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PROLOGO

«Benvenuto nella mia casa! Entrata libera e franca!»

Non ha accennato a venirmi incontro, ma è rimasto immobile, come una statua di ghiaccio…

Bram Stoker, Dracula

New York, marzo 2002

La metropoli aveva reagito all’attentato come sempre faceva nelle situazioni più critiche, quasi si trattasse di un essere vivente dotato di una ferrea forza di volontà.

Anche in quell’occasione, mentre la sorvolava a bassa quota, New York gli apparve come un’immensa creatura che ogni giorno a fatica si sveglia, frenetica esplode di vita e poi si riaddormenta, mentre qua e là sul suo corpo compaiono, simili a dolorose piaghe, macchie intrise di paura.

In realtà, la città altro non era che uno sconfinato agglomerato di palazzi e umanità alle prese con i problemi sempre più incalzanti del sovraffollamento e del terrorismo.

Osservandola dall’alto, sembrava suddivisa in tanti compartimenti stagni: se a un crocevia si stava consumando un dramma, solo pochi isolati più avanti regnava la calma più assoluta e la vita scorreva normalmente, tra le vetrine illuminate e gli sguardi frettolosi dei passanti.

Questi e altri pensieri occupavano la mente del colonnello Baedeker mentre faceva compiere al caccia una nuova e più ampia virata, spostandosi lungo la riva sinistra dell’East River.

L’ufficiale diede un rapido sguardo alla scena sottostante, giusto il tempo necessario per rendersi conto che i missili aria-aria lanciati dal suo F15 erano andati a segno annientando la minaccia venuta dal cielo. Baedeker abbandonò le sue meditazioni e si concentrò sui freddi termini con cui avrebbe stilato un rapporto di servizio che sarebbe parso assai poco credibile: «Un elicottero non recante alcuna sigla di identificazione, dopo aver violato una zona interdetta al volo, ha esploso un missile aria-terra in direzione dell’ingresso del palazzo delle Nazioni Unite. Accertata la palese ostilità del velivolo, allo scrivente colonnello Baedeker, in forza al 12° stormo caccia della USAF, non è rimasto null’altro da fare se non abbattere il velivolo. Con assoluta certezza, l’attacco ha provocato danni alle persone oltre che alle cose».

I flap, abbassati per aumentare la portanza e impedire al jet di entrare in stallo, lo scuotevano con un leggero ma intenso tremore. Baedeker si accertò che le forze dell’ordine, là sotto, avessero preso in mano la situazione: due elicotteri della polizia sorvolavano ora la zona, mentre i lampeggianti dei mezzi di soccorso baluginavano attorno al Palazzo di Vetro. Il colonnello spinse allora sulle manette e si allontanò dal luogo dell’attentato.

Il panico si era diffuso nel momento in cui un elicottero da turismo, che volava a bassa quota, aveva lanciato un missile all’indirizzo dell’ingresso principale del palazzo delle Nazioni Unite.

Erano state colpite alcune auto di servizio che sostavano dinanzi alla pensilina in attesa dei passeggeri. Molte persone erano rimaste ferite, alcune in modo grave: i loro corpi giacevano inerti a terra, con i vestiti ridotti a brandelli, bruciacchiati e insanguinati. Si trattava per lo più degli autisti delle vetture.

I delegati e gli ospiti che avevano partecipato all’assemblea plenaria dell’ONU erano stati risparmiati dall’esplosione: buona parte di coloro che erano usciti dal palazzo al momento dell’attentato erano ancora in piedi. Alcuni, comunque, stavano dirigendosi verso le ambulanze immediatamente accorse, sorretti dai soccorritori.

Tutto faceva pensare che si fosse trattato di un’azione terroristica isolata, priva di un particolare bersaglio: un vile attacco che avrebbe potuto causare un numero ben più alto di vittime, se non fosse intervenuto prontamente uno degli ufficiali che dal giorno dell’attentato alle Torri pattugliavano il cielo di New York a bordo dei loro caccia. Baedeker stava per diventare un eroe.

Nessuno, però, poteva immaginare che un’altra esplosione, nel giro di pochi minuti, avrebbe sconvolto quella stessa scena. Tra i feriti che stavano salendo sulle ambulanze si trovava un uomo singolare: un uomo di piccola statura, ma la cui tempra d’acciaio, in molte precedenti occasioni, lo aveva reso protagonista di azioni che avevano garantito la sopravvivenza dell’intera umanità.

Il velivolo ostile era stato abbattuto pochi minuti dopo che era stato diramato l’allarme e l’intervento del caccia aveva impedito che l’elicottero lanciasse una seconda salva dei suoi micidiali ordigni esplosivi, causando danni ancor più gravi.

Anche in questa circostanza, la prontezza di riflessi di Oswald Breil era stata determinante per salvare la sua e altre vite.

