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POTERE DI DISSUASIONE INDIPENDENTE

Dopo un’ora e mezzo senti arrivare la macchina. Per tutto quel tempo sei rimasto lì ad aspettare, al buio, seduto sullo sgabello del telefono di fianco alla porta d’ingresso. Ti sei mosso soltanto una volta, dopo circa mezz’ora, per andare in cucina a controllare la cameriera. Era sempre là, con gli occhi spalancati nella penombra. Nell’aria c’era un odore strano, pungente, e lì per lì hai pensato a un gatto, anche se sai bene che lui non ne ha, di gatti. Poi però hai capito che la cameriera si era pisciata addosso. Hai provato un certo disgusto, insieme a un vago senso di colpa.

Quando ti sei avvicinato, lei ha cominciato a mugolare sotto il nastro adesivo nero. Hai controllato il nastro con cui l’avevi assicurata alla sedia e la corda con cui avevi legato la sedia alla cucina Aga ancora calda. Il nastro era esattamente come l’avevi lasciato: o la donna non aveva cercato di liberarsi, oppure l’aveva fatto, ma inutilmente. La corda era ben tesa. Hai lanciato un’occhiata in direzione delle finestre, quindi le hai illuminato le mani con la torcia. Le dita sembravano a posto; era un po’ difficile dirlo, a causa della pelle olivastra tipica dei filippini, ma eri convinto di non averle fermato la circolazione. Hai osservato i suoi piedi minuti, infilati nelle pantofole nere senza tacco. Anche quelli parevano a posto. Una goccia di urina è andata ad aggiungersi alla piccola pozza formatasi sotto la sedia, sul pavimento a piastrelle.

Quando l’hai guardata in faccia, lei tremava di paura. Sai di essere terrificante con il passamontagna nero, ma non ci puoi fare assolutamente nulla. Le hai dato un colpetto sulle spalle, per rassicurarla come meglio potevi. Poi sei tornato allo sgabello di fianco alla porta. Sono giunte tre telefonate; le hai sentite grazie alla segreteria telefonica che rispondeva.

«Sapete che dovete fare», diceva la sua voce gracchiante a chiunque chiamava. Aveva una voce brusca, secca, vagamente snob. «Fatelo dopo il bip.»

«Tobias, vecchio mio… come te la passi? Sono Geoff. Mi chiedevo che programmi hai per sabato prossimo. Ti va un’uscita a quattro nella soleggiata Sunningdale? Fammi uno squillo. Ciao.»

(bip)

«Hmm… Sì, pronto, Sir Toby. Parla nuovamente Mark Bain. Hmm, l’ho chiamata tempo fa e poi negli ultimi due giorni. Io… avrei molto piacere di farle un’intervista, come le ho già detto, Sir Toby, e… Be’, so che di solito lei non concede interviste, ma le assicuro che non ho intenzione di metterla in difficoltà, anzi, apprezzo molto quello che lei ha fatto, e sono davvero interessato a conoscere più a fondo i suoi punti di vista. Ovviamente sta a lei decidere, certo, e io rispetto la sua decisione. Io… proverò a chiamarla ancora in ufficio domani mattina. La ringrazio. La ringrazio molto. Buonasera.»

(bip)

«Tobes, vecchio bastardo, chiamami per quella storia, non sono ancora soddisfatto. E fatti aggiustare quel maledetto cellulare della macchina.»

Quest’ultima telefonata ti ha fatto sorridere. Quella voce dura, coloniale, imperiosa che contrastava con il cameratismo da college d’élite della prima e il tono supplichevole e lamentoso da classe operaia delle Midlands della seconda. La Voce del Padrone. Quello sì era un uomo che ti sarebbe piaciuto conoscere. Nel buio hai alzato lo sguardo verso la parete, ai piedi della scala, coperta da fotografie incorniciate. Ce n’è una di Sir Toby Bissett con la signora Thatcher, entrambi sorridenti. Anche tu hai sorriso.

Poi sei rimasto seduto, respirando piano, riflettendo, mantenendoti calmo. Hai tirato fuori la pistola, infilando un braccio sotto la spessa giacca di tela, togliendola dalla cintura dove l’avevi infilata, lì, aderente alla schiena, tra jeans e camicia. Hai sentito il metallo caldo della Browning persino attraverso i sottili guanti di pelle. Hai estratto e rimesso a posto il caricatore un paio di volte, hai passato il pollice sulla sicura per accertarti che fosse inserita. Poi hai rimesso a posto l’arma.

Ti sei chinato, ti sei tirato su la gamba destra dei jeans e hai estratto il Marttiini dal suo fodero leggermente oliato. La lama sottile del coltello si è rifiutata di brillare fino a quando non l’hai inclinata in modo che riflettesse la lucina rossa e lampeggiante della segreteria telefonica. C’era una leggera macchia d’unto sulla lama. Ci hai alitato sopra e l’hai pulita con un dito, quindi l’hai ispezionata di nuovo. Soddisfatto, hai rimesso il coltello nel fodero e hai tirato giù la gamba dei jeans. E poi hai aspettato finché la Jaguar non si è fermata, fuori, con il motore che ronzava al minimo nella piazza silenziosa, riportandoti al presente.

Ti alzi e guardi attraverso lo spioncino della grande porta di legno. Vedi la piazza avvolta dall’oscurità e distorta dalla lente. Vedi i gradini che salgono dal marciapiede, delimitati su entrambi i lati da una ringhiera. Vedi le macchine parcheggiate lungo la strada, e le sagome scure degli alberi al centro della piazza. La luce arancione dei lampioni si riflette sulla portiera dell’auto nell’istante in cui si spalanca. Scendono un uomo e una donna.

Non è solo. Osservi la donna che si liscia la gonna del tailleur, mentre l’uomo dice qualcosa all’autista e poi chiude la portiera.

«Merda!» imprechi sottovoce. Il cuore ti batte forte.

L’uomo e la donna si dirigono verso la casa. L’uomo tiene in mano una valigetta. È lui. Sir Toby Bissett, l’uomo cui appartiene la voce secca e brusca della segreteria telefonica. Mentre tu continui a sbirciare dallo spioncino, loro salgono sul marciapiede e vanno verso i gradini; lui prende la donna per il gomito, guidandola verso la porta.

