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Egli distingueva altre sfere luminose appese come lanterne giapponesi all’intrico dei rami penduli imprigionati dal ghiaccio, in una macchia lontana.
Era incredibile… o perfettamente logico, a seconda del punto di vista dei vari esperti di biologia… che la vita basata sull’azoto e l’ammoniaca su Titano avesse tante analogie con la vita basata sull’ossigeno e l’acqua sulla Terra. Ma T’uupieh non era umana, e la musica delle sue parole gli aveva portato continuamente messaggi che si facevano beffe di qualunque ideale egli avesse tentato di nutrire su di lei, e su quel loro incredibile rapporto. Fino a oggi, durante quell’ultimo anno, lei aveva assassinato undici persone, e con i suoi fuorilegge chissà quante altre ne aveva sulla coscienza. Assassinio e rapina. L’unica ragione per cui collaborava con la sonda, gliel’aveva detto chiaramente, era che soltanto un demone aveva una reputazione più sanguinaria della sua… soltanto un demone poteva incuterle rispetto. Eppure, da quel poco che aveva saputo dire e mostrare del mondo in cui viveva, lei non era né meglio né peggio di chiunque altro: soltanto più abile. Era forse prigioniera di un’epoca, di una cultura, in cui il sangue era qualcosa che doveva essere versato e non condiviso. Oppure si trattava di qualcosa di biologicamente innato, che le permettava di filosofeggiare sulla brutalità e di brutalizzare la filosofia…
Alle spalle di T’uupieh, intorno al fuoco del campo alimentato dall’azoto, alcuni dei suoi fuorilegge avevano cominciato a cantare; le melodie popolari aliene, una volta tradotte, non erano altro che semplici versi ripetitivi, ma udite nella loro forma autentica, non tradotta, erano strutture armoniche di straordinaria complessità, un linguaggio musicale entro una più ampia, affascinante struttura melodica. Shannon protese la mano e s’infilò nuovamente la cuffia, dimentico di ogni altra cosa. Una volta aveva fatto un sogno in cui era riuscito a cantare quegli impossibili suoni…
Utilizzando i lunghi periodi di attesa fra una comunicazione e l’altra egli era riuscito, alcuni mesi addietro, a riprodurre in studio una serie di canzoni aliene, usando il sintetizzatore. Ma erano risultate versioni fin troppo scarne e lineari, in confronto agli originali, poiché, nonostante l’abilità da lui raggiunta in quella lingua, esse risentivano ancora fin troppo delle sue deficienze umane. Cantare faceva parte del loro rituale religioso, gli aveva detto T’uupieh. — Ma loro non cantano perché sono religiosi; cantano perché gli piace cantare. — Una volta, senza che gli altri sentissero, aveva suonato per lei una delle sue composizioni sul sintetizzatore. Lei l’aveva fissato (o meglio, aveva fissato l’occhio color ambra della sonda) in un silenzio gelido, anche se tollerante. Lei non cantava mai, anche se a volte lui l’aveva udita armonizzare sommessamente. Si chiese come avrebbe reagito se lui le avesse detto che le canzoni dei suoi fuorilegge gli avevano fatto vincere il suo primo Disco di Platino. Niente, probabilmente… ma conoscendola, se fosse riuscito a chiarirle i concetti, lei sarebbe stata probabilmente, e con entusiasmo, in completo favore dello sfruttamento commerciale.
Egli aveva acconsentito a donare i profitti del disco alla NASA (e nonostante fosse stata sua intenzione di farlo fin dall’inizio, si era sentito infastidito quando Reed gliel’aveva chiesto esplicitamente), col patto che nessuno avrebbe dovuto divulgare il suo gesto. Ma in qualche modo, alla successiva conferenza stampa, un paio di reporter avevano saputo fare le domande giuste, e Reed aveva spifferato tutto. E sua madre, quando le era stato chiesto di commentare il sacrificio di suo figlio, aveva mormorato: — Saturno sta proprio diventando un circo a tre piste. — E lo aveva lasciato a chiedersi se dovesse mettersi a ridere o a imprecare.