Un osservatore attento avrebbe notato la scarsa naturalezza nell’andatura dell’individuo che proveniva dalla Quarantatreesima. Certo, col caos che regnava in quei momenti dinanzi al palazzo delle Nazioni Unite sarebbe stato difficile trovare qualcuno disposto a prestare attenzione a particolari insignificanti come il modo di camminare di una delle tante persone che affollavano la zona. La gente, prima fuggita in preda al panico, ora tornava a piccoli gruppi sul luogo dell’attentato, simile a uno stormo di corvi che si posi nuovamente sull’albero non appena spenta l’eco dello sparo. L’uomo, che camminava con passo veloce, si confondeva con i molti dirigenti, gli impiegati, i portaborse che popolano i dintorni di ogni palazzo governativo. E, come questi, cercava di guadagnare un posto in prima fila lungo la striscia di nastro giallo che un poliziotto solerte stava stendendo per delimitare il prato antistante il Palazzo di Vetro.

L’elicottero, o meglio, quello che ne era rimasto, ardeva al centro del prato, a breve distanza dalla Peace Bell, vicino ai monconi delle aste e alle bandiere lacerate.

Uno dei pulmini Mercedes che venivano utilizzati per gli spostamenti dei delegati e degli ospiti, colpito dal missile, rispondeva con sbuffi di vapore e sibili sinistri ai primi getti delle autopompe dei vigili del fuoco.

Le ambulanze sostavano pochi metri più lontano con i portelloni spalancati, in attesa di caricare i feriti.

L’uomo dalla camminata singolare si chinò sul nastro giallo che delimitava la scena. Qualcosa emetteva bagliori dorati e risaltava sul verde del prato. Qualcuno, in quei convulsi momenti, doveva averlo smarrito. L’uomo protese la mano come per accarezzare l’erba soffice. Aveva dita lunghe, sottili e nervose, che afferrarono un piccolo oggetto di metallo, levigato dal tempo e dall’uso. Il pollice e l’indice ne percorsero i bordi e ne seguirono la forma circolare, i polpastrelli tastarono incisioni e rilievi: l’antico anello d’oro rotolò nella tasca della sua giacca.

Quindi le dita si strinsero attorno ai confini spigolosi e meglio conosciuti di un secondo oggetto, ne accarezzarono il pulsante d’innesco, e controllarono l’antenna del telecomando.

Intanto, la gente si andava assiepando curiosa, commentando l’accaduto.

Il primo camion regia di una televisione era giunto da pochi istanti e già gli operatori facevano roteare le telecamere, cercando di cogliere il maggior numero di particolari di quella che veniva definita «diretta del crimine».

L’uomo dalle dita sottili si strinse nelle spalle. «Se è lo spettacolo quello che cercano… non mi resta che accontentarli», disse tra sé mentre azionava il telecomando nella tasca della giacca.

I boati sincronizzati delle microesplosioni non giunsero distinti, ma si unirono in un’unica fragorosa detonazione. I vetri della stanza che era saltata in aria, al dodicesimo piano del Palazzo di Vetro, si dispersero come gocce di pioggia, ricadendo nella zona di prato sottostante appena delimitata dalla polizia.

Il panico recitò per la seconda volta il suo copione da protagonista: come sul set di un film d’azione, centinaia di persone simili a comparse ripeterono i medesimi gesti di pochi minuti prima. La marea di gente impazzita prese a muoversi in maniera scomposta nel fuggi fuggi che seguì le nuove detonazioni, mentre gli agenti tentavano invano di mantenere l’ordine. L’uomo che aveva appena premuto il tasto del telecomando si mescolò alla folla e raggiunse la Quarantatreesima. Stava fiancheggiando il Ford Foundation Building quando si fermò a osservare un corteo di mezzi di soccorso che avanzava ad alta velocità nel traffico cittadino, accompagnato dall’urlo lacerante delle sirene. Pareva si stessero dirigendo verso l’Upper East Side e non già verso il Palazzo di Vetro, come sarebbe stato logico: sotto la barba rada, il viso dell’attentatore si distese in un’espressione soddisfatta. I mezzi che accorrevano verso un’altra zona erano la prova della riuscita dell’intero suo piano: anche la sede della rappresentanza diplomatica irachena, sulla Settantanovesima, era saltata in aria nello stesso istante in cui il dodicesimo piano del Palazzo di Vetro veniva squarciato dalle esplosioni.

Fronte dolomitico, giugno 1915

L’ufficiale italiano non si scompose mentre la fanghiglia scura gli imbrattava la divisa. Le scarpe da montagna erano ricoperte dalla melma che le ruote dell’affusto sollevavano durante la salita.

Una trentina di fanti arrancavano lungo la mulattiera trasportando il potente cannone da montagna da 75 millimetri, il cui peso era di oltre due tonnellate. Il fango lasciato dalle recenti piogge rendeva ancor più ardua la salita.

«Durerà poco», disse tra sé l’ufficiale, reprimendo un’imprecazione mentre di nuovo la gamba si immergeva nel fango quasi sino al polpaccio. «Dicono che questo balletto durerà poco. Non credo, la guerra non conosce il ‘poco’, ma solo il troppo… come la morte.»

«Posso esservi d’aiuto, signor capitano?» chiese preoccupato il giovane tenente, mentre il suo superiore scivolava pericolosamente vicino alle ruote dell’affusto, cinte da pattini in legno simili a cingoli.

«Lasciate perdere, tenente, e datevi da fare. Il convoglio deve raggiungere le nostre trincee prima che cali la notte. Se il maltempo dovesse coglierci di sorpresa sarebbe grave: la montagna non conosce stagioni e le tempeste estive non sono meno pericolose di una tormenta invernale.»

