi cura dei bambini abbandonati, Mihail.»
«Quando io ho trovato il piccolo, che si era perso nella foresta vicino al castello di Poenari, aveva questa al collo.»
La catena d’oro comparve nelle mani del contadino. L’Anello dei Re prese a oscillare nell’aria, catturando lo sguardo del principe col suo bagliore.
«Figlio, figlio mio!» esclamò Dracula con gli occhi colmi di felicità. Il principe abbandonò il trono sul quale era solito sedere quando concedeva udienza. Scese i tre scalini e andò incontro a suo figlio, cingendolo in un abbraccio.
Quindi volle abbracciare anche Mihail. Il contadino abbassò nuovamente il capo e consegnò al principe gli oggetti che ornavano il collo di Iosua. A lungo quell’uomo onesto aveva atteso che questa opportunità gli si presentasse, e ora si sentiva come se avesse portato a termine un compito assegnatogli dal cielo.
Dracula parlò a lungo con loro, apprendendo da Iosua che il padre adottivo aveva affrontato molti sacrifici per farlo crescere e che lo aveva allevato come un figlio.
«Hai fatto bene, Mihail, a volere che nessuno ascoltasse il tuo racconto. Purtroppo i traditori sono ovunque e io devo sempre guardarmi le spalle. Non dobbiamo svelare a nessuno questo nostro segreto, sino a che la Valacchia non sarà un luogo sicuro per me e per i miei parenti. Nel frattempo sarò generoso con te, che hai salvato la vita del mio primogenito, e assicurerò a Iosua e alla sua famiglia adottiva la più agiata delle esistenze. Tra poco dovrò partire nuovamente per il fronte. Quando tornerò vorrei che il ragazzo si trasferisse a palazzo e che facesse conoscenza con i due figli che ho avuto dalla mia nuova moglie.» Dracula si rivolse quindi al giovane. «Vivremo tutti insieme nella nostra casa, e saremo una grande famiglia. Vedrai, Iosua, non ci vorrà molto tempo.»
Vlad III di Valacchia non sarebbe mai tornato dalla guerra.
Vittima di un tranello tesogli da alcuni dei suoi soldati che si erano venduti al nemico turco, fu circondato e, sebbene avesse lottato come un leone, alla fine fu sopraffatto e cadde insieme ai valorosi che gli erano rimasti fedeli sino alla morte.
La testa dell’Impalatore venne recisa dal corpo ed esposta per lungo tempo sulle mura di Costantinopoli, a dimostrazione che il temuto condottiero era veramente morto. Il corpo venne traslato nel monastero di Snagov e qui fu seppellito in una cripta segreta. L’Anello dei Re rimase alla moglie e questa, a sua volta, lo consegnò a suo figlio Minhea insieme al cofanetto di fattura saracena che conteneva una fortuna in pietre preziose. «Il lasciapassare per il futuro», lo chiamavano da sempre i membri della famiglia. E per sempre i loro discendenti avrebbero dovuto considerarlo tale: una fonte da cui non attingere, a meno che non ce ne fosse stata necessità estrema.
13 ottobre 2004
«Avevi ragione, Oswald: il tempo è volato e stiamo ancora brancolando nel buio», aveva detto Cassandra scuotendo il capo.
«Quello che è più grave è che, con Deidra Blasey e Kingston rinchiusi in prigione, pare che il pericolo del Giusto sia stato dimenticato da chiunque. Mancano poche ore all’attentato e non siamo riusciti a cavare un ragno dal buco.»
Il computer di Oswald emise il segnale di messaggio ricevuto.
‹FORSE HO TROVATO UNA TRACCIA, MAGGIORE›, lesse Oswald sul monitor. Sapeva di poter contare sul capitano Bernstein.
‹NON NE SONO SICURO, MA PENSO DI ESSERE SULLA VIA GIUSTA. MI PERMETTA DI RICORDARLE I VERSETTI CORANICI CHE IL GIUSTO CI HA INVIATO: IL PRIMO: SI TROVAVA ALL’ORIZZONTE PIÙ ELEVATO,È TRATTO DALLA SURA AN-NAJM,CHE SIGNIFICA «LA STELLA». IL SECONDO VERSETTO INVECE RECITA: PER QUELLI CHE SONO MISCREDENTI NON BASTERANNO I LORO BENI E I LORO FIGLI PER METTERLI AL RIPARO DA ALLAH. SARANNO COMBUSTIBILE DEL FUOCO,ED È TRATTO DALLA SURA AL ’IMRÂN («LA FAMIGLIA DI IMRAN»). I TITOLI DELLE SURE HANNO SVIATO LE INDAGINI: ANCH’IO HO PERSO UN SACCO DI TEMPO A CERCARE STELLE, FAMIGLIE DI STELLE, MISCREDENTI CON LE STELLE, STELLE ALL’ORIZZONTE PIÙ ELEVATO ECCETERA ECCETERA. MA LA SOLUZIONE ERA MOLTO PIÙ VICINA: SENTA CHE COSA HO TROVATO…›
La divisa degli allievi della Islamic East Horizon School di Pasadena, in California, era sportiva ed elegante al tempo stesso: le ragazze indossavano un kilt in tartan scozzese a piccoli riquadri grigi e verdi su sfondo rosso. Le gonne erano lunghe sino al polpaccio. Le spesse calze bianche non lasciavano intravedere un millimetro di pelle. Bianca era pure la blusa a collo alto. Alcune delle allieve portavano sopra a questa il velo, altre erano a capo scoperto. I maschi avevano pantaloni del medesimo tessuto scozzese delle gonne. Una camicia bianca e una cravatta a linee oblique di tipo Regimental completavano il loro abbigliamento. La Islamic East Horizon School era una delle migliori scuole islamiche del paese.