«Merda!» esclami di nuovo, e ti giri verso il piccolo corridoio che, di fianco alla scala, porta alla cucina, dove si trova la cameriera, e dove la finestra da cui sei entrato è ancora mezza aperta. La fronte ti prude sotto il passamontagna. Lui lascia andare il gomito della donna, passa la valigetta nell’altra mano e infila la destra nella tasca dei calzoni. Hanno già fatto metà dei gradini. Ti assale il panico; fissi la pesante catena che penzola di fianco alla porta, vicino al grosso chiavistello. Senti il rumore della chiave nella toppa, così vicino da farti trasalire, senti che lui dice qualcosa, senti la risata nervosa della donna e capisci che è troppo tardi. Riacquisti la calma, ti allontani dalla porta fino a trovarti con la schiena contro i cappotti appesi all’attaccapanni; infili una mano nella giacca di tela e impugni il solido sfollagente di pelle con l’anima di piombo.

La porta si apre, verso di te. Senti il motore della Jaguar che fa le fusa mentre l’auto si allontana. La luce dell’ingresso si accende e lui dice: «Eccoci qui».

Poi la porta si chiude e i due si trovano proprio davanti a te. Mentre lui si gira appena per posare la ventiquattrore sul tavolinetto, di fianco alla segreteria telefonica, la ragazza — una bionda abbronzata sui venticinque, con in mano una valigetta — ti vede. Guarda meglio, come se pensasse di essersi sbagliata. Stai sorridendo, sotto il passamontagna, e ti porti un dito alle labbra. La ragazza ha un attimo di esitazione. Il nastro della segreteria telefonica si riawolge con uno squittio. Proprio quando la ragazza sta per aprire bocca, fai un passo avanti: ora sei proprio dietro di lui.

Con lo sfollagente, gli sferri un colpo violento alla nuca, un palmo sopra il collo della giacca. Lui si accascia immediatamente, cadendo contro il muro e poi sul tavolinetto, travolgendo il telefono e la segreteria telefonica. Allora ti volti verso la ragazza.

Lei osserva a bocca aperta l’uomo sul tappeto. Ti fissa, e pensi che stia per mettersi a urlare. T’irrigidisci, pronto a colpirla con un pugno. Invece la ragazza molla la valigetta e alza le mani tremanti davanti a sé, lanciando una rapida occhiata all’uomo che giace immobile sul pavimento. Le trema anche la mascella.

«Per favore», dice, «non mi faccia niente.» La voce risulta molto più ferma delle mani e della mascella. Lancia un altro sguardo all’uomo sul tappeto. «Io non so chi…» Deglutisce e sbatte le palpebre, terrorizzata. La osservi mentre si sforza di parlare, ha la bocca arida. «Io non so chi è lei, ma non ci voglio avere a che fare. Non mi faccia nulla. Ho dei soldi. Glieli darò, se vuole, ma io non ho niente a che fare con questa storia. Va bene? La prego…»

Ha una voce colta, raffinata, una voce da quartieri alti e da scuole esclusive. Provi disprezzo e ammirazione insieme per il suo atteggiamento. Dai un’occhiata all’uomo: è immobile. La segreteria telefonica, caduta sul tappeto, arriva alla fine del nastro con un clic. Ti volti di nuovo verso la donna e annuisci lentamente. Poi fai un cenno con la testa, indicando la cucina. Lei guarda in quella direzione, sembra esitare. Allora indichi la cucina con lo sfollagente.

«Va bene», dice, «va bene.» Si avvia lungo il corridoio camminando all’indietro, sempre tenendo le mani tese davanti a sé. Entra in cucina, spalancando la porta con la schiena. La segui e accendi la luce. Lei continua a camminare e allora tu alzi una mano per indicarle che deve fermarsi. Vede la cameriera sulla sedia legata alla cucina. Le fai segno di sedersi su un’altra sedia rossa. La ragazza fissa la cameriera con gli occhi spalancati, poi sembra giungere a una decisione e si siede.

Ti allontani da lei per andare a prendere il rotolo di nastro adesivo nero che hai lasciato sul bancone. Estrai la pistola e, mentre scosti il passamontagna dalla bocca per strappare con i denti un pezzo di nastro, la tieni sotto tiro. Lei continua a osservare l’arma con espressione calma e risoluta, ma ora è impallidita. Mentre le giri il nastro adesivo intorno ai polsi sottili, ornati da braccialetti d’oro, le premi la pistola contro le costole. Continui a lanciare veloci occhiate alla porta, verso il corridoio in fondo al quale giace, abbandonata, la sagoma scura; sei pienamente consapevole del fatto che stai correndo un rischio in più, un rischio assolutamente non necessario. Metti via la pistola e le leghi le caviglie fasciate nelle calze nere di nylon. La ragazza profuma di Paris.

Le appiccichi una striscia di nastro lunga dieci centimetri sulla bocca ed esci dalla cucina, spegnendo la luce e chiudendo la porta.

Torni da Sir Toby. Non si è mosso. Togli il passamontagna e lo infili nella tasca della camicia, prendi il casco da motociclista da dietro l’attaccapanni, lo indossi, quindi afferri l’uomo, prendendolo sotto le ascelle, e lo trascini al piano di sopra, passando davanti alle fotografie incorniciate. I suoi talloni rimbalzano a ogni scalino. Dentro il casco, il tuo respiro suona affannoso: Sir Toby è più pesante di quanto immaginassi. Odora di un profumo costoso che non riesci a identificare. Una ciocca di lunghi capelli grigi gli cade di lato, su una spalla.

Lo trascini fin dentro il salotto del primo piano e, dopo essere entrato, chiudi la porta con una spallata. La stanza è illuminata soltanto dalla luce dei lampioni in strada; nella semioscurità inciampi e rischi di travolgere un tavolino. Qualcosa cade a terra e si rompe.

