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— Dammela, e farò ciò che mi chiedi.
Chwiul si rizzò a sedere, aggrottando la fronte. — La mia città-casa! — Poi, riprendendosi: — È tutto ciò che vuoi?
T’uupieh allargò le dita, studiando il rudimentale abbozzo di membrana fra esse: — Mi rendo conto che è una richiesta piuttosto modesta. — Tornò a chiudere la mano. — Ma considerando la soddisfazione che ricaverò nel guadagnarla, sarà sufficiente. E tu non ne avrai più bisogno, una volta che avrò compiuto ciò che vuoi.
— No… — Egli si rilassò un poco. — Suppongo di no. Non ne sentirò certo la mancanza, una volta che avrò le tue terre.
T’uupieh lasciò correre questa affermazione: — Bene, allora siamo d’accordo. E adesso, dimmi qual è la chiave per aprire la barriera che protegge Klovhiri? Qual è il tuo piano per consegnare lui, e la sua famiglia, nelle mie mani?
— Tu sai che tua sorella e i suoi figli sono in visita qui, nella mia casa, stanotte? E che Klovhiri li raggiungerà prima che sorga il nuovo giorno?
— Lo so. — Lei annuì, con più indifferenza di quanta ne provasse in realtà, poiché si era resa conto che Chwiul, anche senza dimostrarlo a parole, era rimasto assai colpito dal sangue freddo che lei aveva manifestato nel venire lì. Estrasse dunque il pugnale dalla guaina accanto all’occhio d’ambra del demonio e accarezzò la lama seghettata di legno impregnato di pietracqua. — Vuoi che tagli loro la gola, finché dormono sotto il tuo tetto? — Riuscì a esprimere la giusta dose d’incredulità.
— No! — Chwiul si accigliò ancor di più. — Che razza di sciocco credi io sia? — E si affrettò a proseguire: — Col nuovo giorno essi torneranno ai tuoi possessi per la solita strada. Ho promesso di scortarli per garantir loro un viaggio sicuro. E avremo anche una guida per farci strada attraverso gli acquitrini. Ma la guida commetterà un errore…
— E io sarò lì in attesa. — Gli occhi di T’uupieh s’illuminarono. Durante l’inverno i ricchi usavano slitte per compiere lunghi viaggi, superando la superficie impervia e accidentata del suolo trainati da schiavi. Ma quando arrivava la primavera e il suolo cominciava a fondere in superficie, bacini e pozze traditrici si aprivano come lo sbocciare di grandi fiori, pronti a inghiottire gli incauti. Soltanto una guida esperta poteva «leggere» le superfici, distinguere la solida pietracqua dalla mutevole poltiglia ammoniacale. — Bene — disse T’uupieh in un sussurro. — Sì, molto bene… La tua guida farà in modo che finiscano a dibattersi in qualche buca poltigliosa, e io potrò coglierli in trappola come dei phib al momento della muta.
— Esattamente. Ma io voglio esser lì quando lo farai. Voglio vedere. Troverò qualche scusa per allontanarmi dal gruppo, e t’incontrerò alla palude. La guida li condurrà fuori strada soltanto a un mio segnale.
— Come vuoi. Hai pagato bene il privilegio. Ma vieni da solo. I miei seguaci non hanno bisogno di aiuto, e ancor meno d’interferenze altrui. — Si rizzò a sedere, mise giù i lunghi piedi palmati, appoggiandoli di nuovo sulle pelli sensuali del tappeto.
— Ma se pensi che io sia uno sciocco, e che mi consegni stupidamente nelle tue mani — replicò Chwiul, — tieni presente che tu sarai la sospettata numero uno quando Klovhiri sarà stato assassinato. Io sarò l’unico testimonio che potrà giurare al Feudatario che i tuoi fuorilegge non erano gli aggressori. Tienilo a mente.
Ella annuì: — Lo farò.
— Come ti troverò, dunque?
— Non mi troverai. I miei mille occhi troveranno te. — Riavvolse l’occhio del demonio nei suoi cenci.
Chwiul parve sconcertato: — Quello… quello prenderà parte all’attacco?