Nel tragitto che percorsero in taxi dall’aeroporto sino al 671 di North Orange Grove Boulevard, Cassandra e Oswald rimasero in silenzio. Breil stava ripassando mentalmente le informazioni ricevute da Bernstein: ‹HO SCANDAGLIATO I MOTORI DI RICERCA DI OGNI IDIOMA E LINGUA, INCLUSE QUELLE DEI PAESI ORIENTALI A PREVALENZA ISLAMICA, MA SENZA RISULTATO›, aveva scritto il capitano del Mossad. ‹L’ORIZZONTE E LE STELLE PAREVANO NON AVERE CONNESSIONI TERRESTRI SIGNIFICATIVE CON I FIGLI E L’IRA DI ALLAH. MA POI HO AVUTO UNA FOLGORAZIONE: NELLA PRIMA PARTE DEL MESSAGGIO SI LEGGE PREPARARE AL FUTURO E IO CREDEVO FOSSE CONNESSO CON L’AVVENTO DEL RAMADAN. HO INVECE PENSATO A CHE COSA PREPARA O HA PREPARATO TUTTI NOI AL FUTURO. NON LE VIENE IN MENTE NULLA, MAGGIORE? LA SCUOLA CI PREPARA AL FUTURO. ESISTONO NEGLI STATI UNITI DUE SCUOLE ISLAMICHE CHE PORTANO IL NOME DI EAST HORIZON SCHOOL. HO SCELTO QUELLA PIÙ A EST… ALL’ORIZZONTE DOVE NASCE IL SOLE: LA EAST HORIZON ISLAMIC SCHOOL DI PASADENA, APPUNTO.›
La facciata principale della scuola era simile a una delle tante ville dei divi di Hollywood: cinque palme dal tronco massiccio separavano il vialetto di accesso dal traffico di Orange Grove Boulevard. Di fianco alla costruzione a un solo piano in cui avevano sede la segreteria, la presidenza e gli uffici, si intravedevano campi da gioco la cui erba verde intenso era frutto di una cura giornaliera.
Breil osservò gli occhi dei bambini: erano simili a quelli di ogni altro piccolo, che fosse musulmano, ebreo o di altra religione. Quei bambini vivevano in pace e avevano tutto il diritto di continuare a farlo.
«Mi chiamo Oswald Breil, signor preside, e questa è la signora Cassandra Ziegler, già dirigente dell’FBI.»
Decha Jamal, da sei anni preside della scuola, era di origine orientale, probabilmente tailandese. Di statura media, aveva occhi a mandorla dallo sguardo attento. Poteva avere poco più di cinquant’anni e quando parlò la sua voce suonò calma ed educata. «So bene chi è lei, dottor Breil, e chi è la signora Ziegler. Chiunque legga di tanto in tanto un quotidiano non può non aver sentito parlare di voi. Quello che non riesco a capire è come mai siate qui, nella mia scuola.»
In quel momento il telefono di Cassandra Ziegler prese a squillare.
«Questa volta sarò molto meno esauriente di quanto non lo sia stato a Cipro: mi passi il suo amico nano, Cassandra.»
Senza proferire parola la Ziegler porse il cellulare a Breil. Dal pallore della donna Oswald capì subito di che cosa si trattava.
«Come dicevo poco fa alla sua compagna, dottor Breil, questa volta avrete a disposizione minori indicazioni. Anzitutto mi congratulo con voi per aver risolto questo nuovo enigma, anche se sul filo della lama», disse la voce metallica che Oswald ormai ben conosceva. «Adesso mi ascolti bene, dottor Breil: lei stesso provvederà a impedire ogni comunicazione tra la scuola e l’esterno isolando le linee telefoniche. Per facilitare il suo compito, la informo che l’allacciamento generale del centralino e di tutti i telefoni si trova nel quadro elettrico generale: è sufficiente disattivare un fusibile e nessun apparecchio della scuola potrà più comunicare con l’esterno. Inoltre, la informo che ogni conversazione da telefoni cellulari è da me controllata grazie a uno scanner: qualsiasi chiamata contenente frasi sibilline o poco chiare che provenga da un portatile situato all’interno della scuola mi indurrà a far cessare immediatamente questo bellissimo gioco. Resta inteso che nessuno dovrà sapere nulla, né gli allievi, né i professori, fatta eccezione per il preside Jamal a cui credo lei abbia appena comunicato i suoi sospetti. Non dovrete dare l’allarme per nessun motivo. Nessuno potrà uscire dalla scuola. Oltre all’esplosivo, ho disseminato microfoni quasi ovunque all’interno degli edifici e del campus. Qualunque disobbedienza a queste mie istruzioni comporterà l’immediato innesco dei detonatori. Buona caccia, Breil.»
«Le spiegherò volentieri il motivo della nostra visita, preside Jamal», disse Oswald non appena ebbe terminato la conversazione con il Giusto, «se lei mi promette che manterrà la calma e che la farà mantenere ai suoi alunni, qualsiasi cosa succeda. Ormai è troppo tardi per evacuare l’edificio. Che Dio ci aiuti.»
Dopo aver illustrato dettagliatamente la situazione, Oswald chiese: «Quante persone alloggiano all’interno del campus?»
«Adesso ci sono circa centocinquanta alunni, venticinque professori e una dozzina di inservienti. Ma per domani mattina aspettiamo un grande afflusso di alunni e genitori per il buffet annuale della vigilia del Ramadan.»
«Dobbiamo cercare di trovare gli ordigni prima di allora, anche se so per esperienza che non sarà facile.»
Le prime ombre della sera si allungavano sulla città di Pasadena. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare il dramma che si stava consumando all’interno delle mura della scuola islamica. L’annuncio della segreteria, diramato attraverso l’impianto di diffusione interna, con il quale veniva comunicata la temporanea disattivazione delle linee telefoniche per guasti tecnici, non provocò clamore né curiosità.
«Diamoci da fare, gente: mancano soltanto poche ore», disse Oswald.
Le «poche ore» erano trascorse quando Oswald, Cassandra e Jamal si erano accasciati, sfiniti, nell’ufficio del preside.