L’ampia vallata si stendeva sotto di loro e i tetti spioventi di un gruppo di case strette attorno a un bianco campanile sembravano sfidare il cielo terso e caldo della giornata estiva.

Cortina d’Ampezzo era stata occupata dalle truppe italiane negli ultimi giorni di maggio senza che fosse sparato un solo colpo: gli austriaci se n’erano andati come se ritenessero ininfluente quella postazione. Otto fanti della brigata Marche erano quindi entrati nel paese quasi deserto nella giornata del 28 e avevano inalberato un solitario tricolore dinanzi al municipio.

Nessuno tra gli abitanti di Cortina — gli asburgici avevano reclutato forzatamente ogni uomo di età compresa tra i sedici e i cinquant’anni — aveva accennato la minima reazione di fronte a una testa di ponte forte di ben otto militari! Si sarebbe detto che quel lembo di terra, giudicato essenziale per qualsiasi tentativo di avanzata, non suscitasse alcun interesse strategico.

Questo poteva essere uno dei motivi per cui, tra gli ufficiali impegnati sul fronte dolomitico, serpeggiava il convincimento che quella non fosse una vera e propria guerra, bensì uno scambio di cortesie tra truppe nemiche, alimentato dal volere dei potenti impegnati a ridisegnare i confini delle loro nazioni.

Il generale Cantore, diretto superiore del capitano Alberto Sciarra della Volta, aveva confessato a quest’ultimo quanto il presidente del Regio consiglio dei Ministri, Antonio Salandra, andava dicendo ai suoi più stretti collaboratori: «La guerra non andrà oltre l’inverno. Per questo motivo ritengo pressoché inutile approvvigionare le truppe a guardia dei valichi alpini».

«Già… i potenti… i loro giochi e i loro errori.» Pensando a ciò della Volta scosse il capo.

Il vento gelido della sera preannunciava l’avvento di un’altrettanto gelida notte. Le Dolomiti si andavano dipingendo dei riflessi rossi del tramonto estivo. Più in alto, le nevi eterne riflettevano i raggi dell’ultimo sole. Le rare nubi sembravano illuminate dall’interno, tanto brillava il loro soffice candore. Lo spettacolo della natura era tale da far dimenticare la paura.

Ma la realtà era assai meno poetica: la guerra, la Grande Guerra, che i fanti intirizziti e male equipaggiati si apprestavano a combattere, si annunciava cupa e senza fine, nonostante ogni ottimistica previsione di ministri e generali.

Tabarqa, 1347

Il dolore, la malattia e la morte altro non erano che l’estrema beffa per chi, in preda al terrore del contagio, aveva ripudiato affetti e amicizie nella vana speranza di essere risparmiato dall’epidemia.

Ma la peste non ha occhi né cuore e colpisce alla cieca, lasciando dietro di sé agonia e desolazione.

Quasi a ogni crocevia della città ardevano le pire sulle quali venivano deposti i cadaveri. Il fuoco veniva costantemente alimentato: quella era l’unica arma capace di sconfiggere il male. Se mai fosse stato possibile sconfiggerlo.

Fuori delle mura il nemico restava in paziente attesa: i cristiani avevano ridotto al minimo gli assalti alla città saracena assediata. Il contagio e il tempo avrebbero ben presto piegato l’eroica popolazione di Tabarqa, meglio di cento eserciti in armi.

Per questo il grosso del contingente cristiano aveva abbandonato il campo. Era inutile tenere inattivi migliaia di soldati, mentre la città araba veniva divorata dalla peste.

Il Muqatil si affacciò dall’alto delle mura: dove una volta torreggiavano le macchine da guerra nemiche, adesso si distinguevano ampi spiazzi di erba ingiallita, mucchi di rifiuti e tracce dei fuochi dei bivacchi. Poco lontano, al posto dell’accampamento che aveva ospitato migliaia di uomini armati, si stagliavano alcune tende, meno della metà di quelle che avevano originariamente dato rifugio agli assediami.

Il guerriero saraceno scosse il capo: aveva rischiato la vita per mare e in battaglia mille e mille volte, ma non avrebbe mai immaginato di morire divorato dalla peste.

Tabarqa era ormai un gigantesco rogo. Gli avvoltoi che l’assediavano dovevano soltanto accertarsi che nessuno abbandonasse la città: l’epidemia avrebbe concluso l’opera di distruzione al posto loro.

Il Muqatil indirizzò lo sguardo agli uomini che presidiavano le mura. A ogni sorgere del sole alcuni dei suoi valorosi mancavano all’appello: il morbo inesorabile non si arrestava dinanzi al valore in battaglia, ma colpiva indiscriminatamente chiunque. Anche chi non aveva mai esitato di fronte alle armi spianate del nemico.

Il Muqatil si volse verso Celeste, la figlia del suo amore. Gli occhi profondi e blu della bimba si specchiarono per un istante in quelli pressoché identici del padre. Poi la piccola riprese a correre lungo i camminamenti, seguita da una balia ormai esasperata dalle ristrettezze dell’assedio e dal terrore dell’epidemia.