Shannon tirò fuori di tasca un pacchetto di sigarette tutto spiegazzato e ne accese una. Garda alzò la testa e annusò l’aria, in gesto di disapprovazione: lei non fumava, e del resto non sembrava avere alcun vizio (anche se lui sospettava che si desse da fare con gli uomini) e un giorno gli aveva tenuto una lunga lezione, del tutto sprecata, sull’argomento, terminando con la frase sibillina: — E non sanno neppure di tabacco! — Lui la fissò, scuotendo a sua volta la testa.
— Che cosa pensi dell’ultima vittima designata di T’uupieh? — Garda sventolò l’ultima trascrizione. — Pensi che ucciderà la propria sorella?
Egli esalò lentamente il fumo intorno alle proprie parole: — Sintonizzatevi domani per il nuovo, eccitante episodio! Credo che Reed ne sarà enormemente soddisfatto, non è vero? — Indicò il giornale che giaceva per terra accanto alla sua sedia. — Hai notato che siamo passati a pagina tre? — T’uupieh aveva infilato nel raccoglitore della sonda alcuni manufatti di metallo: qualcosa che, aveva detto, era noto soltanto agli «antichi»; e le congetture scientifiche circa l’esistenza di una precedente cultura tecnologica avevano nuovamente riacceso l’interesse del pubblico, riportando la sonda agli onori della prima pagina. Ma neppure notizie di simili scoperte potevano durare per sempre… — Dobbiamo tener alti quegli indici di gradimento, gente. Fare in modo che le sovvenzioni e le donazioni continuino ad arrivare.
Garda ridacchiò: — Sei arrabbiato con Reed, o con T’uupieh?
Shannon scollò le spalle, scoraggiato: — Con tutti e due. E non vedo come potremmo impedire a T’uupieh di uccidere sua sorella… — S’interruppe quando il brusio delle numerose persone che lavoravano al progetto in quella stanza s’intensificò, concentrandosi qua e là: Marcus Reed stava facendo il suo ingresso, risolvendo come al solito simultaneamente i problemi di tutti.
Shannon si meravigliava delle energie di Reed, pur provando nello stesso tempo qualcosa di simile al disgusto per il modo in cui le impiegava. Reed sfruttava tutti e tutto con affascinante cinismo, nell’interesse supremo della scienza, e l’osservarlo al lavoro aveva gradualmente prosciugato qualunque rispetto e buona volontà Shannon avesse portato con sé al progetto. Sapeva che la reazione di sua madre nei confronti di Reed non era molto dissimile dalla sua, anche se lei non gli aveva mai confidato niente in proposito; lo sorprendeva comunque il fatto che potesse esserci ancora qualcosa su cui andavano d’accordo.
— Dottor Reed…
— Mi scusi, dottor Reed, ma…
Ora sua madre aveva affiancato Reed e stavano percorrendo insieme la stanza; sua madre aveva le labbra strette e un’espressione rassegnata, e teneva il camice da laboratorio abbottonato fino in cima come nel tentativo di evitare ogni contaminazione. Reed, come al solito, sembrava uscito dalla rivista «Manstyle». Shannon abbassò gli occhi su quella specie di caffettano grigio che l’avvolgeva, dal quale spuntavano le estremità inferiori dei jeans.
— … Noi veramente vorremmo…
— Il senatore Foyle desidera che lei lo richiami…
— … Sì, va bene; e dica a Dinocci che può procedere a far esaminare un altro campione dalla sonda. Sì, Max, arriveremo anche a questo… — Reed invitò con un gesto al silenzio, quando Shannon e Garda si voltarono verso di lui, sui loro seggiolini. — Bene, ho appena sentito la notizia dell’ultimo sanguinario impegno sottoscritto dalla nostra «Robin Hood».
Shannon sogghignò in silenzio. Lui era stato il primo che aveva soprannominato T’uupieh «Robin Hood» per scherzo.