Il giorno si era presentato troppo presto, come sempre avviene quando si spera che la notte non finisca mai: e quelle tre persone affrante avrebbero voluto che la notte si fosse protratta all’infinito.
«Abbiamo scandagliato ogni angolo, ogni zona comune, ogni possibile nascondiglio e tutto ciò che abbiamo trovato sono soltanto questi!»
Cassandra gettò sulla scrivania i dodici microfoni miniaturizzati che avevano rinvenuto nel corso dell’ispezione.
«Sono convinta che non abbiamo nemmeno portato a termine la bonifica dalle microspie: quasi certamente ce ne saranno altre e il Giusto starà sghignazzando in questo momento, assistendo al nostro insuccesso e alla nostra frustrazione», continuò la donna.
Il preside Jamal si affacciò alla finestra che dava sul viale d’accesso: i primi ragazzi, accompagnati dai genitori, stavano entrando nell’edificio principale proprio in quel momento.
«Bonifica ambientale… bonifica ambientale…» Il preside si batté una mano sulla fronte, ma non proseguì oltre: Oswald gli faceva cenno di tacere.
Breil accese la radio e parlò sottovoce all’orecchio del preside.
«Che cosa voleva dire, Decha?»
«Che gli studenti dell’ultimo anno hanno costruito un rivelatore magnetico simile a quelli che vengono usati per individuare microspie e altro.»
«Bingo!» esclamò Oswald. «Proviamo a rifare un giro della scuola con quello strumento, forse riusciremo a captare qualche onda magnetica che proviene dal meccanismo di innesco dell’ordigno.»
Nelle due ore che seguirono il terzetto percorse ancora una volta i corridoi, tra gli sguardi perplessi di insegnanti e studenti. Alle loro domande veniva risposto che due tecnici dei telefoni stavano cercando di individuare, servendosi di una speciale apparecchiatura, l’origine del guasto che aveva provocato il blackout telefonico ancora in corso.
Oswald e Cassandra stavano rientrando in presidenza. Oswald aveva in mano un’altra ventina di microspie rinvenute nel corso della nuova ispezione. Purtroppo quello era stato l’unico esito positivo della sortita: nessun segnale aveva indicato dove erano stati nascosti gli ordigni.
Oswald prese per un braccio Cassandra e la costrinse a fermarsi. Dall’ufficio del preside la voce concitata di una donna stava dicendo: «Io ho il diritto di sapere, signor preside. Sono un’insegnante e titolare della sicurezza all’interno dell’istituto. O lei mi dice che cosa sta succedendo o io…»
«Si calmi, professoressa Adnan. Come le ho già detto si tratta di tecnici della compagnia telefonica che stanno cercando il guasto che…»
«La faccia finita, signor preside. È incredibile che nessuno abbia riconosciuto quei due e, a ogni modo, io li ho riconosciuti perfettamente. Anche se indossano delle ridicole tute da lavoro, guarda caso uguali a quelle dei nostri inservienti. Le loro facce sono su tutti i giornali del pianeta. Mi chiedo che cosa ci facciano dentro la nostra scuola un ex primo ministro israeliano e un’ex dirigente dell’FBI. O mi risponde lei o sarò costretta a chiamare la polizia con il mio cellulare…»
Oswald e Cassandra entrarono in quel momento nella stanza e fecero cenno alla donna di tacere. Quindi Oswald ispezionò ogni parete e suppellettile servendosi del marchingegno progettato dagli allievi.
Accertatosi che nella stanza non ci fossero più microfoni, Oswald disse: «Se la cavano davvero bene i vostri allievi in elettronica. Mi chiamo Oswald Breil, professoressa, anche se ho capito che non è necessario che mi presenti. Cassandra Ziegler e io siamo qui in via del tutto privata, nel senso che nessuno tra gli organi ufficiali ai quali ci siamo rivolti ci ha dato ascolto per tentare di scongiurare una nuova e terribile minaccia».
«Io invece sono Xaviera Adnan. Siamo nelle mani del Giusto, non è vero, dottor Breil?» chiese la professoressa, sgranando gli occhi scuri messi in risalto dal velo chiaro che le copriva i capelli e la fronte.
In quell’istante il telefono di Oswald suonò.
«Vedo che lei è un giocatore di grande perseveranza e talento, dottor Breil.»
«E io vedo che lei si diverte a torturarmi. Del resto mi è chiaro che lei è completamente pazzo!»
«Non le conviene indulgere in epiteti offensivi, altrimenti chi le parla potrebbe insinuare che lei è un nano. Comunque, pazzo o no, sappia che mancano esattamente quattro ore allo scadere del mio ultimatum.»
«Quattro ore, ci rimangono solo quattro ore», ripeté Breil appena chiusa la comunicazione.
Quindi si dedicarono a dare una risposta alla domanda che la professoressa aveva formulato prima che la telefonata li interrompesse.
«È inutile negarlo, professoressa: pare che il Giusto abbia collocato uno o più ordigni all’interno della East Horizon School.» Così dicendo Cassandra elencò la serie di divieti che il terrorista aveva loro imposto, pena l’immediato innesco delle cariche.
«Non so se sia stato il mio sesto senso o la mia lungimiranza ma, in veste di responsabile della sicurezza, ho studiato la possibilità di trovare delle alternative alle normali vie di fuga. Così mi sono fatta carico di stilare un piano di emergenza che forse ora ci potrà essere utile. Aspettate solo un istante.»
Oswald guardò l’orologio: erano le nove del mattino, la bomba sarebbe esplosa alle tredici. Anche ammesso che avessero trovato l’ordigno o gli ordigni, chi avrebbe potuto disinnescarli in tempo utile, visto che un’esperta in esplosivi come il colonnello Blasey ci aveva messo ore? Il piano della professoressa Adnan avrebbe potuto rivelarsi forse l’unico per salvare le sette-ottocento persone, tra genitori, studenti e professori, che in quel momento erano radunate nell’aula magna e che entro breve si sarebbero riversate ai tavoli del buffet.