«Merda», sussurri, ma non ti fermi e continui a trascinarlo verso la portafinestra di un terrazzino che dà sulla piazza. Lo appoggi contro il muro a lato della finestra e sbirci fuori. Una coppia sta attraversando la piazza. Dai loro due minuti di tempo per allontanarsi, aspetti che passino due macchine, quindi apri la finestra ed esci sul terrazzino, nella tiepida notte di Belgravia. La piazza sembra tranquilla, la città non è che un rombo lontano oltre l’oscurità tinta di arancione. Guardi giù, verso i gradini di marmo che conducono al portone e verso la cancellata nera, che termina in lunghe lance aguzze. Allora torni dentro, afferri l’uomo sotto le ascelle, lo trascini fuori e lo appoggi al parapetto di pietra del terrazzino che ti arriva all’altezza della vita.

Fai correre lo sguardo intorno: una macchina in fondo alla piazza attraversa la tua visuale. Lo sollevi in modo da farlo sedere sul parapetto; la testa gli ricade all’indietro e dalla bocca esce un gemito. Gocce di sudore ti colano sugli occhi. Mentre lo sistemi nella posizione giusta, si muove debolmente fra le tue braccia. Dai un’ultima occhiata alla ringhiera, tre o quattro metri più sotto. Poi lo spingi giù.

Sir Toby cade sulla ringhiera, picchiando la testa, un fianco e una gamba; si sente un rumore sorprendentemente secco, uno scricchiolio, come di qualcosa che si spezza. La testa si gira di lato e dall’orbita dell’occhio destro sbuca la punta di una delle lance.

Il suo corpo sembra sgonfiarsi, le braccia penzolano senza vita, uno di qua e uno di là della cancellata, sopra la scala che porta all’appartamento nel seminterrato. La gamba destra rimane sospesa sui gradini. Si sente un altro debole scricchiolio, il corpo è attraversato da uno spasmo e poi si affloscia definitivamente. Sangue scuro gli sgorga dalla bocca, macchiandogli il colletto della camicia bianca, e comincia a gocciolare sui gradini di marmo chiaro. Ti allontani dal parapetto e guardi intorno a te. Alcune persone sono entrate nella piazza dal lato più lontano, a una quarantina di metri di distanza, e si stanno avvicinando.

Ti volti e rientri nel salotto, chiudi la finestra e ti allontani, evitando il tavolinetto e il vaso rotto che giace sul tappeto. Scendi e attraversi la cucina, dove si trovano le due donne legate alle sedie; esci dalla stessa finestra dalla quale sei entrato, attraversando a passi tranquilli il piccolo giardino sul retro, e arrivi al vicoletto dove hai parcheggiato la moto.

Proprio mentre stai tirando fuori le chiavi della moto senti il primo urlo, debole e remoto. Provi un’improvvisa euforia.

Sei contento di non aver dovuto far del male alle donne.

È una fredda e tersa giornata di ottobre, luminosa e frizzante; soltanto qualche nuvoletta paffuta fugge veloce oltre le montagne, sospinta dalla brezza gelida. Punto il binocolo verso il basso pendio su cui s’intrecciano le strade di Helensburgh, poi lo sposto verso le pendici boscose delle colline alle spalle della cittadina, continuo a sinistra, supero le colline sul lato più lontano del lago e lo punto sulle montagne. Proseguo verso la punta estrema del lago e riesco a distinguere le incastellature, le banchine e gli edifici della base navale. Sopra il ronzio dei motori delle barche e degli elicotteri si sentono urla lontane e fischi di protesta; guardo in basso, verso la piccola lingua di spiaggia ricoperta di ciottoli che si trova proprio di fronte a me e dove si è radunato qualche centinaio di dimostranti, tra gente venuta da fuori e locali: stanno battendo i piedi e sventolano striscioni. Un elicottero mi strepita sulla testa. Fisso l’angusto estuario: altri tre elicotteri stanno volando in circolo sopra la massa scura del sottomarino. Il rimorchiatore, le lance della polizia addette alla scorta e i gommoni che girano intorno si fanno strada lentamente nel gruppo d’imbarcazioni del Campaign for Nuclear Disarmament. L’acqua si solleva in due alte ondate di spruzzi e mi taglia la visuale.

Abbandono il binocolo, e lo lascio penzolare al collo, mentre accendo un’altra Silk Cut.

Mi trovo sul tetto di un container vuoto, abbandonato in una piccola discarica in prossimità della spiaggia di un paesino chiamato Roseneath e che sorge direttamente sul Gare Loch, per assistere all’arrivo del Vanguard. Alzo nuovamente il binocolo e lo punto sul sottomarino. Adesso riempie tutta la mia visuale, nero e quasi informe, anche se si riescono a distinguere le diverse parti che compongono lo scafo alto e curvo.

I gommoni dei dimostranti ronzano intorno al perimetro di sicurezza formato dalle imbarcazioni di scorta, cercando un modo per entrare. I gommoni del ministero della Difesa sono più grandi delle imbarcazioni degli antinuclearisti e hanno motori più potenti; i marinai indossano berretti neri e tute scure, mentre i dimostranti del CND portano giacche dai colori vivaci e agitano grosse bandiere gialle. L’enorme sottomarino avanza tra di loro, solcando composto le acque dello stretto. Il rimorchiatore della Royal Navy gli apre la strada senza trainarlo. Una nave guardapesca grigia segue la flottiglia. I grossi elicotteri continuano a incrociarsi, tuonando sopra la scena.

«Ehi, dammi una mano, vecchio bastardo.»

Guardo giù e vedo la testa e le mani di Iain Garnet. Sta agitando le braccia in segno di saluto.

«Come al solito ci seguite, eh, Iain?» gli chiedo, mentre lo aiuto a salire sul container dallo stesso barile che ho usato io.

«Vaffanculo, Colley», risponde Garnet, amabile come sempre, e si china per togliersi la polvere dalle ginocchia dei calzoni. Iain lavora per il nostro concorrente di Glasgow, il Dispatch. È vicino ai quaranta, grassoccio in vita ma piccolo di spalle. Sopra l’abito grigio stazzonato indossa quella che sembra proprio una vecchia giacca a vento degli anni 70. Fa un cenno con la testa in direzione della sigaretta che tengo tra le labbra. «Me ne dai una?»