— Potrebbe; o forse no. Sarà lui a sceglierlo. I demoni non sono legati alla Ruota della Vita, come noi due. Ma l’incontrerai di sicuro faccia a faccia (anche se non ha faccia) se verrai. — Sfiorò con la mano il fianco. — Sì… tieni a mente che anch’io ho le mie salvaguardie in questo accordo. Un demone non dimentica mai.
Infine, lei si alzò in piedi, guardandosi intorno ancora una volta. — Sarò perfettamente a mio agio, qua dentro. — Si volse una volta ancora verso Chwiul. — Ti cercherò, quando verrà il nuovo giorno.
— Quando verrà il nuovo giorno. — Anch’egli si alzò, le sue ali ingioiellate rifletterono la luce.
— Non c’è bisogno di scortarmi. Saprò essere discreta. — Fece un breve inchino, da pari a pari, e si diresse verso il corridoio in penombra. — Dovrò decisamente sbarazzarmi del tuo guardiano. Non sa distinguere una Lady da un mendicante.
— La Ruota gira un’altra volta per me, mio Demone. La mia vita fra le paludi terminerà con la vita di Klovhiri. Andrò a vivere in città… e sarò nuovamente Lady nel mio maniero quando i pesci siederanno fra gli alberi!
Il volto alieno di T’uupieh ardeva di gioia malevola quando si girò, sullo schermo sopra il terminal del computer. Shannon Wyler si lasciò andare contro lo schienale, terminò di battere la sua traduzione, e si tolse la cuffia. Si lisciò i lunghi capelli biondi, lustri e pettinati all’indietro, il gesto abituale che l’aiutava a riorientarsi nel suo ambiente. Quando T’uupieh parlava, non riusciva mai a mantenere l’obiettività di cui aveva bisogno per ricordare che era ancora sulla Terra, e non realmente su Titano, in orbita intorno a Saturno, separato da esso da oltre millecinquecento milioni di chilometri. T’uupieh, tutte le volte che penso di amarti, ecco che tu decidi di tagliare la gola a qualcuno…
Distrattamente annuì ai mormorii di congratulazione del personale e dei tecnici, che letteralmente bevevano ogni sua singola parola per avere nuove informazioni. Poi cominciarono a disperdersi, alle sue spalle, man mano il computer stampava copia della trascrizione. Era difficile credere che si trovasse impegnato con quel lavoro da più di un anno. Lui alzò lo sguardo ai manifesti dei suoi concerti, sulla parete, con nostalgia ma senza alcun rimpianto.
Qualcuno stava telefonando a Marcus Reed. Egli sospirò, rassegnato.
— "Quando i pesci siederanno fra gli alberi"? Stai cercando di fare del sarcasmo?
Egli si voltò: alle sue spalle vide la forma massiccia della dottoressa Garda Bach. — Salve, Garda. Non ti ho sentito entrare.
Lei alzò gli occhi da una copia della trascrizione e gli batté leggermente sulla spalla col suo bastone biforcuto. — Lo so, mio caro ragazzo. Tu non senti mai nulla quando T’uupieh parla. Ma cosa intendi dire con questo?
— Quando su Titano sarà estate… quando i trifibiani si metamorfizzano per la terza volta. Perciò lei intende dire fra cinque anni, del nostro tempo.
— Ah, Naturalmente. Il mio vecchio cervello non è più quello di un tempo… — Scosse la testa grigio-bianca; il suo mantello nero turbinò melodrammaticamente.
Lui sogghignò, ben sapendo che lei non intendeva parlare sul serio. — Forse imparare il titaniano, oltre ad altre cinquanta lingue, è la goccia che fa traboccare il vaso.