Ci vollero pochi minuti prima che l’insegnante tornasse con una mappa dell’edificio e alcune cartine stradali della zona.
«Esattamente sotto all’aula magna passa il condotto fognario principale», stava dicendo Xaviera Adnan, indicando la planimetria della scuola. «Ho ispezionato io stessa la conduttura per diverse decine di metri. Dirige a nord, verso Bradford Street, e credo di poter dire che è interamente praticabile. Potremmo seguirla sino al primo tombino e far uscire le persone nei pressi di Bellefontaine o di Barclay, in un punto protetto alla vista di colui che sta certamente tenendo sotto controllo la scuola e le sue vie d’accesso.»
«Non sarà facile evacuare centinaia di persone attraverso un tombino, professoressa, ma credo che questo sia l’unico sistema che abbiamo per salvarli. Diamoci da fare.»
Giunti nell’aula magna, per prima cosa Oswald verificò col magnetometro che non vi fossero altri microfoni. Quindi si recò in una stanza attigua e riattivò una delle microspie dopo averla posizionata davanti a un altoparlante. Inserì nel registratore la cassetta dei canti del coro dell’East Horizon e mormorò tra sé: «Così almeno avrai chi ti farà compagnia, Giusto».
«Ho bonificato l’intera aula magna e creato una trappola per il Giusto. Può parlare agli studenti, signor preside.»
«Signori, silenzio, per favore… chiedo la vostra attenzione. Ho detto silenzio!» La quiete calò all’interno dell’aula. «Vi prego di mantenere la calma e di eseguire puntualmente le istruzioni che vi verranno impartite. Dobbiamo evacuare l’istituto. Le madri si prendano cura dei propri bambini e di quelli che non hanno i genitori al loro fianco. Obbedite in tutto e per tutto ai consigli del dottor Breil — è il signore che vedete laggiù vicino alla professoressa Adnan — e della signora Ziegler accanto a loro. Non c’è motivo, ripeto, non c’è motivo di allarmarsi. Cercate di restare calmi e mettete in pratica gli ordini di evacuazione che vi verranno forniti.»
Aiutati da un inserviente, Oswald e la professoressa Adnan avevano sollevato il pesante tombino quadrato che si trovava davanti alla cattedra. La scala in ferro scendeva perpendicolarmente al pavimento, inoltrandosi nelle viscere buie della terra.
«Aspetti che faccio un po’ di luce», disse Xaviera calandosi nella botola attraverso la scaletta. Pochi istanti più tardi il percorso in discesa veniva illuminato dalle lampade portatili, così come il corridoio sottostante.
«Faccia scendere prima un paio di uomini, mi daranno una mano con i bambini. Mandi giù anche un inserviente con qualche torcia: porterò i primi bambini sino all’uscita di Bellefontaine Street e poi tornerò indietro per fare strada agli altri», disse Xaviera dal fondo del pozzo.
«Le donne e i bambini sulla destra, gli uomini sulla sinistra. Cercate di restare seduti. È necessario che tutto avvenga con il massimo ordine.»
I genitori e gli alunni, per fortuna, si mostravano molto disciplinati.
«Voi tre calatevi nel cunicolo e aiutate la professoressa a far scendere le donne e i più piccoli», disse Breil a quelli che, tra i padri, gli sembravano più efficienti. Rispettando l’ordine con cui erano seduti all’interno dell’aula, i presenti venivano fatti dapprima alzare, raggiungevano il varco nel pavimento, si calavano nel tombino e sparivano verso la salvezza.
Una volta nel cunicolo veniva indicato loro il percorso. Oswald e la professoressa Adnan avevano calcolato che, dirottando il flusso verso altre tre uscite che avevano individuato, sempre nei pressi del crocevia di Bellefontaine, avrebbero ridotto di gran lunga i tempi.
Almeno la metà delle persone erano ormai fuori pericolo.
Oswald guardò l’orologio: erano le 10.32 del mattino. Le due ore e mezzo che mancavano all’esplosione sarebbero state più che sufficienti a mettere tutti in salvo. Fu allora che il telefono di Breil suonò di nuovo.
«Non la sento più da un pezzo, dottor Breil», disse la voce metallica. «E questa nenia di canti musulmani mi sta venendo a noia. Non sarà che lei ha trovato un modo per neutralizzare i miei microfoni? La informo che, vista la monotonia di questo canto, ho deciso di anticipare i tempi: la festa avrà il suo culmine con due ore d’anticipo, alle undici in punto. Le rimangono poco più di venticinque minuti, Breil.» E chiuse la comunicazione.
«Presto, fate presto!» disse Oswald ad alta voce, cercando di velocizzare la discesa di coloro che ancora dovevano mettersi in salvo.
Erano le 10.45. Oswald calcolò che erano rimaste circa duecento persone nell’aula magna. Forse potevano farcela.
Alle 10.50 erano rimaste poco meno di cento persone.
Alle 10.55 Oswald chiese a Cassandra, al preside e alla professoressa Adnan di lasciare l’aula. Lui sarebbe sceso per ultimo: ce l’avevano fatta.
Le due donne e il preside erano appena scomparsi alla sua vista, quando un urlo angosciato, simile a un lamento di morte che sale dagli inferi, salì dal tombino. Invano Cassandra aveva tentato di trattenere l’uomo che lottava per raggiungere nuovamente l’aula.
«Mia figlia, mia figlia Safiya non è scesa con sua madre e suo fratello. Mia moglie era convinta che fosse con me.»
Non appena Oswald lo vide, in fondo alla scaletta di ferro, riconobbe uno dei primi uomini che si erano calati per fare strada a tutti gli altri.
L’uomo teneva per mano un bambino spaventato.
«Si metta in salvo assieme al piccolo, ci penso io a trovare sua figlia.»
L’uomo non gli diede ascolto e continuò a salire. Oswald gli puntò la pistola in mezzo agli occhi.
«Le ho detto di portare in salvo suo figlio. Non mi faccia perdere altro tempo. Non lascerò lo stabile sino a che non avrò portato fuori di qui Safiya.»