Reed l’aveva colto al volo e aveva chiamato le sue paludi di ammoniaca «Foresta di Sherwood» a beneficio della stampa. Ma quando la sanguinaria attività di lei, e la conseguente lunga lista di cadaveri, si erano risapute, ella era apparsa piuttosto una stretta collaboratrice dello Sceriffo di Nottingham, e alcuni cronisti avevano aggiunto che T’uupieh non assomigliava a Robin Hood più di quanto Rima assomigliasse a un uccello. Reed aveva replicato, ridendo: — Be’, dopotutto l’unica ragione per cui Robin Hood rubava ai ricchi era perché i poveri non avevano i soldi! — Questa frase, pensò Shannon, aveva segnato il vero inizio della sua profonda antipatia.
— … Questo potrebbe darci l’occasione di mostrare al mondo, visivamente, le aspre realtà della vita su Titano…
— Ein moment — s’intromise Garda. — Ci stai dicendo che tu vuoi che il pubblico assista a queste atrocità, Marcus? — Fino a quel giorno, non avevano mai diffuso i nastri con le registrazioni di scene di assassinio; perfino Reed non era riuscito a escogitare nessuna giustificazione scientifica a una simile esibizione.
— No, non lo farà, Garda. — Shannon drizzò occhi e orecchi nell’udire sua madre pronunciare queste parole. — Eravamo tutti d’accordo, infatti, che non avremmo rilasciato nessun nastro a scopo puramente sensazionalistico.
— Carly, sai fin troppo bene che la stampa mi è sempre stata addosso perché rilasciassi quei nastri, e non l’ho mai fatto perché tutti abbiamo votato contro. Ma sento che questa situazione è diversa: la dimostrazione di una condizione socioculturale aliena… un documento unico, eccezionale. Che cosa ne pensi, Shann?
Shannon scrollò le spalle, senza preoccuparsi di nascondere la sua irritazione. — Non so che cosa ci sia di così maledettamente unico: un film di ammazzamenti è un film di ammazzamenti, dovunque lo si giri. Mi pare che l’idea puzzi di stantio. — Una volta, mentre era all’università, aveva visto un film in cui la vittima, senza nulla sospettare, veniva aggredita e fatta a pezzi. Quel film, e ogni altro simile, così rappresentativi di ciò che era la razza umana, gli avevano sempre fatto venire il voltastomaco.
— Ach! C’è più verità che poesia in questo! — esclamò Garda. Reed si accigliò, e Shannon vide che sua madre faceva lo stesso.
— Ho un’idea migliore. — Shannon schiacciò il mozzicone di sigaretta nel portacenere sotto il quadro di comando. — Perché non lasci che cerchi di dissuaderla?
Nel preciso istante in cui lo disse si rese conto di ciò che voleva realmente tentare; e quanto il successo avrebbe significato per la sua fede nelle comunicazioni, per l’immagine che si era creato della gente di T’uupieh e forse di se stesso.
Tutti si mostrarono sorpresi. — E come? — domandò Reed.
— Be’… non lo so ancora. Lascia soltanto che le parli, che cerchi un’autentica comunicazione con lei, che scopra ciò che lei pensa e quello che prova, senza che tutta questa apparecchiatura tecnica interferisca, almeno per un po’.
Le labbra di sua madre compirono il prodigio di restringersi ancora un poco; egli vide le fin troppo familiari rughe della preoccupazione formarsi fra le sue sopracciglia. — Il nostro lavoro, qui, è di raccogliere qualunque «spazzatura» dallo spazio. Non cominciare a voler imporre i tuoi valori morali all’universo. Abbiamo anche troppo da fare con l’universo così com’è.
— Perché, è forse un’imposizione il tentativo di fermare un assassinio, anzi, un massacro? — Gli occhi solitamente sbiaditi di Garda lampeggiarono. — Ora, questo sì che ha delle vere implicazioni sociali. Pensaci, Marcus…
Reed annuì, dopo aver dato un’occhiata ai volti pazienti e attenti che lo circondavano. — Sì… infatti. Una massiccia dose d’interesse umano… — Mormorii e cenni del capo in risposta. — Va bene, Shann. Mancano circa tre giorni prima che il mattino sorga nuovamente sulla «Foresta di Sherwood». Puoi averli tutti per te, per lavorarti T’uupieh. La stampa vorrà continui rapporti dei tuoi progressi… — Egli guardò il suo orologio e annuì in direzione della porta, già mezzo voltato. Shannon evitò ostentatamente di guardare in viso sua madre, quando gli passò davanti.