Quando vede il pacchetto che gli porgo, arriccia il naso con aria disgustata, ma ne prende una lo stesso. «Cristo, Cameron! Silk Cut? La sigaretta per quelli che vogliono convincersi che stanno per smettere? E io che ti consideravo uno degli ultimi seri candidati al cancro ai polmoni! Che ne è delle Marlboro?»

«Quelle sono per i cowboy come te», gli dico, accendendogli la sigaretta. «E che ne è delle tue?»

«Le ho dimenticate in macchina», spiega. Ci voltiamo a osservare la piccola armada che avanza sulla distesa azzurra e scintillante intorno al gigantesco sottomarino. Il Vanguard è ancora più grosso di quanto mi aspettassi. Enorme, grasso, nero, come il più grosso e il più nero dei lumaconi, con qualche pinnetta messa qui e là, come per un ripensamento. Sembra quasi troppo grosso per entrare nello stretto davanti a noi.

«Bella bestia, eh?»

«Mezzo milione di sterline per sedicimila tonnellate…»

«Lo so, lo so», borbotta Iain con aria depressa. «E lungo come due campi da calcio. Non avresti qualcosa di più originale

Mi stringo nelle spalle. «Non te lo dico. Leggiti l’articolo domani.»

«Che bambinone.» Si guarda intorno. «Dov’è il tuo uomo con l’Instamatic?»

Accenno con la testa a un piccolo motoscafo fermo vicino all’imbocco dello stretto. «Sta scattando un po’ di foto con il grandangolo. E il tuo?»

«Io ne ho due», dice Iain. «Uno è qui, da qualche parte, l’altro è lassù, su un elicottero, insieme a quelli della BBC.»

Alziamo la testa. Conto quattro Sea King della marina. Iain e io ci guardiamo.

«Esagerati! Persino l’elicottero!» esclamo.

Lui alza le spalle. «Probabilmente stanno discutendo su chi deve dare la mancia al pilota.»

Torniamo a osservare il sottomarino. Le barche dei dimostranti continuano a puntare diritte verso il Vanguard, e ogni volta vengono respinte dalle imbarcazioni del ministero della Difesa; gli scafi di gomma sbattono l’uno contro l’altro per poi allontanarsi, sobbalzando sulle onde. Il naso tozzo del sottomarino della classe Trident avanza implacabile verso l’imbocco del canale, preceduto dal rimorchiatore. Alcuni marinai se ne stanno tranquilli sul ponte dell’enorme nave, con indosso giubbotti salvagente gialli, alcuni a prua dell’alta torretta, altri a poppa. La gente sulla lingua di spiaggia davanti a noi urla e fischia. Magari qualcuno sta facendo festa.

«Prestami un attimo il binocolo», dice Iain.

Glielo porgo e lui lo punta sul rimorchiatore che lentamente apre la strada al sottomarino. Roisterer, si chiama.

«Come vanno le cose al Caley?» chiede Iain.

«Oh, sempre allo stesso modo.»

«Uau!» esclama, distogliendo lo sguardo dal binocolo e assumendo un’espressione sorpresa. «Attento. Sei sicuro di volerlo ripetere? Sto registrando tutto, sai.»

«Sta’ attento tu, giornalista da strapazzo.»

«I vostri ragazzi della costa orientale sono semplicemente invidiosi del nostro sistema informatico perché funziona.»

«Eh, come no.»

Osserviamo la lunga sagoma palesemente fallica scivolare nello stretto e, per un attimo, lo scafo nasconde alla nostra vista la piccola folla radunata sulla lingua di terra di fronte a noi. Minuscole teste con il cappello escono dalla torretta e guardano nella nostra direzione. Saluto con la mano. Uno di loro risponde. Provo una strana, colpevole felicità. Gli elicotteri fanno un sacco di rumore sopra le nostre teste; il movimento circolare delle imbarcazioni dei dimostranti e del ministero della Difesa risulta limitato dalle dimensioni del canale; i gommoni danzano e sobbalzano uno intorno all’altro, spesso scontrandosi. Sembrano otto spastici che cercano di ballare una quadriglia, ma non è un’immagine che userei in un articolo.

«Bella dimostrazione, ieri, a Londra, eh?» fa Iain, restituendomi il binocolo.

Annuisco. Ieri sera ho visto in televisione le immagini di migliaia di persone bagnate fradice percorrere lentamente le strade di Londra per protestare contro la chiusura delle miniere.

«Già.» Spengo la sigaretta schiacciandola con la scarpa sul tetto arrugginito del container. «La gente si è resa finalmente conto che Scargill aveva ragione. Peccato che c’è arrivata dopo sei anni, quando ormai è troppo tardi.»

«Lui però è uno stronzo arrogante.»

«Non importa. Aveva ragione lui.»

«Comunque rimane uno stronzo arrogante», ribadisce Garnet e fa un gran sorriso.

Scuoto la testa e indico la nave guardapesca che chiude la flottiglia ormai prossima a infilarsi nello stretto. «Che ne pensi, è meglio dire che la nave è in coda al sottomarino o che gli va di poppa? In termini marinareschi, intendo dire.»

Socchiudendo gli occhi, Iain osserva la nave, mentre lo scafo del sottomarino continua a sfilarci davanti. Capisco che sta cercando disperatamente una battuta, sta pensando che ce ne deve essere qualcuna sul genere: «No, gli va in culo», o qualcosa di egualmente stiracchiato, ma entrambi i termini si prestano poco a battute intelligenti; evidentemente se ne rende conto anche lui perché si limita a stringersi nelle spalle. «Non ne ho la più pallida idea, amico», dice, e tira fuori il taccuino.

Comincia a scarabocchiare ghirigori. Garnet deve essere uno degli ultimi che usano la stenografia; sono pochi quelli della nostra generazione che si fidano ancora di Pitman, i più preferiscono affidarsi ai Pearlcorder Olympus.

«Sei sempre senza una rubrica fissa, Cameron?»

«Già, sono un segugio in cerca di notizie, senza rubrica e senza portafoglio.»