Di fronte alla determinazione di Breil, quello si rassegnò e riprese la strada del percorso fognario.
Oswald guardò l’orologio: le 10.58. Gli parve di udire un pianto sommesso.
Safiya era accovacciata sotto un banco delle ultime file. Tremava come una foglia.
Oswald le accarezzò il capo, la prese per mano e, non senza fatica, se la caricò in spalla.
Il tombino all’angolo tra Bellefontaine e Barclay Avenue e altri due nelle immediate vicinanze assomigliavano a vulcani in eruzione: solo che, al posto di lava incandescente, dai crateri uscivano bambini vestiti con l’uniforme della East Horizon Islamic School, accompagnati dai loro genitori. Il traffico era paralizzato sia per l’invasione della sede stradale da parte di quelli che sembravano gli interpreti di Viaggio al centro della terra, sia per la curiosità che quel singolare spettacolo stava suscitando tra gli abitanti della tranquilla città californiana.
I genitori apparivano molto più spaventati dei bambini. Cassandra Ziegler guardò con impazienza l’orologio: mancavano pochi secondi alle undici. La donna si affacciò al tombino sperando di vedere la grande testa di Breil spuntare dall’oscurità.
L’esplosione fece tremare la terra, le case, le auto. Molti vetri andarono in frantumi.
Istintivamente tutti rivolsero lo sguardo verso il luogo da cui proveniva il boato: una nuvola di fumo nero a forma di fungo, che si levava al di sopra delle case in direzione sud, indicava che il complesso di edifici della East Horizon School non esisteva più: dieci chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale avevano raso al suolo l’intero complesso. Nessuno si sarebbe potuto salvare se non fosse stato per l’iniziativa di uomini e donne come Oswald Breil, Decha Jamal, Cassandra Ziegler e Xaviera Adnan.
«Oswald! Oswald!» chiamò Cassandra con la testa dentro al tombino, in preda all’angoscia.
Il preside Jamal le si fece vicino e la cinse con un braccio: «Dobbiamo la nostra salvezza a un eroe ebreo che si chiama Oswald Breil», disse il preside con aria mesta.
Cassandra stava per esplodere in un pianto dirotto quando la testa di Oswald fece capolino: era sporco di calcinacci ma, a prima vista, appariva illeso. Così come sembrava in ottimo stato la bambina che teneva sulle spalle, poco più piccola dell’uomo.
«Toglietemi questo gigante di dosso», disse Breil lasciando che il padre di Safiya si prendesse cura della piccola.
Cassandra e la professoressa Adnan gli andarono vicino e lo cinsero in un abbraccio felice e commosso.
«Se questa è l’accoglienza che riservate a quelli che salgono dalle profondità terrestri, da domani mi metterò a fare lo speleologo», disse Breil.
Fu allora che i ragazzi in divisa e i loro genitori si volsero simultaneamente verso Oswald Breil e si lasciarono andare a un caloroso applauso per il loro salvatore.
«Quei bambini vivevano in pace e hanno il diritto di continuare a farlo», ripeté il piccolo uomo, accennando con la mano un saluto in direzione dei presenti che non smettevano di applaudire.
Fu a quel punto che una terribile fitta alla schiena fece accasciare Oswald: pochi secondi dopo aveva perso i sensi. Una scheggia lo aveva ferito e gli era rimasta conficcata in un fianco. Nei momenti concitati della fuga Breil non aveva avuto modo di rendersi conto di che cosa avesse provocato l’improvviso dolore alla schiena che aveva sentito.
Il mattino seguente la foto — scattata per caso da un passante, che avrebbe fatto con quella istantanea la propria fortuna — dell’ex primo ministro israeliano mentre portava in salvo una bambina musulmana era sulle pagine dei quotidiani di mezzo mondo.
I titoli erano adesso di tenore ben diverso da quelli apparsi recentemente: nessuno insinuava più alcunché sulla presenza di Breil e sull’operato di Cassandra. I due erano divenuti gli indiscussi eroi nella lotta contro gli attentati terroristici del Giusto. Tutti si auguravano che Breil si ristabilisse al più presto.
L’episodio ebbe notevoli conseguenze anche sulle posizioni assunte dai direttori delle due maggiori agenzie di intelligence americane: Cassandra Ziegler fu immediatamente reintegrata nei ruoli dell’FBI, mentre il direttore della CIA decretò la simultanea sospensione, a tempo indeterminato, di George Glakas.
«Poco male», pensò Glakas, uscendo dal suo ufficio, «quello che dovevo fare ormai l’ho fatto. Non si rendono conto di quanto potere ho avuto sino a oggi tra le mani. Adesso devo solo aspettare che la mia vendetta si compia e sperare che il Giusto non mi deluda ancora una volta.»
Dimesso dall’ospedale, Oswald si era recato dagli Habar, a Denver. Durante il suo ricovero non aveva mai smesso di pensare alla perversa mente del Giusto e al luogo in cui avrebbe colpito la prossima volta. Breil continuava a leggere e rileggere la seconda parte del messaggio, quella che si riferiva alla seconda delle date indicate: il decimo giorno del mese di Dhul-Hijja, ovvero il 21 gennaio dell’anno che sarebbe iniziato tra non molto.
Il Pellegrinaggio avviene nei mesi ben noti. Chi decide di assolverlo, si astenga dai rapporti sessuali, dalla perversità e dai litigi durante il Pellegrinaggio. Allah conosce il bene che fate. Fate provviste, ma la provvista migliore è il timor di Allah, e temete Me, voi che siete dotati di intelletto.
Quando il suo popolo gli chiese da bere, dicemmo a Mosè: «Colpisci la roccia con la tua verga». Sgorgarono da essa dodici sorgenti e ogni tribù conobbe da dove avrebbe dovuto bere; prestammo loro l’ombra di una nuvola, e facemmo scendere la manna e le quaglie: «Mangiate le buone cose di cui vi abbiamo provvisto». Non è a Noi che fecero torto, fecero torto a loro stessi.