Tutto era iniziato quando i veneziani avevano lanciato all’interno delle mura il capo reciso del cadavere di un contagiato. Nell’istante del lancio, poco distante dalla catapulta, il Muqatil ricordava di aver visto il suo acerrimo nemico scuotere il capo. Hito Humarawa era fedele al codice d’onore della sua gente: un samurai non avrebbe mai usato un sistema tanto abietto per prendere una città. Il guerriero giapponese era stato suo avversario per buona parte della vita, un avversario leale sino all’estremo sacrificio, il nemico che ogni soldato vorrebbe battere con le armi in pugno.

New York, maggio 2002

Un vento tiepido e teso, foriero dei profumi dell’imminente estate, si insinuava tra le costruzioni e assumeva nuovo vigore, mulinando tra le pareti dei grattacieli.

Ground Zero pareva una immensa distesa dove l’odio aveva seminato i suoi messaggi di morte segnando il corso della Storia. Dove sorgeva una delle due Torri era stato montato un palco decorato con drappi e grandi coccarde bianche rosse e blu. Quale luogo poteva essere più adatto alla cerimonia di commemorazione delle vittime del terrorismo?

Il generale Grenshover si trovava al centro del tavolato, al suo fianco il sindaco di New York aveva dipinta in volto una mesta aria di circostanza. Dietro di loro una parata di autorità civili e militari.

Fu l’alto ufficiale a scandire il nome al microfono: «Deidra Curring Blasey… mi correggo», disse ancora il generale. «Invito il colonnello dei marine Deidra Blasey a raggiungere le autorità.»

Deidra Curring Blasey si alzò dalla sua sedia. Dimostrava una cinquantina d’anni; il fisico, solo leggermente appesantito attorno ai fianchi, appariva ancora agile e asciutto: gli estenuanti addestramenti a cui si era sottoposta avrebbero tollerato ben più che qualche chilo di troppo, prima di perdere la loro efficacia.

La donna avanzò con passo marziale, muovendosi lungo linee perpendicolari e sottolineando le svolte con sonore battute di tacchi.

Quando fu dinanzi al generale assunse la posizione di attenti, si portò la mano destra al fregio del berretto d’ordinanza, attese che il superiore rispondesse al saluto, poi parlò con voce stentorea: «Colonnello Deidra Blasey ai suoi ordini, signore».

La voce del generale, amplificata dall’impianto sonoro, calò grave e imperiosa. «Il colonnello Blasey è un eroe della guerra del Golfo. Grazie alla sua capacità e alla perizia nel campo degli esplosivi, molti dei nostri ragazzi non sono saltati in aria sulle mine nemiche. Ma Deidra Blasey è anche una donna… una madre… una madre alla quale una mano assassina ha strappato l’unico figlio…»

Il volto del generale Grenshover assunse un’espressione inattesa e un moto di commozione ne alterò i tratti, mentre appuntava al petto del colonnello Blasey una medaglia al valore e pronunciava parole ricche di sentimento, che esulavano dalle formalità di rito.

Deidra Blasey salutò in maniera marziale, girò sui tacchi e si allontanò. Intanto, la voce del generale scandiva il nome di un altro eroe da glorificare.

Scesa dal palco, il colonnello dei marine strinse nella mano la medaglia d’oro. I suoi occhi erano lucidi ma, dietro il velo delle lacrime, lo sguardo era carico di rancore.

Suo figlio, Martell Curring, tenente dei marine in forza presso l’ambasciata americana al Cairo, era stato dilaniato da una bomba: la mano di un terrorista islamico aveva depositato, nel ritrovo frequentato dai militari americani, un ordigno ad alto potenziale nascosto in una borsa.

Era successo tre anni prima e, da allora, ogni anno le veniva appuntata sul petto una nuova medaglia. Nessuno, però, le avrebbe restituito Martell: era partito da casa con un sorriso e i suoi meravigliosi ventiquattro anni, ma a lei era stata consegnata solo una piastrina di riconoscimento contorta dalla violenza dell’onda d’urto.

Fronte dolomitico, giugno 1915

Domenica 23 maggio 1915 Gualtiero Giuseppe, duca d’Avarna, ambasciatore d’Italia a Vienna, aveva rimesso nelle mani del ministro degli Esteri austriaco, barone Rajecz Stephan von Burian, la dichiarazione «in base alla quale l’Italia si considerava in istato di guerra contro l’Austria-Ungheria a partire dalle ore zero del giorno successivo».

A questo stava pensando il capitano Alberto Sciarra della Volta mentre apriva con gesti compiti il voluminoso registro dalla copertina nera e dai fogli bordati di rosso.

La prima pagina recava stampato il titolo: Diario Storico-Militare. Sopra a questo si trovava apposto, in inchiostro blu, il timbro del reggimento alpino a cui il capitano apparteneva. A piè di pagina, alcune avvertenze invitavano «… il comando in capo dell’esercito, i comandi dei grandi riparti e delle brigate di fanteria e cavalleria, i reggimenti e i riparti inferiori distaccati presso l’esercito mobilitato, a scrivere a mano a penna, verificare e controfirmare giornalmente: la dislocazione dei riparti al mattino, gli ordini ricevuti o conferiti, le operazioni militari eseguite, le vicende principali che le accompagnarono e le seguirono, le truppe che vi presero parte e lo stato atmosferico della giornata colle sue variazioni».