«Hmm… Ho sentito dire che hai un animaletto tra i governativi che ogni tanto ti dà qualche bel bocconcino, vero, Cameron?» ridacchia Garnet, imperturbabile, senza alzare gli occhi dal taccuino.

«Cosa?» Lo guardo con occhi spalancati.

«Un bell’animaletto peloso», mi fa, rivolgendomi un sorriso a trentasei denti.

Continuo a fissarlo.

«Un animaletto peloso che vive sottoterra e si nutre d’insetti. Non ci arrivi?» Scuote la testa per la mia lentezza. «Una talpa», chiarisce infine con tono paziente.

«Oh?» dico, sperando di apparire adeguatamente meravigliato.

Fa l’aria offesa. «Allora, è vero?»

«Vero cosa?»

«Che hai una talpa nei servizi di sicurezza o in qualche altro ente altrettanto supersegreto che ti passa ghiotte primizie a proposito di una grossa storia che sta per venire a galla?»

«No», rispondo, scuotendo la testa.

Mi sembra deluso.

«Chi te l’ha detto?» gli chiedo. «Frank?»

Aggrotta la fronte, spalanca la bocca fino a formare una O perfetta e inspira a fondo. «Spiacente, Cameron, ma non posso assolutamente rivelare le mie fonti.»

Gli rivolgo un’occhiata mesta. Tutti e due ci voltiamo di nuovo a guardare il sottomarino.

Si odono deboli, distanti esclamazioni di trionfo quando, finalmente, uno dei gommoni degli antinuclearisti riesce a forzare il cordone delle imbarcazioni militari, sfugge al controllo e si lancia a tutta velocità contro la poppa tonda e nera del Trident, riuscendo a salirgli appena sulla coda — pare un moscerino che tenta d’ingropparsi un elefante — prima di essere allontanato. Una troupe televisiva cattura il momento. Sorrido, compiaciuto per i dimostranti. Dopo un po’ ci sfila davanti la grossa massa grigia della Orkney, sempre al seguito del gigantesco sottomarino.

«Orkney», mormora Garnet con aria pensosa. «Orkney…»

Mi sembra quasi di sentire il suo cervello che macina nel tentativo di scoprire un collegamento con il pezzo forte delle notizie dall’interno dell’indomani, quando verrà pubblicato il rapporto sul finto scoop del caso Orkney, riguardante le molestie sessuali sui minori. Conoscendo Garnet, c’è da aspettarsi un qualche commento sui marinai.

Me ne sto zitto, per non incoraggiarlo.

Getta via il mozzicone di sigaretta. Forse equivocando il suo gesto, qualcuno a poppa della Orkney ci saluta con la mano. Iain risponde con cordialità al saluto. «Bravi, continuate così, ragazzi!» grida, ma non abbastanza forte perché qualcuno a bordo della nave possa sentirlo. Sembra compiaciuto di sé.

«Sei davvero uno spasso, Iain», gli faccio, avvicinandomi al bordo del container. «Ci facciamo una birra, dopo?» Salto giù sul barile e da lì a terra.

«Te ne vai già?» chiede Iain. E aggiunge: «No, devo intervistare il comandante di Faslane e poi devo tornare in ufficio».

«Anch’io devo rientrare alla base», gli dico. «Ci vediamo là.» Mi volto, dirigendomi alla macchina.

«Non mi dare una mano a scendere, eh, bastardo? Sempre lo stesso edimburghese bastardo!» mi urla dietro.

Alzo una mano e continuo per la mia strada senza voltarmi. «Hai ragione!»

Un minuto dopo, mentre esco dal villaggio, diretto verso l’estremità del lago e la base navale che si trova proprio lì, sorpasso il sottomarino. Nella splendente luce del sole, si rivela di una bellezza singolare e minacciosa, una macchia nera e scintillante nel panorama di terra e acqua. Scuoto la testa. Dodici miliardi di sterline per far fuori alcuni silos probabilmente già vuoti e incenerire qualche decina di milioni di russi, uomini, donne e bambini… se non che ormai non sono più nostri nemici e così quell’affare che già prima era osceno — nonché totalmente, deliberatamente inutile — diventa adesso senza scopo. Uno spreco ancora maggiore.

Mi fermo su un tratto di strada sopraelevato, poco dopo Garelochhead, e rimango a osservare il sottomarino che si sta avvicinando al bacino. Ci sono altre macchine parcheggiate e gruppi di persone che lo stanno osservando; probabilmente cercano di trovare una giustificazione ai soldi che hanno tirato fuori come contribuenti.

Accendo una sigaretta, e abbasso il finestrino per poter soffiare fuori tutto quel fumo dannoso alla salute. Mi fanno male gli occhi per la stanchezza. Sono rimasto alzato quasi tutta la notte a lavorare a un articolo e a giocare a Despot al computer. Mi guardo intorno per accertarmi che nessuno stia osservando, infilo una mano sotto la giacca North Cape e tiro fuori un sacchettino di anfe. M’inumidisco un dito, lo intingo nella polvere bianca, poi lo succhio. Sento la punta della lingua che diventa insensibile e sorrido, sospirando. Metto via il sacchettino e continuo a fumare.

…A meno che, ovviamente, non si prenda in considerazione l’utilizzo del sistema Trident in termini di economia geopolitica, come parte della vasta corsa agli armamenti del mondo occidentale, la stessa corsa che aveva fatto fallire le casse comuniste, distruggendo il sistema sovietico non più in grado di sostenere la competizione (e che aveva fatto fallire anche gli Stati Uniti, trasformandoli dai maggiori creditori del mondo nella nazione più indebitata semplicemente nel corso di due mandati presidenziali; nel frattempo, però, erano già stati pagati un sacco d’interessi e di quel debito avrebbero dovuto preoccuparsi le generazioni future: quindi non contava).

E così, mentre il comunismo crollava e la minaccia di un olocausto totale si dissolveva, lasciandoci alle prese con tutti gli altri problemi, mentre si aprivano tutti quegli interessanti e succulenti mercati dell’Est, con i vecchi odi razziali che venivano soffocati, e i compagni che ribollivano e si agitavano fino a scoppiare… forse questo enorme lumacone, questo cazzo gigantesco che poteva fottere città, nazioni, l’intero pianeta, questo cazzo che ora s’infilava tra le cosce del lago poteva ancora servire a qualcosa.