«È pronto in tavola», chiamò Lilith ad alta voce, sperando di distogliere Oswald dal computer.
Il telefono squillò. Lilith rispose, quindi lo chiamò di nuovo: «È per te. Non so chi sia, ma un uomo mi ha chiesto di poterti parlare».
«Sono io, dottor Breil, Ted Kaczynski. Si ricorda di me? Mi aveva dato questo numero di telefono in caso avessi voluto contattarla.» La voce di Unabomber era sempre più impastata e roca a causa del fumo.
«Certo, professor Kaczynski. Come potrei non ricordarmi di lei.»
«Sto seguendo le sue gesta attraverso la stampa e la televisione. Non le nego che faccio il tifo per lei. Buffo, vero? È come se un sioux tenesse per il VII cavalleria.»
«Non ha tutti i torti. In fondo anche il generale Custer non era poi da buttare via.»
«Ma ora bando ai convenevoli: vengo al motivo della mia chiamata. Sicuramente avrete visionato, fotogramma per fotogramma, ogni filmato in vostro possesso riguardante le scene degli attentati, prima, durante e dopo il momento in cui sono avvenuti. È un buon metodo di indagine. Io stesso lo avevo consigliato quando le forze di polizia erano alle prese con l’attentatore di Oklahoma City. Provi a riguardare attentamente i filmati. Sono convinto che il Giusto sia stato immortalato in qualche fotogramma, come era successo con Timothy McVeigh, ripreso da una telecamera di sicurezza del Murrah Building di Oklahoma mentre abbandonava un furgone carico di esplosivo.»
«Farò tesoro del suo consiglio, anche se abbiamo già ‘vivisezionato’ anche il più insignificante fotogramma in nostro possesso.»
«Ma forse non lo ha fatto lei di persona, e a volte degli occhi vergini valgono più di mille occhi esperti. Spero che la sua guarigione stia procedendo bene, dottor Breil.»
«Non mi lamento, professor Kaczynski.»
«Abbia fiducia nelle sue possibilità, Breil, e ne uscirà vincitore.»
Non appena Oswald ebbe terminata la conversazione, sollevò nuovamente la cornetta.
«Come stai, Oswald?» chiese la voce di Cassandra.
«Ci vuole altro che una stupida scheggia per farmi fuori. Volevo chiederti una cortesia… Dato che devo far passare il tempo durante la mia noiosa convalescenza, non potresti recuperare e inviarmi tutti i filmati ripresi da telecamere di sicurezza, televisioni o altro nei pressi dei luoghi degli attentati? Ormai, visto il tuo rientro nei ranghi dell’FBI, non dovrebbe essere un problema per te reperire il materiale.»
«Sarà fatto, Oswald, anche se credo che non ti saranno utili più di tanto: sono stati classificati come insignificanti per le indagini.»
«D’accordo. Non è per scarsa fiducia negli investigatori, ma mi piacerebbe dar loro una nuova occhiata. Il mio amico Unabomber sostiene che gli occhi vergini vedono meglio di altri.»
Dodici ore più tardi, Oswald aveva ricevuto cinque CD-ROM per un totale di diciotto ore di registrazione. Armatosi di pazienza si accinse a visionare il materiale.
C’erano le riprese effettuate dalle emittenti che erano arrivate al palazzo dell’ONU poco prima che esplodessero le cariche. Quello nella sede della delegazione irachena presso le Nazioni Unite era stato il primo sanguinoso attentato messo in atto dal Giusto. C’erano le immagini delle telecamere di sicurezza piazzate nei paraggi del Palazzo di Vetro. C’erano i filmati delle webcam disposte lungo lo stretto di Hormuz e la faccia di Jordan Cruner che commentava il gigantesco rogo alle sue spalle come un disastro senza precedenti. C’erano i servizi della K.C. News, già sul posto, quando il Predator telecomandato aveva aperto il fuoco sulle donne islamiche in corteo davanti alla Casa Bianca. C’erano i fotogrammi del terribile schianto delle tribune all’autodromo del Bahrein.
«Questo Jordan Cruner pare essere onnipresente.»
Oswald inserì nuovamente il primo dei dischi nel lettore. Procedette all’avanzamento fotogramma per fotogramma e aprì di lato la finestra che indicava il diagramma del sonoro.
Determinò con esattezza il momento in cui la bomba stava esplodendo al dodicesimo piano del Palazzo di Vetro. Verificò nel fotogramma successivo: tutti gli sguardi dei presenti erano rivolti verso l’alto, in direzione del luogo da cui proveniva il violento scoppio. Tornò indietro di alcuni secondi: gli spettatori stavano guardando in direzione del relitto dell’elicottero. Tutti tranne uno, che era già rivolto nella direzione in cui pochi attimi più tardi sarebbe avvenuta la nuova esplosione.
Breil memorizzò gli abiti che portava il misterioso personaggio, dato che il suo volto non risultava a fuoco.
Oswald passò quindi al filmato delle telecamere di sicurezza lungo la Quarantatreesima: in alcune sequenze si scorgeva quello stesso individuo che avanzava con un passo incerto, appena claudicante. Già, ma chi avrebbe potuto farci caso? A poca distanza da lì era appena scoppiato il finimondo e un secondo disastro era in procinto di scoppiare.
Oswald inquadrò il volto dell’uomo. Agì sullo zoom fintanto che i contorni rimasero nitidi. Confrontò l’immagine con le altre che aveva salvato in precedenza. Ormai non aveva più dubbi: adesso sapeva con certezza chi si celava dietro al terrorista assassino che si faceva chiamare il Giusto in nome di Dio.
‹COME STAI, OSWALD?› digitò Sara dal suo laboratorio romano.