— Ja… ja… Forse lo è. — Ella sprofondò pesantemente sul seggiolino accanto al suo, immersa nella lettura. Non si sarebbe mai aspettato, egli pensò, di trovare così simpatica la vecchia ragazza. Era diventato acutamente conscio della sua presenza quando studiava linguistica a Berkeley: lei era la grande dame degli studi di linguistica fin dai tempi in cui esistevano ancora delle lingue non documentate sulla Terra. Ma l’abilità di Garda nel riuscire ad avere il proprio nome sui giornali e il suo volto alla televisione, come la maggiore esperta di quello che chiunque «intendeva realmente dire», l’aveva convinto che il vero talento di lei stava nel mercanteggiare. L’averla finalmente incontrata di persona non aveva affatto cambiato la sua opinione in merito; ma l’aveva ugualmente convinto della sua eccellenza nella linguistica culturale. E questo, a sua volta, l’aveva convinto che il suo marcato accento era un totale imbroglio. Ma malgrado quella sua vistosità in tutto, o forse addirittura a causa di essa, lui aveva scoperto che le idee di Garda sulla linguistica, oggi arcaiche, erano assai più vicine alle sue personali opinioni sul comunicare, che le idee dell’uno o dell’altro dei suoi genitori.
Garda sospirò: — Straordinario, Shannon! Sei semplicemente straordinario! La tua sensibilità per questa lingua completamente aliena mi stupisce. Che cosa avremmo fatto, se tu non ti fossi unito a noi?
— Avreste fatto senza di me, immagino. — Egli assaporò quello speciale piacere che proveniva dall’essere ammirato da qualcuno che lui rispettava. Tornò ad abbassare lo sguardo sulla tastiera del computer, sulle due scintillanti lastre di plastica irradianti una luminosità verde, ognuna di una trentina di centimetri di lato, che gli davano, contemporaneamente, la versatilità di un virtuoso di violino e di un dattilografo con a disposizione centinaia di migliaia di tasti. Il suo collegamento con T’uupieh, la sua voce… il nuovo sintetizzatore IBM, le cui piastre sensibili al tatto potevano esser manipolate per ricreare le impossibili complessità della sua lingua. Il dono di Dio all’universo della linguistica… salvo il fatto che esigeva la sensibilità e l’ispirazione di un musicista per sfruttare completamente la sua pressoché infinita gamma di suoni.
Egli alzò nuovamente lo sguardo e aguzzò gli occhi fuori della finestra verso l’orizzonte sfocato dalla nebbia di Coos Bay, che gli era ormai familiare.
Quei pochi linguisti che erano anche musicisti inevitabilmente erano attirati dal sintetizzatore come api dal miele. Ma i superstiti dell’ormai invecchiata Nuova Ondata, che comprendeva Suo Padre il Professore e Sua Madre la Specialista in Comunicazioni, si aggrappavano ancora con fede religiosa quanto vana alle traduzioni logico-matematiche dei computer. Essi lottavano ancora con goffi, complicati programmi, appesantiti da interminabili elenchi di morfemi, che nelle ipotesi di partenza avrebbero dovuto garantire, un giorno, la perfetta sintesi di un qualunque messaggio in qualunque lingua. Ma anche dopo anni di continui perfezionamenti, le traduzioni prodotte in tal modo dal computer erano grezze, sciatte.
Alla scuola superiore non c’erano state nuove lingue da cercare, e non aveva avuto il permesso di usare il sintetizzatore per esplorare quelle vecchie. E così, dopo un’ultima, amara discussione con la famiglia, egli aveva lasciato la scuola superiore. Aveva trasferito la sua fede nel sintetizzatore nel mondo del suo secondo amore, la musica; un campo in cui, lo sperava, le autentiche comunicazioni avevano ancora un valore. Adesso, a ventiquattro anni, egli era Shan, il Musicista dei musicisti, l’eroe di un’immensa schiera di appassionati invecchiati e di una nuova, fresca generazione che aveva ereditato il loro amore per quella musica eternamente sfavillante e mutevole chiamata «rock».
Né l’uno, né l’altro dei suoi genitori gli aveva più rivolto la parola.
— Niente false modestie — lo stava rimbrottando Garda. — Che cosa avremmo potuto fare senza di te? Tu stesso hai criticato in tutti i modi i metodi che si ostinava a impiegare tua madre. Sai bene che non saremmo riusciti a ottenere un decimo delle informazioni su Titano che abbiamo avuto da T’uupieh, se fossimo stati costretti a servirci ancora di quelle meccaniche, rozze traduzioni del computer.