In tal modo il Diario, così concludevano le avvertenze, avrebbe avuto inizio nel giorno dell’ordine di mobilitazione e sarebbe stato chiuso nella data in cui, finita la guerra, anche l’ultima classe di leva sarebbe stata congedata.

«Finita la guerra…» ripeté tra sé il capitano Sciarra dubbioso, «se mai finirà questa guerra. Comunque io descriverò, come la patria mi chiede, ogni avvenimento, ogni rumore degli animali in caccia o in fuga in queste notti d’estate tra le Dolomiti imponenti, ogni brivido dovuto agli oltre venticinque gradi di escursione termica tra il giorno e la notte, ogni stella del cielo, ogni azione in questa strana guerra fatta di calme estenuanti e insulti gridati in direzione del nemico, pochi metri oltre la trincea. Speriamo resti sempre così!»

Il rumore dei tacchi sbattuti, appena smorzato dal fango che copriva gli stivali, interruppe i pensieri del comandante di compagnia.

«Comandi, signor capitano!» Il tenente Cassali era goffo e impacciato sulla soglia della tenda da campo. La luce della lampada nell’alloggio del comandante sottolineava l’aria paffuta del subalterno come una lanterna magica mette in risalto le curve e i difetti nel corpo panciuto del comico. «Chiedo scusa, signor marchese… ma… il generale ha appena telegrafato… si teme che dal Col di Lana… gli austriaci…»

«Riposo, tenente, riposo. Anzi, mettetevi seduto ed esponetemi i fatti con calma», Alberto Sciarra sollevò gli occhi dalla prima pagina, ancora intonsa, del diario militare. «… e ricordate, siamo al fronte. Dimenticate i gradi nobiliari e tenete a mente solo quelli delle mostrine verdi di alpino.»

«Comandi, signor marchese-capitano», disse il tenente Cassali sempre più confuso, entrando nella tenda e dirigendosi al centro dell’alloggio per scaldarsi le mani sulla stufa, più per vincere l’imbarazzo che per reale necessità.

Alberto Sciarra si alzò dallo scrittoio. Aprì il mobile alla destra del letto da campo e ne estrasse una bottiglia di grappa. Sorridendo, pensava al modo nel quale lui, nobile di origini siciliane, fosse finito sul fronte dolomitico in un reggimento alpino. Gli occhi scuri come la notte tradivano un carattere dolce, mentre con sguardo paterno osservava il tenente Cassali, più giovane di lui soltanto di pochi anni.

Versò due bicchierini di grappa e si preparò ad ascoltare con pazienza il resoconto del suo subalterno.

Stati Uniti d’America, giugno 2002

Nella casa regnava un ordine assoluto: ogni oggetto sembrava disposto secondo una collocazione che nulla aveva di casuale.

Le mani dalle dita sottili erano avvolte in guanti di gomma sterili. Sul display del computer spiccavano alcune righe di un testo ancora da completare.

La rivendicazione dei due attentati, l’uno alla sede dell’ONU e l’altro alla delegazione irachena presso le Nazioni Unite, contenente descrizioni particolareggiate di cui soltanto l’attentatore poteva essere a conoscenza, era stata vergata con un linguaggio che alternava toni esaltati a parole fredde e asettiche.

Il terrorista avvertiva di aver agito da solo e di non essere legato a nessuna organizzazione, trattando con assoluto distacco, e con il gergo scientifico di un comunicato medico, la questione della morte di undici addetti diplomatici.

La mano che aveva collocato l’esplosivo all’interno del Palazzo di Vetro e negli uffici della rappresentanza irachena stava concludendo il suo primo messaggio. Per completare la rivendicazione mancavano soltanto le parole che avrebbero indirizzato gli inquirenti verso la nuova minaccia. Era lui a tenere i fili del gioco: una caccia nella quale la preda provava un perverso piacere nel sentire il latrato delle mute di cani sulle proprie tracce.

È lo stesso libro degli infedeli a indicare dove la mano della giustizia colpirà di nuovo:

«Egli è Colui che vi fa viaggiare per terra e per mare. Quando siete su battelli che navigano col buon vento, [gli uomini] esultano. Quando sorge un vento impetuoso e le onde si alzano da ogni parte, invocano Allah e Gli rendono un culto puro: ‘Se ci salvi, saremo certamente riconoscenti!’

«A causa dei loro peccati furono affogati e poi introdotti nel Fuoco, e non trovarono nessun soccorritore».

L’uomo stava per premere il comando di stampa. Poi, avrebbe chiuso la lettera in una busta e l’avrebbe spedita a un ufficio della sede centrale del Federal Bureau of Investigation. Copie identiche della stessa missiva sarebbero state inviate ad alcuni tra i più popolari organi di stampa, affinché il mondo intero potesse riconoscere la firma di quel gesto e di quelli che ne sarebbero seguiti. Il terrorista a questo punto si fermò e parve avere un ripensamento.

L’Anello dei Re riluceva sul piano della scrivania sgombra e ordinata. Le dita sottili si chiusero sull’antico manufatto, ne percorsero il cerchio d’oro massiccio, si soffermarono sul sigillo appartenuto al Re dei Re.

Mancava soltanto la firma e l’Anello dei Re la incarnava in maniera unica e inequivocabile. Di nuovo le dita corsero sulla tastiera: «Il Giusto in nome di Dio, questo sarà d’ora in poi il nome con cui mi conoscerete e questo il mio inconfondibile sigillo», scrisse l’attentatore a suggellare il suo messaggio.