‹ADESSO CHE TI SENTO MOLTO MEGLIO, SARA.›
‹GALANTE COME SEMPRE. INTENDEVO LA TUA SALUTE. SONO STATA MOLTO IN PENA PER TE. QUANDO LA SMETTERAI DI FARCI STARE SULLE SPINE, OSWALD?›
‹C’È UN SOLO MODO PER FARLO, PICCOLA MIA, E MI AUGURO CHE CIÒ AVVENGA IL PIÙ TARDI POSSIBILE. COMUNQUE VA BENE, TUTTO BENE. TRA POCO SARÒ IN GRADO DI RIPRENDERE LA MIA VITA NORMALE.›
‹PER INTENDERCI, LA TUA VITA «NORMALE» SIGNIFICA USCIRE DA UN TOMBINO CON UNA BIMBA IN SPALLA MENTRE UN INTERO ISOLATO TI STA CROLLANDO SULLA SCHIENA?›
‹QUASI, CON UNA SOLA PRECISAZIONE: NON MI È CROLLATO SULLA SCHIENA, MI SONO SOLO RITROVATO UNA SCHEGGIA DI FERRO IN UN FIANCO.›
‹VEDO CHE IL BUONUMORE NON TI MANCA, MA PASSIAMO AD ALTRO. VOLEVO CHIEDERTI UN CHIARIMENTO: C’È UN SOLO ANELLO DEI RE, NON È VERO?›
‹SÌ, CERTO, SARA, E TU E IO LO CONOSCIAMO BENE. SI TRATTA DI QUELLO CHE TI CADDE DALLE MANI QUANDO, FUORI DAL PALAZZO DELLE NAZIONI UNITE, UN PAZZO A BORDO DI UN ELICOTTERO CI STAVA SPARANDO ADDOSSO.›
‹RICORDO OGNI MINIMO PARTICOLARE, OSWALD. MA SE NON MI SBAGLIO QUELL’ANELLO MI GIUNSE IN OMAGGIO DALL’ESTREMO ORIENTE.›
‹GIÀ, PARE CHE NICOLAE CEAUSESCU NE AVESSE FATTO DONO ALL’ULTIMA DELEGAZIONE UFFICIALE CHE FECE VISITA AL SUO PAESE: SI TRATTAVA DELLA DELEGAZIONE CINESE. GUARDA CASO ERA PROPRIO LA CINA IL PAESE NEL QUALE IL DITTATORE RUMENO AVREBBE VOLUTO RIFUGIARSI, UNA VOLTA CADUTO IL SUO REGIME. PROBABILMENTE LO AVREBBE ANCHE FATTO, SE NON FOSSE INCAPPATO IN QUALCHE ERRORE.›
‹CHE GENERE DI ERRORI, OSWALD?›
‹NON APPENA CI VEDREMO TI RACCONTERÒ ALCUNE COSE SUGLI INCREDIBILI ULTIMI MOMENTI DI LIBERTÀ DEL CONDUCATOR E DI SUA MOGLIE ELENA PETRESCU. DIMMI TU PIUTTOSTO, COME PROCEDONO LE ELS?›
‹NON TI NEGO CHE L’INCIDENTE E LA TUA CONVALESCENZA HANNO DIROTTATO I MIEI INTERESSI SU ALCUNI CAPOLAVORI DELLA PITTURA CHE GIACEVANO DA MESI ACCATASTATI NEL MIO STUDIO. COMUNQUE, PRIMA DI CONTATTARTI, HO PORTATO A TERMINE I MIEI COMPITI: SNAGOV NON DISTA VENTINOVE CHILOMETRI DA BUCAREST, MA UNA QUARANTINA. HO QUINDI PENSATO CHE QUELLA FOSSE LA CHIAVE DI UNA ELS E HO APPLICATO I NUMERI 2 E 9 SULLO SCRITTO DI TUO PADRE: A PARTIRE DALLA SECONDA LETTERA DEL TESTO, NE HO TRASCRITTA UNA OGNI NOVE. LA FRASE CHE VIENE FUORI È LA SEGUENTE: LA SESTA STAZIONE.›
‹MI FARESTI UNA CORTESIA, SARA? HO ANCORA QUALCHE LAVORETTO DA SBRIGARE QUI IN AMERICA, POI CREDO CHE DOVRÒ RECARMI IN MEDIO ORIENTE. TI POTRESTI TENERE LIBERA VERSO LA FINE DI GENNAIO? TI PROMETTO ESPERIENZE UNICHE IN TERRA DI ROMANIA.›
‹CONOSCENDOTI, BREIL, SO CHE I TUOI «LAVORETTI» CORRISPONDONO A CATACLISMI DI PORTATA PLANETARIA›, digitò Sara. Il suo pensiero non si discostava troppo dalla realtà.
L’ariete d’acciaio nelle mani degli agenti delle squadre speciali abbatté la porta al secondo colpo. Quindi gli uomini, con casco, giubbotto antiproiettile e pettorina con la scritta bianca FBI fecero irruzione nella casa di Jordan Cruner.
Dell’anchorman non c’era traccia.
Malgrado non si fosse ancora del tutto ripreso, Oswald aveva comunque voluto essere presente.
Lui e Cassandra erano entrati immediatamente dopo che gli uomini delle squadre speciali avevano dato il via libera.
Cassandra indicò l’ordine maniacale che regnava all’interno della casa: «All’accademia ci insegnano che l’ordine ossessivo è uno dei primi segni rivelatori di un serial killer. Tutto come da manuale».
«Già, tutto come da manuale, ma ciò non ha impedito a migliaia di innocenti di lasciarci la pelle. E sono convinto che la mente del Giusto-Cruner stia cercando di far saltare in aria altri seguaci del Profeta.»