Diamine, ma certo!

Metto in moto la macchina, caricato, sveglio, nuovamente motivato, sento che vado al massimo, spumeggiante di entusiasmo e di voglia di fare, ribollente del dolce nettare della determinazione, pronto a scendere in quella base missilistica nucleare laggiù e a fare il servizio, come direbbe il benedetto sant’Hunter.

Oltrepasso il bivacco dei dimostranti che agitano cartelli, oltrepasso i recinti di fitta rete metallica sormontati da rotoli di filo spinato, oltrepasso i cancelli anticarro (dopo aver mostrato le mie credenziali) e vengo indirizzato verso l’edificio dove si terrà la conferenza stampa. Mentre aspetto che arrivino tutti gli altri, batto parte dell’articolo sul mio laptop. Gli ufficiali che rispondono alle domande hanno un aspetto atletico e riposato, sembrano tipi come si deve, gentili e quasi dispiaciuti per il disturbo, ma anche incrollabilmente convinti di stare facendo qualcosa che è ancora importante e necessario.

Più tardi, mentre sto lasciando la base, i dimostranti che bivaccano all’esterno — la maggior parte vestiti con strati e strati di golf sudici e informi e vecchi giubbotti mimetici, quasi tutti con pettinature alla rastafari oppure con la testa rasata — mi fanno esattamente la stessa impressione.

Me ne torno a Edimburgo ascoltando Gold Mother, mentre l’effetto degli eccitanti si esaurisce in fretta, come un motore che perde potenza sui saliscendi della M8.

La redazione del Caledonian è caotica come al solito, affollata di scrivanie, pareti mobili, scaffali, computer, piante, pile di giornali, tabulati, fotografie e schedari. Mi faccio strada attraverso il labirinto, salutando gli scribacchini miei complici.

«Cameron», mi saluta Frank Soare, alzando lo sguardo dal suo terminale. Frank ha cinquant’anni, una nuvola di capelli bianchi e una carnagione che riesce a essere moderatamente rubizza e al contempo morbida come quella di un bambino. Ha una parlata cantilenante che, di solito dopo pranzo, diventa un po’ blesa. Ogni volta che mi vede, gli piace ricordarmi come mi chiamo. Aiuta, in certe mattine.

«Frank», rispondo, sedendomi alla scrivania e scorrendo i fogliettini gialli che ornano il lato del monitor.

Frank fa capolino dall’altra parte del computer, dandomi la prova inequivocabile del fatto che crede ancora nell’eleganza delle camicie colorate con il colletto bianco. «Allora, raccontami un po’ dell’ultimo gioiello del vitale e assolutamente indipendente potere di dissuasione britannico.»

«Pare che funzioni. Galleggia», rispondo, accendendo il computer.

La biro di Frank batte delicatamente sul primo dei foglietti gialli. «Ha telefonato di nuovo la tua talpa», m’informa. «Un’altra corsa inutile?»

Do un’occhiata all’appunto. Il signor Archer richiamerà tra un’ora, dice. Guardo l’orologio: ci siamo quasi.

«Probabilmente», convengo. Controllo che il mio Pearlcorder abbia una cassetta vergine. Il registratore abita di fianco al telefono, pronto a registrare tutte le telefonate potenzialmente interessanti.

«Non hai un secondo lavoro, vero, Cameron?» dice Frank, aggrottando le bianche sopracciglia cespugliose.

«Come?» ribatto, sistemando la giacca sulla spalliera della sedia.

«Non è che hai un secondo lavoro e questa talpa è soltanto una scusa per allontanarti dall’ufficio, eh? È così?» chiede Frank, cercando di mantenere un’espressione innocente. La sua biro continua a battere a lato del monitor.

Afferro la penna e la allontano con delicatezza, spingendo Frank verso la sua sedia. «Frank…» dico. «Con la fantasia che ti ritrovi dovresti lavorare per il Sun.»

Tira su con il naso, offeso, e si risiede. Passo in rassegna la E-mail e scorro i dispacci di agenzia, poi m’interrompo, mi alzo e guardo Frank, nascosto dal terminale, che se ne sta con le dita affusolate posate sulla tastiera, ridacchiando per qualcosa che ha visto sullo schermo.

«Che cos’hai detto a Iain Garnet a proposito di questa cosiddetta talpa?»

«Lo sapevi», replica Frank con aria maliziosa, «che il controllo ortografico per ‘Yetts o’Muckart’ propone ‘Yeti Offuscato’?» Ridendo, mi lancia un’occhiata, poi si fa serio. «Come hai detto?»

«Hai sentito benissimo.»

«Hai detto Iain?» Una pausa. «Lo hai visto laggiù, oggi? Come sta?»

«Allora, che gli hai detto di ’sta talpa?» Stacco l’appunto e glielo sventolo davanti al naso.

Lui assume un’espressione innocente. «Perché, c’era qualcosa che non dovevo rivelargli? Be’, non lo so, cosa gli ho detto», si difende. «L’altro giorno gli ho parlato per telefono. Deve essere venuto fuori per caso nella conversazione. Mi dispiace molto.»

Sto per rispondergli, quando suona il telefono della linea esterna.

Frank sorride e mi punta contro la biro. «Potrebbe essere il tuo signor Archer.»

Mi siedo e sollevo il ricevitore. La comunicazione è pessima.

«Signor Colley?» La voce ha un che di metallico, come se fosse stata filtrata con un sintetizzatore. Non ho il minimo dubbio che si tratti del signor Archer, ma potrebbe anche essere Stephen Hawking. Accendo il registratore, m’infilo l’auricolare nell’orecchio e collego il microfono al ricevitore del telefono.

«Sì, sono io», dico. «Signor Archer?»

«Sì. Ascolti: ci sono novità.»

«Be’, lo spero proprio, signor Archer. Sto…»

«Non posso parlare a lungo, non con il suo telefono», prosegue la voce metallica. «Vada nel posto che le indico.»

