125670.fb2 Pi nel cielo - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 3

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Doveva accontentarsi di questo. Decise di andare in centro a mangiare.

Erano le prime ore della sera, troppo presto per vedere le stelle, anche se il limpido cielo azzurro aveva incominciato a imbrunire. Roger sapeva che, quando le stelle fossero comparse quella sera, poche costellazioni sarebbero state ancora riconoscibili.

Mentre camminava, ripensò ai commenti di Elsie e decise che erano intelligenti almeno quanto tutti quelli che aveva ascoltato all’Osservatorio Cole. In un certo senso, Elsie aveva presentato il problema da un’angolatura alla quale lui non aveva pensato prima, e ciò rendeva la cosa ancora più incomprensibile.

Tutti quei movimenti dovevano essere incominciati la stessa notte… eppure non era così.

Il Centauro doveva aver cominciato a muoversi all’incirca quattro anni prima, e Rigel cinquecentoquaranta anni prima, quando Cristoforo Colombo portava ancora i calzoncini corti, sempre che a quell’epoca si usassero, e Vega doveva aver cominciato a muoversi in quel modo nell’anno in cui lui, Roger, non Vega, era nato, ventisei anni prima. Ogni stella, di quelle centinaia, doveva aver cominciato a muoversi a un dato istante, in esatta dipendenza dalla sua distanza dalla Terra. Una dipendenza esatta al secondo-luce, poiché il controllo di tutte le lastre fotografiche prese la penultima notte indicavano che tutti i movimenti stellari avevano avuto inizio alle 4 e 10 antimeridiane, ora di Greenwich. Che pasticcio!

A meno che tutto ciò non significasse che, dopotutto, la luce aveva una velocità infinita.

E se non l’aveva — ed è sintomatico della perplessità di Roger il fatto che avesse postulato quell’incredibile “se” — allora… allora cosa? Tutto restava sconcertante come, o peggio, di prima.

Soprattutto, si sentiva offeso che potessero accadere cose come quelle.

Entrò in un ristorante e si sedette. Una radio stava urlando l’ultima composizione disaritmica, la nuova musica da ballo in quarti di tono, un sottofondo di strumenti a corda e a fiato per una folle melodia battuta su tam-tam di varie dimensioni. Fra un numero e l’altro, un esagitato speaker vantava le qualità di questo o quel prodotto.

Masticando un sandwich, Roger si godette il disaritmo, cercando di ignorare la pubblicità. La maggior parte delle persone intelligenti degli anni Ottanta avevano sviluppato un’efficace sordità radiofonica che consentiva loro di non udire la voce umana che usciva dagli altoparlanti, pur continuando a udire e a godersi gli allora infrequenti interludi musicali, fra un annuncio e l’altro. In un’epoca in cui la concorrenza pubblicitaria era così acuta, non c’era in pratica un solo muro vuoto o un appezzamento di terreno senza manifesti o cartelloni pubblicitari, per un raggio di molte miglia intorno a un qualunque centro abitato. Per questo, la gente con un briciolo di criterio poteva conservare una normale prospettiva di vita solo se coltivava con molta cura una parziale cecità e sordità che consentiva loro d’ignorare la continua, massiccia aggressione portata ai loro sensi.

Per questo motivo, buona parte del notiziario che seguì il programma di musica disaritmica entrò in un orecchio di Roger e uscì dall’altro, come si dice, prima che si rendesse conto che non stava ascoltando uno sbrodoso panegirico di qualche alimento per la prima colazione.

Gli parve di riconoscere la voce, e dopo un attimo o due fu certo che si trattava di Milton Hale, l’eminente fisico, la cui nuova teoria sul principio d’indeterminazione aveva negli ultimi tempi sollevato tante controversie nel mondo scientifico. A quanto pareva, il professor Hale veniva intervistato da un radiocronista.

— … perciò un corpo celeste può avere una posizione o una velocità, ma non si può dire che le abbia ambedue contemporaneamente, in relazione a una data struttura spaziotemporale.