Il sigillo di Salomone, re dei Giudei, colui che le Scritture descrivono come il saggio tra i saggi e il giusto tra i giusti, sarebbe diventato, da quel momento, il marchio del terrore.

Nella base di Camp Lejeune, nei pressi di Jacksonville, in North Carolina, erano impiegate circa centocinquantamila persone, tra dipendenti e militari in servizio effettivo. La zona circostante era di particolare bellezza: chilometri e chilometri di spiaggia incontaminata, e per questo eletta a riserva marina protetta, si affacciavano sull’oceano Atlantico.

Gruppi di giovani si assiepavano lungo le anse di sabbia chiara, sdraiati sotto un sole caldo o a cavallo di una tavola, pronti ad affrontare le onde dell’oceano. Molti avevano i capelli rasati e, quasi tutti, ostentavano tatuaggi fantasiosi sui fisici statuari. Non era difficile riconoscere in quei ragazzi i marine in forza alla vicina base di Camp Lejeune che frequentavano quelle stesse spiagge anche per i loro quotidiani addestramenti.

Il colonnello Deidra Curring Blasey guardò con indifferenza le reclute che si affannavano da diverse ore nella corsa, quindi entrò nel capannone 24, destinato al reparto artificieri. Un sergente maggiore basso, corpulento e dai tratti marcati le si parò davanti: nell’espressione del sottufficiale si leggeva un rispetto assoluto.

«Agli ordini, signore», disse il sergente con voce stentorea.

«Riposo, sergente, riposo…» rispose il colonnello Blasey.

«Se posso permettermi un’opinione, signore…» riprese la parola il sergente.

Il colonnello non disse nulla, ma col capo invitò il subalterno ad andare avanti.

«… Ci siamo, signore! Credo che tra poco dovremo controllare se nello zaino c’è tutto il necessario. Sento profumo di partenza…» L’espressione del sergente era raggiante, come quella di un bambino che si accinge a intraprendere il suo gioco preferito. E il gioco preferito del sergente Kingston era la guerra.

Deidra Blasey sorrise, mentre l’uomo la seguiva all’interno di un ufficio ricavato in un angolo del capannone 24.

Nella base di Camp Lejeune erano diverse migliaia i militari che venivano chiamati «soldati con la valigia». Si trattava di un contingente scelto, composto da marine e SEALS, sempre pronti a muovere nell’arco di due ore e in grado di restare anche per tre mesi, e in modo del tutto autosufficiente, sul luogo delle operazioni.

Il protocollo prevedeva in ogni dettaglio le attività da svolgere nell’evenienza di una partenza improvvisa: al fine di seguire gli interessi di ogni soldato, un ufficio legale si sarebbe occupato di far fronte a tutte le quotidiane incombenze che i militari in missione erano impossibilitati a portare a termine. La moglie del comandante della base, inoltre, avrebbe indetto riunioni periodiche dove, tra un biscotto appena sfornato e un tè caldo, avrebbe tenuto aggiornati i familiari dei soldati.

Deidra Blasey conosceva a memoria il protocollo: da tempo aveva perso il conto delle volte in cui era stata svegliata all’improvviso e imbarcata assieme ai suoi EOD (Explosive Ordinance Disposal), il gruppo scelto dei marine esperto in esplosivi di cui era a capo, su un mezzo militare in partenza verso una destinazione sconosciuta dove vigeva, si era appena spento o stava per accendersi, uno stato di guerra.

Fronte dolomitico, ottobre 1915

Il capitano italiano scosse la testa. Erano trascorsi diversi mesi dal 24 maggio 1915 e ogni ottimistica aspettativa sulla durata e sulla reale dimensione del conflitto si era disciolta come neve al sole. Già… la neve… Ancora pochi giorni e le sporadiche nevicate autunnali si sarebbero trasformate in incessanti tormente gelate, che avrebbero reso difficile la vita delle migliaia di uomini assiepati nelle trincee.

Il Piccolo Lagazuoi era del tutto simile agli altri picchi dolomitici che si stagliavano, nel loro intenso colore rosato, contro il cielo terso delle Alpi. Il massiccio del Piccolo — contornato dalle cime del Sasso di Stria, Falzarego, Col dei Bos, Tofana di Rozes e Grande Lagazuoi — si ergeva proprio in corrispondenza del passo Falzarego, e dominava l’intera valle percorsa dalla statale «Allemagna», a una trentina di chilometri da Cortina e a una settantina da Belluno.

Gli austriaci avevano costruito una serie di postazioni sulle pendici del Piccolo Lagazuoi: nella fascia che andava dai duemilatrecento ai duemilasettecento metri di altitudine gli austroungarici erano appostati all’interno di gallerie e trincee dalle quali tenevano facilmente in scacco le forze italiane.

«Riepiloghiamo, tenente Cassali», disse il capitano Sciarra. «Voi, al comando del vostro plotone, lascerete l’accampamento nella serata del 17. Con voi si muoveranno altri due reparti di alpini, provenienti da altre compagnie. Io assumerò il comando delle operazioni. I tre drappelli risaliranno i canaloni del passo Falzarego, arrampicandosi sulla parete orientale del Lagazuoi. Dobbiamo cacciare gli austriaci dalle loro postazioni e impossessarcene.»