Prendo un blocco e una matita. «Signor Archer, spero tanto che non sia un’altra…»

«Langholm, Bruntshiel Road. La cabina telefonica. Solita ora.»

«Signor Archer, questo è…»

«Langholm, Bruntshiel Road. La cabina telefonica. Solita ora», ripete la voce.

«Signor Arch…»

«Questa volta ho un altro nome per lei, signor Colley», dice la voce.

«Come…?»

La comunicazione viene interrotta. Guardo il telefono, poi stacco il microfono dal ricevitore. In quel momento, da dietro il monitor, appare il volto sorridente di Frank. Dà qualche colpetto con la biro sulla mia tastiera. «Era il nostro amico?» chiede.

Strappo il foglio dal blocco e me lo infilo nella tasca della camicia. «Sissignore.» Spengo il computer, prendo il Pearlcorder e mi metto la giacca.

Frank mi rivolge un sorriso raggiante e preme un qualche pulsantino sul suo orologio. «Te ne vai così presto? Bravo, Cameron. È un nuovo record!»

«Di’ a Eddie che gli passerò l’articolo per telefono.»

«La responsabilità è tua, però.»

«Certo.» Mi avvio verso la porta.

Mi faccio un po’ di roba nel bagno degli uomini e poi, dopo essermi euforizzato il setto nasale, il flusso sanguigno e gli emisferi con la polverina magica, prendo la 205 e parto in direzione di Langholm, che si trova piuttosto lontano, nei Borders. Mentre guido, finisco di comporre mentalmente l’articolo sul Vanguard; è domenica, e quindi uscire dalla città è facile, ma in campagna le strade sono piene di autisti da strapazzo, in gran parte vecchietti, con tanto di berretto, che se ne stanno aggrappati al volante e tengono lo sguardo fisso sulla strada; ricordo bene quando scorrazzavano tutti in Marina e Allegro, mentre adesso pare che siano passati in massa alle Escort Orion, alle Rover 413 o alle Volvo 340, in apparenza tutte dotate di controllo automatico della velocità, immancabilmente regolato sui sessanta all’ora.

Rimango intrappolato in una coda e, dopo un paio di sorpassi mozzafiato, suggeriti soltanto dall’anfe, che ottengono come unico risultato un buon numero di lampeggiamenti furiosi al mio indirizzo, decido di rallentare, di smetterla d’inveire contro gli altri, e di accettare il mio triste destino godendomi il panorama.

Gli alberi e le colline risaltano nitidi nella luce del tardo pomeriggio: i prati scoscesi e i tronchi brillano di una luce giallo-arancione contro le zone immerse nell’ombra. La colonna sonora è fornita dai Crowded House. Poco prima delle cinque, il cielo si scolora fino a diventare di un viola cupo e i fari delle macchine che mi vengono incontro cominciano a darmi fastidio agli occhi; è chiaro che sono stato un po’ troppo prudente con l’ultima sniffata terapeutica. Mi fermo in una piazzola di sosta subito dopo Hawick per una dose supplementare.

Langholm è una tranquilla cittadina vicino al confine con l’Inghilterra. Non dispongo di una pianta della città, ma ci vogliono solo cinque minuti per trovare Bruntshiel Road. Rintraccio la cabina telefonica in cima alla strada e parcheggio di fianco.

C’è un albergo a due minuti da lì. È l’ora di un drink.

Il bar dell’albergo è sgangherato e polveroso; deve ancora subire quell’operazione di by-pass architettonico che i gestori chiamano ristrutturazione. È abbastanza affollato e la clientela è varia.

Non ci vuole molto perché un doppio whisky faccia effetto e rimetta in equilibrio il sistema, vista la quantità di anfetamina che mi sono fatto durante il viaggio. Da quando ho preso il PC nuovo sto facendo economia, quindi ho ordinato un Grouse invece di un doppio malto, ma lo scopo è comunque raggiunto. Mentre sto finendo il whisky, il mio cellulare si mette a squillare. È il giornale: mi ricordano che è quasi ora di chiudere. Mi volto per proteggermi dagli sguardi curiosi dei locali e, parlando piano, dico che chiamerò da lì a poco, promesso. Compro le sigarette, faccio pipì e torno alla macchina. Attacco il Tosh all’accendisigari della macchina e batto il resto del pezzo sul Vanguard alla luce del lampione che illumina la cabina telefonica. Non faccio altro che sbadigliare, ma resisto alla tentazione di ricorrere ancora una volta al sacchettino miracoloso.

Finisco l’articolo, tiro fuori il modem e mando il pezzo al giornale. Poi torno in macchina. Mancano ancora dieci minuti alla telefonata del signor Archer. Di solito è puntuale. Faccio un salto all’albergo per un whisky veloce.

Quando ritorno alla macchina, il telefono della cabina sta squillando. Faccio una corsa, lo afferro, armeggio con il Pearlcorder e, imprecando sottovoce, lo collego, cercando di districare i fili.

«Pronto?» urlo.

«Chi parla?» dice la voce calma e meccanica. Riesco ad accendere il registratore e tiro un sospiro di sollievo.

«Sono Cameron Colley, signor Archer.»

«Signor Colley, dovrò richiamarla, ma il primo nome che ho per lei è Ares.»

«Come? Chi?»

«Il nome è Ares: A-R-E-S. Si ricorda gli altri nomi che le ho dato, vero?»

«Sì: Wood, Ben…»

«Ares è il nome del progetto cui stavano lavorando quando sono morti. Ora devo andare, ma la richiamerò tra circa un’ora. Avrò altre informazioni per lei. Arrivederci.»

«Signor Archer…»

Morto.

E morte sono pure le persone di cui mi ha fatto il nome il signor Archer. Tutti uomini. Si chiamavano Wood, Harrison, Bennet, Aramphahal e Isaacs. Il signor Archer mi ha dato i loro nomi la prima volta che mi ha trascinato in uno di questi appuntamenti telefonici in giro per la Scozia. (Il signor Archer non si fida dei cellulari, e non gli do torto.) Allora erano suonati vagamente familiari e parevano avere una strana, implicita sequenzialità; inoltre, non appena me li aveva detti, avevo immediatamente pensato al Lake District, senza sapere il perché. Il signor Archer mi aveva dato questi nomi e aveva riattaccato prima che potessi chiedergli qualcosa di più.