— Dottor Hale, può ripeterlo in un linguaggio un po’ meno… In un linguaggio comune, insomma? — disse la voce sciropposa dell’intervistatore.

— Questo è linguaggio comune, signore. Espresso in termini scientifici, secondo il principio di contrazione di Heisenberg, n elevato alla settimana, tra parentesi, rappresenta la pseudo-posizione d’un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente della curvatura di massa…

— Grazie, dottor Hale, ma temo che lei sia un po’ al di sopra dei cervelli dei nostri ascoltatori…

— E del tuo, — pensò Roger Phlutter.

— Sono certo, professor Hale, che la domanda che più interessa i nostri ascoltatori sia questa: tali movimenti stellari, finora senza precedenti, sono reali o illusori?

— Entrambe le cose. Sono reali in rapporto alla struttura spaziale, ma non in rapporto alla struttura dello spazio-tempo.

— Potrebbe chiarire la cosa, professore?

— Credo di si. La difficoltà è puramente epistemologica. In stretta casualità, l’impatto d’una macroscopica…

— The slithy tove did gyre and gimble in the wabe, — pensò Roger Phlutter[1].

— … sul parallelismo del gradiente entropico.

— Bah! — esclamò Roger, a voce alta.

— Ha detto qualcosa, signore? — chiese la cameriera. Roger l’osservò per la prima volta. Era piccola, bionda e rotondetta. Roger le sorrise.

— Dipende dalla struttura spaziotemporale in base alla quale si considera la cosa, — dichiarò, in tono grave. — La difficoltà è puramente epistemologica.

Per compensarla, diede alla cameriera una mancia superiore al dovuto, e se ne andò.

Si rese conto che il fisico più eminente che c’era al mondo ne sapeva, di ciò che stava accadendo, ancora meno della gente della strada. La gente sapeva che le stelle fisse si muovevano, o non si muovevano. Era ovvio che il professor Hate non sapeva neppure questo. Sotto una cortina fumogena di definizioni concettose, Hale aveva lasciato intendere che le stelle facevano, invece, tutte e due le cose.

Roger alzò gli occhi al cielo, ma solo poche stelle, fioche nella luce del primo crepuscolo, erano visibili attraverso l’alone creato dalla miriade di insegne al neon e di finestre illuminate. Decise che era ancora troppo presto.

Si fece un drink in un bar vicino, ma non gli parve che avesse il giusto sapore, per cui non lo finì. Non avrebbe saputo dire cosa c’era che non andava, ma era stordito dalla mancanza di sonno. Ma era troppo nervoso ed eccitato per aver voglia di andare a dormire, perciò decise di continuare a camminare finché le gambe non gli fossero letteralmente piegate per la stanchezza. Chiunque l’avesse colpito in testa con uno sfollagente gli avrebbe reso un segnalato servizio, ma nessuno se ne prese la briga.

Roger continuò a camminare, e dopo un po’ s’infilò nell’atrio d’uno sfarzoso cinematografo, vividamente illuminato, e si sedette appena in tempo per vedere le sequenze finali dell’ultimo dei tre lungometraggi in programma. Seguirono parecchi annunci pubblicitari che riuscì a guardare senza vederli.

— Ora, — disse una voce dallo schermo, — vi presentiamo una speciale trasmissione via cavo, in diretta, del cielo di Londra, dove adesso sono le tre di notte.

Lo schermo si oscurò e vi comparve una miriade di puntolini che erano le stelle. Roger si sporse in avanti per guardare e ascoltare attentamente. Quella si annunciava come una trasmissione di fatti concreti, non di vuote e pompose parole.

— La freccia, — disse lo schermo, quando una freccia comparve su di esso, — sta indicando la Stella Polare… la quale, adesso, si trova a dieci gradi di distanza dal polo celeste, in direzione dell’Orsa Maggiore. La stessa Orsa Maggiore, il Gran Carro, non è più riconoscibile come un carro, ma adesso la freccia indicherà le stelle che prima lo formavano.