Il tenente Cassali annuì in silenzio. Il capitano osservò gli occhi del giovane sottoposto: quel ragazzo, che proveniva da una famiglia borghese del Nord Italia, si comportava come un vero uomo, sebbene non avesse più di vent’anni.

Gli occhi azzurri del tenente sembravano cercare, in quelli del suo capitano, il coraggio che sarebbe stato necessario per balzare fuori dalla trincea e combattere corpo a corpo contro gli austriaci.

Alberto Sciarra parve accorgersi dello sguardo simile a quello di un cucciolo in attesa di una carezza. Così sorrise, appoggiò una mano sulla spalla del giovane ufficiale e disse: «Che Dio ce la mandi buona, tenente».

L’attacco fu preceduto da un nutrito bombardamento d’artiglieria.

Gli austriaci era come se fossero scomparsi dalle prime linee, mentre le granate cadevano quasi senza soluzione di continuità.

«Non vi illudete», disse Sciarra ai suoi in un momento di tregua, «i nemici si sono ritirati all’interno delle loro gallerie e balzeranno fuori non appena finirà il bombardamento.»

L’ufficiale non si sbagliava: il grosso delle truppe nemiche era al riparo nei cunicoli che si addentravano nelle profondità delle rocce. Per isolare dal freddo gli angusti rifugi, i soldati erano soliti rivestire con del legno le pareti rocciose, usando come intercapedine alcuni fogli di carta impregnata di catrame. Rispetto ai disagi delle trincee, i ricoveri offerti dalle gallerie apparivano come la più sfarzosa e accogliente delle magioni.

Le opere di scavo sarebbero diventate l’arma decisiva per le sorti di quella guerra senza fine. E i cunicoli, aperti con fatica sotto le postazioni nemiche, avrebbero dato vita a quella che sarebbe stata definita una «guerra di mina» senza precedenti.

Il tenente Cassali si alzò con la pistola d’ordinanza in pugno. Il silenzio delle vette si adagiava sulla scena palpabile come un sudario.

I fanti uscirono allo scoperto imbracciando i moschetti sui quali avevano innestato le baionette. Una nebbia leggera, in quella mattina del 18 ottobre 1915, rendeva ancor più irreali i preparativi dell’assalto.

L’urlo di battaglia si levò alto non appena i comandanti di plotone ordinarono la carica, e ruppe il silenzio che aveva avvolto le vette.

Il capitano Alberto Sciarra stava al centro della compagnia, armi alla mano.

I militari italiani non fecero che qualche passo, poi un inferno di fuoco si scatenò contro di loro, erigendo una muraglia invalicabile tra gli alpini e le truppe austriache.

«Lasciate che mi complimenti con voi, capitano Sciarra», aveva detto il colonnello Cantini, entrando nell’ospedale da campo.

Il capitano si era alzato dal capezzale del suo sottoposto e per pochi istanti aveva abbandonato la mano del tenente Cassali.

«Grazie, signor colonnello», aveva risposto Sciarra della Volta. Quindi, indicando i feriti attorno a lui aveva aggiunto: «Dobbiamo soprattutto al valore di questi uomini e di tutti i caduti sotto il fuoco nemico la riuscita dell’attacco».

«È vero, onore ai caduti e ai valorosi alpini», aveva convenuto Cantini con aria enfatica.

«Molti ufficiali sono rimasti vittima del fuoco austriaco, anche un mio valoroso parigrado, il capitano Martini, è caduto al comando della sua compagnia mentre stava difendendo una postazione strategica conquistata dai suoi uomini.»

Il colonnello fece un rapido giro dell’ospedale, ricavato nello slargo di una galleria. Si soffermò brevemente dinanzi ai feriti più gravi. L’alto ufficiale posò le mani sulla fronte di un ragazzo di diciotto anni che, al posto degli arti superiori, aveva delle bende intrise di sangue.

Alberto Sciarra ripensò all’adagio di chissà quale poeta: «…La guerra è bella…»

La stretta della mano del tenente Cassali lo riportò alla realtà.

«Ce l’abbiamo fatta, signor capitano, non è vero?» chiese Cassali con lo sguardo annebbiato e ormai fisso nel vuoto. «Ditelo voi ai miei genitori che ce l’abbiamo fatta.»

Il giovane tenente chiuse gli occhi per sempre.

Tabarqa, 1347

All’interno della propria tenda il guerriero giapponese, prima di cedere al sonno, si dibatteva tra dubbi e rimorsi.

Per lui la guerra doveva sottostare alle leggi dell’onore. E l’aver disseminato l’epidemia nella città sotto assedio andava contro le inflessibili regole del bushido, l’antico codice di comportamento dei samurai.

Quanto tempo era passato da quando Hito Humarawa era fuggito dal suo paese coperto dal disonore! Un’onta talmente vergognosa che, sebbene lui combattesse da tempo per i veneziani, nessuno in patria gli avrebbe mai più perdonato.

Ma mentre la stanchezza lo stava per vincere e i suoi pensieri si facevano sempre più confusi, un rumore all’interno della tenda lo riportò alla realtà e, prima che potesse rendersi conto di che cosa stesse succedendo, una voce ferma e forte lo destò del tutto.