— Buona fortuna, Shann — gli disse Reed con fare assente. — Non ci conterei molto, sulla possibilità di cambiar la testa a Robin Hood; ma puoi sempre provarci.
Shannon s’ingobbì sul seggiolino, aggrondato, e tornò a voltarsi verso il quadro di controllo. — Nella tua prossima incarnazione, possa tu ritornare sotto forma di water-closet.
T’uupieh era confusa. Ella sedeva su un’ingobbatura viscida di pietracqua, accanto al demone prigioniero, in attesa che le desse una risposta. Dall’istante in cui si era imbattuta in esso nella palude, più volte era rimasta stupita per la scarsissima rassomiglianza del suo comportamento con tutto ciò che la tradizione le aveva insegnato sui demoni. E stanotte…
Ella sussultò, sorpresa, quando il braccio grottesco e artigliato della sonda si animò all’improvviso, avanzando a tentoni fra i germogli scintillanti di ghiaccio argenteo che facevano capolino attraverso la poltiglia semifusa ai piedi della bassa collina. Il demone faceva molte cose incomprensibili (il che era appunto ciò che ci si poteva aspettare da un demone): esigeva offerte di carne, vegetazione, perfino di pietre… a volte addirittura parte del bottino che ella aveva sottratto agli incauti viaggiatori. Lei gli aveva offerto tutto questo con gioia, sperando di guadagnarsi il suo favore e il suo aiuto… sia pure col più vivo rincrescimento gli aveva concesso gli ornamenti di prezioso metallo degli «antichi» di cui aveva spogliato un piagnucolante signore straniero. Il demone l’aveva elogiata con particolare effusione per questo; tutti i demoni accumulavano metallo, le aveva detto, ed ella supponeva che esso fosse necessario a sostenere la loro forza: in particolare, il carapace a forma di cupola di questo demone, che in quel momento appunto riluceva del fuoco stregato che sempre lo avvolgeva, la notte, lo trasformava in un immenso gioiello metallico color del sangue. Eppure, lei aveva sempre sentito dire che i demoni preferivano la carne degli uomini e delle donne. Ma quando lei aveva cercato di cacciar dentro le fauci del demone l’ala del signore straniero, esso l’aveva sputata fuori, e le aveva imposto di lasciarlo andare. Sbalordita, aveva obbedito, lasciando che quello sciocco fuggisse urlando per perdersi in mezzo alla palude.
E poi, stanotte… — Stai per uccidere tua sorella, T’uupieh — le aveva detto, — e due bambini innocenti. Che cosa provi, dentro di te? — Ella aveva risposto subito, in tutta sincerità: — Che il nuovo giorno non sorgerà mai abbastanza presto per me! Ho aspettato tanto a lungo, troppo a lungo, per vendicarmi di Klovhiri! Mia sorella e i suoi mocciosi partecipano della sua sozzura: meglio trucidati, prima che possano moltiplicarsi! Istintivamente, aveva estratto il pugnale, conficcandolo nella poltiglia muschiosa, con l’identico ardore con cui l’avrebbe cacciato dentro i loro cuori.
Il demone aveva taciuto a lungo, come sempre faceva (la tradizione affermava che i demoni erano immortali, e perciò lei aveva sempre supposto che non avessero alcun motivo di darle rapide risposte, anche se, a volte, avrebbe desiderato che questo mostrasse un po’ di considerazione per la sua vita breve… Poi, alla fine, il demone aveva replicato, con la sua voce piena di strane risonanze: — Ma i bambini non hanno fatto del male a nessuno. E Ahtseet è la tua sola sorella, lei e i bambini sono i tuoi consanguinei. Ella ha condiviso la tua vita. Hai detto che una volta tu… — Il demone fece una pausa, cercando nel suo limitato magazzino di parole: — … Tu la adoravi, proprio per questo. Ciò che un tempo lei significava per te, non conta più nulla, adesso? Non rimane alcun amore in te che possa arrestare la tua mano, mentre la levi su di lei?