Roger seguì senza fiato la freccia e la voce.

— Alkaid e Dubhè, — spiegò la voce. — Le stelle fisse non sono più fisse, ma… — L’immagine cambiò all’improvviso mostrando l’interno d’una cucina moderna, — … la qualità e l’eccellenza dei Forni Stella non cambia. I cibi cucinati col sistema dell’induzione supervibratoria hanno come sempre un eccellente sapore. I Forni Stella sono insuperati.

Con calma, Roger Phlutter si alzò, raggiunse la corsia, e s’incamminò verso lo schermo tirando fuori di tasca il temperino. Saltò agilmente sul basso palcoscenico. I colpi coi quali squarciò lo schermo non furono rabbiosi, bensì attenti e metodici, concepiti per fare il massimo danno col minimo sforzo. Quando due robusti usceri l’afferrarono, il danno era già fatto, e completo. Non fece nessuna resistenza né a loro, né alla polizia alla quale lo consegnarono. Un’ora più tardi, al tribunale notturno, ascoltò senza scomporsi le accuse contro di lui.

— Colpevole o non colpevole? — chiese il magistrato che presiedeva la corte.

— Vostro Onore, questa è una pura questione di epistemologia, — rispose Roger, in tutta serietà. — Le stelle fisse si muovono, ma Fiocchini Tostati, la miglior prima colazione del mondo, rappresenta ancora la pseudo-posizione d’un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente di curvatura!

Dieci minuti più tardi dormiva come un ghiro. In una cella, è vero, ma pur sempre come un ghiro. La polizia lo lasciò li, poiché si erano resi conto che aveva bisogno di dormire…

Fra le altre tragedie di minor portata di quella notte, si può menzionare il caso dello schooner Ransagansett, al largo della costa californiana. Molto al largo della costa californiana! Un’improvvisa burrasca l’aveva spinto molte miglia fuori rotta, ma quante miglia fossero il comandante poteva soltanto indovinarlo.

Il Ransagansett era un vascello americano con un equipaggio tedesco, battente bandiera venezuelana, affittato per trasportare alcoolici da Ensenada, nella Bassa California, fin su alla costa canadese, naturalmente di contrabbando. Il Ransagansett era un vecchio vascello, con quattro motori e una bussola assai poco affidabile. Durante i due giorni di tempesta, il suo apparato radio — anno 1955 — era impazzito e Gross, il secondo, malgrado le sue indubbie capacità, non era stato in grado di ripararlo.

Ma adesso, a ricordare la tempesta era rimasta soltanto una leggera foschia che le ultime raffiche di vento stavano portando via. Hans Gross, impugnando un antico astrolabio, se ne stava in attesa sul ponte. Intorno a lui c’era la più totale oscurità, poiché la nave procedeva senza luci per evitare le pattuglie costiere.

— Si sta schiarendo, signor Gross? — chiamò il capitano da sotto.

— Zi, zignore. Zi sda sghiarendo in fredda.

Nella cabina, il capitano Randall tornò alla sua partita di blackjack col terzo ufficiale e l’addetto alle macchine. L’equipaggio — un vecchio tedesco chiamato Weiss, con una gamba di legno — era addormentato a poppa del serbatoio dell’acqua, dovunque questo si trovasse.

Passò una mezz’ora. Un’ora. Il capitano stava perdendo forte con Helmstadt, l’addetto alle macchine.

— Signor Gross! — chiamò.

Non vi fu nessuna risposta. Il capitano chiamò di nuovo, e di nuovo, e continuò a non ottenere risposta.

— Solo un attimo, miei cari amici, — disse al terzo ufficiale e al macchinista, e salì la scaletta del boccaporto fino al ponte.

Gross era là in piedi, immobile, gli occhi al cielo e la bocca spalancata. La foschia era del tutto scomparsa.