Io ho ’sta mania di volermi ricordare tutto da solo, ma la mattina seguente, in ufficio, mi collegai a Profile e lasciai fare a lui il lavoro pesante. Profile non è altro che un’impressionante, gigantesca banca dati che probabilmente conosce persino il colore dei calzini del tuo bis-bisnonno materno e sa quanti cucchiaini di zucchero sua moglie metteva nel tè; contiene praticamente tutto quanto è apparso sui giornali (americani, europei e asiatici) negli ultimi dieci anni, più un intero universo d’informazioni provenienti da megamiliardi di altre fonti.

I nomi non furono un problema. I cinque stoccafissi erano morti tutti tra i cinque e i sei anni prima e avevano tutti a che fare con il nucleare o con i servizi di sicurezza. Tutte le morti sembravano suicidi, ma tutte avrebbero potuto benissimo essere omicidi; all’epoca i giornali avevano avanzato l’ipotesi che ci fosse sotto qualcosa di poco chiaro, ma poi la cosa era finita lì. Fino a oggi, le uniche cose che il signor Archer mi aveva rivelato, e che io non avrei potuto trovare negli archivi del giornale, erano alcuni dettagli sulla dinamica esatta delle morti e, proprio quella sera, il nome del progetto cui tutti avevano lavorato: Ares.

Me ne resto seduto in macchina per un po’, lavorando distrattamente all’articolo sulle distillerie di whisky che ho in cantiere già da un po’, riflettendo su chi o su che cosa possa essere Ares. Qualcuno entra nella cabina per fare una telefonata. Mi diverto con qualche patetico giochino da principianti, desiderando tanto avere un computer decente, a colori e con velocità, RAM e hard disk sufficienti per far girare Despot. Preparo uno spinello e me lo fumo ascoltando un po’ di radio; poi passo al buon vecchio nastro di k.d. lang, ma è troppo soporifero e allora ritorno alla radio, però non la sopporto e così frugo nel vano portaoggetti finché non trovo Trompe le Monde dei Pixies: questo mi tiene sveglio più dell’anfe. Il nastro è un po’ rovinato perché l’ho sentito un mucchio di volte e così la musica va e viene, ma è forte lo stesso.

È una bella giornata estiva e sto correndo per i boschi a Strathspeld; ho tredici anni e, mentre corro, mi vedo dall’esterno, come se mi stessi osservando su uno schermo. Sono stato qui un sacco di volte e so come uscire, come scappare da questo posto. Sto per riuscirci quando sento suonare un campanello.

Mi sveglio e il telefono sta squillando. Mi ci vuole un secondo per rendermi conto che mi sono addormentato, e un altro secondo per ricordarmi dove sono. Schizzo fuori dalla macchina e m’infilo nella cabina telefonica, tagliando la strada a un vecchio che sta portando fuori il cane.

«Chi parla?» dice la voce.

«Sono io, Cameron Colley, signor Archer. Senta…»

«C’è un’altra persona che sa di questi morti, signor Colley: è l’intermediario. Non so ancora quale sia il suo vero nome. Non appena lo scopro, glielo comunicherò.»

«Come?»

«Il suo nome in codice è Jemmel», dice la voce alla Stephen Hawking, e poi ripete il nome lettera per lettera.

«Ho capito, signor Archer, ma chi…?»

«Addio, signor Colley. Stia bene.»

«Signor…!»

Il signor Archer ha già riattaccato.

«Merda!» esclamo. E ho pure dimenticato di registrare la telefonata.

Resto seduto in macchina per un po’ e inserisco il nome Jemmel nel mio Tosh. Non mi dice nulla.

Torno in albergo per fare pipì e bere un ultimo drink, un altro doppio: servirà per farmi compagnia lungo la strada, giacché il primo, molto probabilmente, è già stato smaltito. Non mangio da questa mattina, però non ho fame. Mi sforzo di mangiare qualche nocciolina tostata e scolo una mezza pinta di Murphy per mandarle giù e per il ferro. (Prima bevevo Guinness, ma da quando quei bastardi hanno contato una balla sul fatto di trasferire il loro quartier generale in Scozia, ho deciso di boicottarli.)

In macchina, mi faccio un po’ di polverina (giusto per amore della guida sicura: mi terrà sveglio) e poi, una volta partito, fumo uno spinello (per bilanciare il tutto). Su Radio Scotland a mezzanotte c’è un programma che a volte, verso la fine, dà un’anticipazione sui titoli dei quotidiani del giorno. Lo ascolto, e sento che parlano del nostro giornale, ma noi apriamo con le manovre dei Tories per la corsa al voto su Maastricht. Provo una certa delusione, poi però dicono che la foto in prima pagina ritrae il Vanguard mentre arriva a Faslane e allora capisco che c’è anche il mio articolo, e che, con un po’ di fortuna, sarà vicino alla foto, in prima pagina, e non sepolto all’interno come al solito. Avverto un piccolo brivido di ebbrezza da notizia, mi faccio di ero(giornal)ismo.

Questo è uno sballo tipico della nostra professione: gratificazione quasi istantanea da stampa. Immagino che per i comici di cabaret, per i musicisti nei concerti e per gli attori di teatro la gratificazione sia analoga e persino più veloce, però, se si lavora nel mondo della carta stampata e si crede alla dubbia autorità del nero su bianco, allora l’intera faccenda si concentra lì. Lo sballo migliore, poi, è quando ci si trova proprio in prima pagina, ma anche un articolo in posizione di rilievo su una pagina dispari ti dà già un’ebbrezza piuttosto sublime, mentre un misero pezzo in fondo a una pagina pari genera un effetto alquanto deprimente.

Mi faccio un altro spinello per celebrare, ma mi addormenta un po’ e ci vogliono un’ultima microleccata di anfe e un’altra dose di Trompe le Monde per rimettere a posto le cose.