— Amore! — aveva esclamato lei, incredula. — Che razza di discorsi sono mai questi, o Senz’anima? Ti fai gioco di me… — Una rabbia improvvisa le aveva fatto digrignare i denti. — L’amore è un giocattolo, mio demone, e io mi sono lasciata alle spalle, da tempo, i giocattoli. E anche Ahtseet… ella non è più una mia consanguinea. Traditrice! — Le parole erano sibilate come le braci morenti del falò del campo; si era allontanata disgustata dal demone, per riattizzare, sotto lo strato isolante di polvere sulfurea, il falò, aggiungendovi qualche ramo inzuppato. Y’lirr, il suo secondo in comando, le aveva sorriso dal punto in cui era disteso, avvolto nel suo mantello, invitandola a dormire. Ma lei l’aveva ignorato, ed era tornata alla sua veglia sulla collina.
Anche se quella notte era fredda al punto da rivestire di cristalli i rami degli alberi di safilil, l’equinozio era passato da tempo, e ora la nebbiolina sottile, lo spolverio di pioggia di polimeri, faceva presagire i giorni dorati dell’estate in arrivo. T’uupieh, avvoltasi più strettamente nel mantello, aveva tirato su il cappuccio, per impedire che la nebbiolina vischiosa le si attaccasse alle ali e le insudiciasse le membrane auricolari; la precedente estate, la sua prima estate, le ritornò, come sempre, alla memoria.
…Ahtseet era una piccolina goffa, le minuscole ali sbattacchianti, quando quella prime estate era cominciata, e T’uupieh, la bambina più grandicella, aveva pensato che quella sua nuova sorella era stupida e inutile. Ma l’estate aveva lentamente traformato il mondo, e riempito i suoi occhi di miracoli; e anche la sua piccola sorella si era trasformata in un’allegra compagna di giochi, ubbidiente e fedele seguace in ogni avventura. Insieme avevano imparato a servirsi delle proprie ali, e a servirsi delle calde correnti ascendenti per esplorare i confini e le vaste estensioni del loro dominio.
E adesso, mentre la primavera nuovamente andava trasformandosi nell’estate, T’uupieh si aggrappava ferocemente a quella visione, non volendo perderla, o per ricordare che quella dolce, irragionevole estate della sua giovinezza non sarebbe mai più ritornata, anche se le stagioni ritornavano, poiché la Ruota della Vita, girando, non ripassava mai su se stessa. Nessun ritorno, dunque… Lei era diventata adulta alla fine dell’estate, e non si sarebbe mai più levata in volo libera e leggera sulle sue giovani ali. E Ahtseet, la piccola Ahtseet, sempre dietro di lei come un’ombra… No! Non avrebbe provato rincrescimento! Sarebbe stata lieta di…
— Hai mai pensato, T’uupieh — aveva detto il demone all’improvviso, — che è sbagliato uccidere qualcuno? Tu non vuoi morire… nessuno vuol morire troppo presto. Perché mai dovrebbe? Ti sei mai chiesta come sarebbe il mondo se potessi cambiarlo in modo che tu… che tu trattassi tutti gli altri allo stesso modo in cui vorresti che gli altri trattassero te, e gli altri la pensassero allo stesso modo? Se tutti potessero vivere, e lasciar vivere… — La sua voce era scivolata in una confusione di suoni acuti che lei non era più riuscita a seguire.
Ella aveva aspettato, ma il demone non aveva detto altro, come per invitarla a riflettere su ciò che aveva appena udito. Ma non c’era bisogno di pensare a ciò che era ovvio: — Soltanto i morti «vivono e lasciano vivere». Io tratto tutti come mi aspetto che essi trattino me, altrimenti finirei per raggiungere fin troppo presto quei morti così pacifici! La morte è una parte della vita. Noi moriamo quando il fato lo vuole, e quando il fato lo vuole, noi uccidiamo.