«Abbiamo passato al setaccio la vita del presentatore televisivo: in realtà non si chiama Cruner, ma Kreutznaer. Di origine ebraica, era rimasto gravemente ferito nel corso dell’attentato all’ambasciata americana a Beirut nell’aprile del 1983, dove Cruner si trovava per far visita alla madre, impiegata presso l’ambasciata. Nell’attentato la donna rimase uccisa insieme ad altre sessantadue vittime, di cui diciassette statunitensi. All’epoca Jordan aveva ventidue anni, era un SEAL della marina e si trovava in Medio Oriente per una delle tante missioni speciali a cui vengono assegnati gli incursori dei corpi scelti. I commilitoni lo chiamavano ‘Mani di fata’, perché possedeva mani femminee e una capacità unica di assemblare esplosivi, bombe a tempo, mine e altro. Nell’attentato lo stesso Jordan fu gravemente ferito e gli venne amputata la gamba destra dopo venti giorni di sofferenze. I medici in un primo tempo disperarono di salvarlo. Jordan Kreutznaer invece riuscì a sopravvivere, ma la grave menomazione lo obbligò ad abbandonare la vita militare e da allora in lui cominciò a maturare l’odio che lo ha portato a trasformarsi nel Giusto in nome di Dio.»
«Già, benché abbia lavorato per pochi anni nei corpi speciali, la sua abilità era indiscussa. Con la pratica che ha maturato, per lui deve essere stato piuttosto semplice minare lo scafo di una nave o le fondamenta di un palazzo. La sua esperienza di guerra tecnologica gli ha consentito altresì di intercettare linee telefoniche e di addentrarsi nelle frequenze utilizzate dal Pentagono per teleguidare i Predator. Dal camion regia della K.C. News nel quale si rifugiava, Cruner aveva potuto catturare segnali provenienti da qualsiasi satellite e rimandarli dopo averli distorti a suo piacimento. Così ha fatto con il Predator nel corso dell’ultimo attentato che ha portato a termine con successo. Per quanto mi riguarda, una sola domanda è ancora senza risposta: chi gli poteva fornire quantità così cospicue di esplosivo?»
«Ti dice niente il nome di Tom Farrader, apparentemente morto suicida alla base di Camp Lejeune?»
«Mi sembra di ricordare qualche cosa. Vai avanti», disse Oswald.
«Tom Farrader era il responsabile delle scorte di munizioni e di esplosivi di una delle maggiori basi militari del mondo. Abbiamo disposto la riapertura del caso, ma crediamo che Farrader e Cruner si conoscessero e che molte volte il primo abbia ceduto al secondo delle partite clandestine di esplosivo. I denari per sponsorizzare la sua attività parallela non gli mancavano certo: osserva il lusso che regna in questa casa. Kreutznaer-Cruner è uno dei più popolari giornalisti televisivi americani. Come tale poteva scegliere ogni destinazione per i suoi servizi, e le sue destinazioni coincidevano sempre con quelle di Deidra Blasey e del sergente Kingston. Aveva pensato a tutto, anche al capro espiatorio che avrebbe sviato le indagini. Sono contenta che siano stati scarcerati il giorno seguente l’attentato a Pasadena. Ci servono comunque altre prove per inchiodarlo definitivamente. Ricordati: il Giusto ha annunciato un nuovo attentato per il prossimo 21 gennaio.»
Breil aprì l’armadio a muro, osservò i titoli della libreria alla sua destra. Posò le dita sopra uno dei volumi e lo tirò a sé con gesto sicuro.
Cassandra e gli uomini dell’FBI restarono a guardare ammutoliti la parete di fondo dell’armadio che scivolava di lato, mettendo allo scoperto il locale nel quale il Giusto confezionava le sue bombe, i suoi avvertimenti e le sue folli rivendicazioni.
L’Anello dei Re era sulla scrivania, di fianco al computer. Poco distante trovarono un Corano, ancora aperto al versetto centonovantasette della seconda sura. Oswald lesse a alta voce: «Il Pellegrinaggio avviene nei mesi ben noti. Chi decide di assolverlo, si astenga dai rapporti sessuali, dalla perversità e dai litigi durante il Pellegrinaggio. Allah conosce il bene che fate. Fate provviste, ma la provvista migliore è il timor di Allah, e temete Me, voi che siete dotati di intelletto».
Quindi Oswald aprì il Libro all’altezza di un secondo segno e continuò: «Quando il suo popolo gli chiese da bere, ispirammo a Mosè: ‘Colpisci la roccia con la tua verga’. Sgorgarono da essa dodici sorgenti e ogni tribù conobbe da dove avrebbe dovuto bere; prestammo loro l’ombra di una nuvola, e facemmo scendere la manna e le quaglie: ‘Mangiate le buone cose di cui vi abbiamo provvisto’. Non è a Noi che fecero torto, fecero torto a loro stessi».
«La prego, agente, tratti bene quell’antico anello e si ricordi che, non appena avrà finito con i rilevamenti, me lo dovrà restituire. Quell’oggetto mi appartiene personalmente. O meglio, appartiene a una mia cara amica alla quale è stato regalato e alla quale devo restituirlo a ogni costo.»
«Oswald Breil, l’uomo dai mille misteri. Mi spieghi come hai fatto?»
«A fare cosa, a regalare un antico anello a un’amica? Nel mondo ogni giorno un uomo impazzito chiede a una donna di sposarlo. Se la donna è altrettanto pazza acconsente. A suggellare questa follia intervengono solitamente anelli di ogni forma, materiale e stile… Il fatto curioso è che io non ho mai avuto il coraggio di dirle perché gliene avevo fatto dono…»
«No, non dicevo quello, Oswald, ti chiedevo come hai fatto ad andare a colpo sicuro e individuare il meccanismo di apertura del passaggio segreto. Noi, sempre ammesso che ci fossimo arrivati e solo dopo confronti con le planimetrie ed esami radar alle pareti, ci avremmo impiegato qualche settimana.»
«È semplice: Kreutznaer è il vero nome di Robinson Crusoe. Ho pensato che il Giusto non avrebbe potuto non cedere a un pizzico di vanità ed ero certo di non sbagliarmi scegliendo, tra i tanti, il volume di Defoe. Quel libro altro non era se non il meccanismo di apertura della stanza segreta. Ma adesso lasciamo che gli uomini della Scientifica sbrighino il loro lavoro. Noi abbiamo ancora un conto da regolare, e non sarà un conto da poco.»