«Sono io, Humarawa. Vengo in pace», disse la voce nel buio. «Prima di aggredirmi ascolta quanto ho da dirti. Nei miei confronti tu hai contratto il più indissolubile dei debiti: quello dell’onore.»

«Ti ascolterò, Muqatil», rispose Humarawa, che aveva subito riconosciuto la voce. «Ti ascolterò, mio onorevole nemico.»

Poco fuori, le sentinelle ignare e rese distratte dall’inattività dell’assedio si aggiravano tra i fuochi del campo. All’interno della tenda di uno dei comandanti della spedizione veneziana, due uomini si stavano confessando l’un l’altro sentimenti profondi e debolezze. La circostanza era singolare perché i due si combattevano ormai da tredici ininterrotti anni: ciascuno aveva come principale scopo della propria vita la sconfitta dell’altro.

«So», disse il saraceno, «che la vile idea di diffondere il contagio nella città assediata non è stata tua. Conosco il tuo valore e sono certo che tu non ricorreresti a certi odiosi espedienti.»

Il giapponese era seduto sul letto e aveva alzato la fiamma del lume a olio. Il cenno di diniego di Humarawa confermò al saraceno la sua estraneità a quella macchinazione.

Gli occhi color cobalto del Muqatil brillarono alla luce della lampada, mentre continuava: «Ritengo ormai inutile tacere. I pochi soldati rimasti ai tuoi ordini stanno solo aspettando che i corvi scendano sulla città a banchettare. Quello sarà il segnale che anche l’ultimo degli abitanti è stato colpito dalla peste. Almeno settanta soldati ogni cento sono già morti per l’epidemia. Tra le donne e i bambini la percentuale è molto superiore. Diletta, la donna che amo, non vedrà il sorgere del nuovo giorno. Ma io ti assicuro, Humarawa, che non morirò tra i versamenti dei bubboni, mentre la carne annerisce per la cancrena. Io voglio morire da guerriero, e a un guerriero mi rivolgo, in nome della lealtà».

«Vai avanti, Muqatil», disse il giapponese, senza distogliere lo sguardo dal suo avversario.

«Credo tu sia stata una delle prime persone a prendere in braccio mia figlia, quando, per ordine del padre di mia moglie, il perfido Campagnola, la sottraesti a sua madre Diletta. Io adesso ti chiedo di portare la mia Celeste in salvo, lontana dagli spettri di morte che aleggiano su Tabarqa. Tu non puoi sapere, Humarawa, cosa sia il contagio all’interno di una città assediata.»

La luce del sole illuminò il campo. Con lentezza rituale, Humarawa procedette alla vestizione, aiutato da Wu, il suo scudiero, intento a stringere i legacci di seta che assicuravano l’armatura da samurai al corpo muscoloso del giapponese.

Il sole era alto quando la porta principale della città si spalancò.

Il Muqatil cavalcava un purosangue nero. I pennacchi variopinti sulla sommità dell’elmo ondeggiavano scossi dal vento caldo proveniente dai vicini deserti.

Dietro al guerriero saraceno avanzava un gruppo di soldati in armi, pronti a morire combattendo. Erano gli unici abitanti di Tabarqa sopravvissuti alla peste.

Humarawa era schierato alla testa dei suoi. Levò la spada dinanzi alla maschera da guerra che portava. La lama della katana si arrestò all’altezza del viso, in segno di saluto verso l’onorevole nemico.

Il Muqatil, il volto segnato dall’incedere del male, rispose al saluto, preparandosi a quella che, forse, sarebbe stata la sua ultima battaglia.

Base aerea di Konya, 200 km a sud di Ankara, giugno 2002

Il rumore dei motori del trireattore Boeing della US Air Force le ronzava ancora nelle orecchie, e si sovrapponeva al sibilare del vento proveniente da sud.

Il colonnello Blasey sollevò lo zaino e si diresse risoluta verso l’edificio a destra della pista.

Il sergente Kingston accennò appena un gesto di cavalleria, offrendosi di trasportare il pesante bagaglio. Poi il corpulento sottufficiale scosse il capo: Deidra Curring Blasey era un ufficiale dei marine a tutti gli effetti, uno tra i più esperti ufficiali in servizio.

«Andiamo, ragazzi», disse rivolgendosi ai sessanta uomini, tra artificieri, tecnici e sminatori ai suoi ordini. Nessuno tra loro dimostrava la minima perplessità dinanzi al fatto che fosse una donna a impartire ordini: il loro comandante si era guadagnato i gradi sul campo. «I cammellieri del deserto hanno bisogno della nostra consulenza per trovare strade sicure», spiegò il colonnello, issando lo zaino sulle spalle. «Diamoci da fare, se vogliamo tornare a casa rapidamente… e attenti a dove mettete i piedi: la zona è piena di mine antiuomo.»

Il vento portava con sé un vortice di ricordi: lei era appena rientrata dalle operazioni nel Golfo, quasi dieci anni prima, quando un maledetto cancro le aveva portato via il marito, un onesto assicuratore del North Carolina. Poco dopo, le era stato strappato l’unico affetto che le era rimasto: suo figlio Martell era morto dilaniato dalla mano assassina di un terrorista in un bar del Cairo.