— Tu sei immortale, tu hai il potere di distorcere la Ruota, di deviare il destino, se lo vuoi. Puoi anche giocare con oziose fantasie, perfino farle diventare reali, e non soffrirne mai le conseguenze. Noi non abbiamo posto per simili cose nella nostra breve vita. Non importa quanto io tenti di amarti, alla fine morirò come tutti gli altri. Noi non possiamo cambiare nulla, la nostra vita è preordinata. Così è fra i mortali. — Ed ella era ripiombata nel silenzio, piena d’inquietudine a causa delle strane divagazioni della mente del demone. Ma lei non doveva permettere che ciò intaccasse il suo sangue freddo. Ben presto sarebbe spuntato il giorno, non doveva essere nervosa; doveva avere il completo controllo di se stessa, quando avrebbe guidato l’attacco contro Klovhiri. Nessun’altra emozione doveva interferire… non importava quanto ardesse dal desiderio di sentire il sangue bluastro di Klovhiri schizzare sulle sue mani, e quello di sua sorella, e quello dei suoi figli… I mocciosi di Ahtseet non avrebbero mai sentito il vento caldo sollevarli nel cielo, né si sarebbero tuffati, come lei aveva fatto, nelle profondità dai colori dell’arcobaleno, né avrebbero visto le torri spuntare alte e sottili fra gli alberi. Mai! Mai!
E all’improvviso aveva trattenuto il respiro, quando un fiammeggiante ruotaspillo era schizzato fuori dall’intricata cortina dei cespugli, dietro di lei, ruzzolando oltre la sua testa nella radura dell’accampamento. Lei l’aveva visto girare intorno al fuoco, sputacchiando scintille, sibilando furioso nell’aria tranquilla, tre volte e mezzo prima di proseguire la sua rapida corsa nei buio. Nessuno dei dormienti si era svegliato e soltanto un paio si erano mossi. Ella afferrò una delle gambe dure e angolose del demone, scossa nell’intimo, poiché sapeva che quel girare in cerchio intorno al fuoco aveva il significato d’un presagio… che però le era oscuro. Il bruciante silenzio che esso si era lasciato alle spalle l’opprimeva; lei continuò incessantemente ad agitarsi, allungando le ali.
E, completamente impassibile, il demone aveva cominciato a ronzare ancora una volta i suoi strani e cupi pensieri: — Non tutto ciò che hai sentito sui demoni è vero. Noi possiamo soffrire… — sembrò cercare le parole, — … le conseguenze delle nostre azioni. Fra noi lottiamo e moriamo. Siamo cattivi e brutali, e spietati. Ma non ci piace essere così. Noi vogliamo cambiarci in qualcosa di meglio, di più misericordioso, di più pronto a perdonare. Sbagliamo più spesso di quanto facciamo le cose giuste… ma crediamo di poter cambiare. E tu sei più simile a noi di quanto ti renda conto. Tu puoi tracciare una linea fra… fra la lealtà e il tradimento, fra il giusto e lo sbagliato, fra il bene e il male; puoi scegliere di non varcare mai quella linea…
— E come, dunque? — Si era voltata per fronteggiare l’occhio d’ambra grande quanto la sua testa, osando interrompere il discorso del demone. — Come può una goccia fermare l’onda di marea? È impossibile! Il mondo fonde e scorre, si alza sotto forma di bruma, diventa di nuovo ghiaccio, per poi fondere e scorrere di nuovo. Una ruota non ha né principio né fine; non comincia in nessun punto. Non esiste alcun «bene», alcun «male»… nessuna linea fra essi. Soltanto l’accettazione. Se tu fossi un mortale penserei che sei pazzo!
E aveva girato nuovamente la testa, graffiando la pietra rivestita di polimeri, mentre lottava per controllarsi. Follia… Era forse possibile? si chiese all’improvviso. Era forse possibile che il suo demone fosse impazzito? Come avrebbe potuto spiegare altrimenti, lei, i pensieri che le aveva insinuato nella mente? Pensieri folli, bizzarri, suicidi… pensieri che già lo stavano ossessionando.