Shannon accennò ad accigliarsi, provando una sorta di segreta colpevolezza. — Senti, so di aver pronunciato alcune battute sarcastiche, e aggiungo che intendevo ciò che veramente ho detto… Ma non avrei spiccato il volo se lei non avesse compiuto tutte le analisi preliminari prima ancora che io arrivassi. — Sua madre aveva fatto, praticamente da sempre, parte della missione, avendo lavorato per anni con la NASA sulle complicazioni quasi esoteriche delle comunicazioni a mezzo computer con i satelliti e le sonde spaziali; e a causa della sua preparazione in campo linguistico Marcus Reed, il direttore del progetto Titano, l’aveva subito nominata capo della sezione comunicazioni non appena questa era stata organizzata. Lei era stata incaricata dell’analisi fonetica iniziale, usando il computer per comprimere lo spettro delle frequenze della voce aliena entro il campo delle vibrazioni udibili dagli esseri umani. Poi, aveva scomposto quei suoni complessi nelle loro componenti più semplici… aveva identificato i fenomeni, separato i morfemi, li aveva inquadrati in una struttura grammaticale, e aveva assegnato i suoni equivalenti in lingua inglese. Shannon l’aveva guardata, durante le prime interviste televisive, chiaramente infelice e a disagio, mentre Reed teneva in pugno la stampa che lo ascoltava ammaliata. Ma alla fine era stato proprio quello che la dottoressa Wyler, la Specialista nelle Comunicazioni, aveva detto, ad avvincere i suoi ascoltatori; al punto che, incapace di resistere, lui era saltato sul primo aereo e aveva raggiunto Coos Bay.
— Be’, non intendevo offendere — replicò Garda. — Tua madre è ovviamente una specialista assai abile. Ma avrebbe bisogno di un po’ più di… ehm… flessibilità.
— A me lo dici? — lui sospirò, mesto. — So che ancora oggi la sua più grande felicità sarebbe quella di poter sprofondare il sintetizzatore attraverso il pavimento. Il mio arrivo, qui, è stato un colpo, per lei, dal quale ancora oggi non si è ripresa. È una fortuna che almeno Reed apprezzi il mio… valore. — Reed gli aveva riservato le accoglienze di un figliuol prodigo quando si era presentato all’istituto, quel primo giorno… non era forse, lui, un abile linguista oltre che un ispirato musicista, non sarebbe forse riuscito a trovare un po’ di tempo, fra una tournée e l’altra… non avrebbe magari allungato un po’ già quella prima visita, per farsi un’idea più approfondita del lavoro di sua madre?
Egli aveva acconsentito, con modestia, alle richieste: ed ecco che telecamere e reporter erano saltati fuori come se avessero ricevuto l’imbeccata, e lui aveva capito che non erano lì per la trascurabile notizia della visita del figlio della dottoressa Wyler, bensì per celebrare l’ingresso ufficiale all’istituto di Shannon, il Musicista.
E poi… lui aveva avuto la sua prima seduta, parlando con la voce di un altro mondo. Ed era bastato quel primo ascolto per fare di lui un drogato… perché quella lingua aliena era musica. Ogni fonema era composto da due o tre suoni sovrapposti, e ogni morfema era un miscuglio di fonemi che fluivano insieme come acqua. Essi gorgheggiavano accordi, non parole, e il risultato era un rintocco di campane di cristallo, un tintinnio di limpido vetro…
Perciò era rimasto; prima, con sofferta frustrazione, aveva dovuto limitarsi a guardare sua madre e i suoi assistenti: i metodi di analisi a mezzo computer impiegati da sua madre avevano funzionato bene durante la transfonemizzazione iniziale della voce di T’uupieh, consentendo ben presto d’inviare le prime risposte, sia pure impacciate, goffe, servendosi del localizzatore a eco della sonda, per impedire che l’interesse di T’uupieh deviasse altrove, interrompendo il contatto. Ma battere una successione di dati in codice su una tastiera e aspettarsi che anche il più sofisticato dei programmi d’un computer potesse trasformarli in un’altra lingua, fosse pure una lingua umana conosciuta, era un risultato ancora sconsolatamente lontano. E lui, Shannon, sapeva invece, con fervore quasi religioso, che il sintetizzatore era stato concepito proprio per compiere questo miracolo di comunicazione, e che soltanto lui avrebbe potuto usarlo per cogliere tutte le sfumature e le sottigliezze che una traduzione meccanica non sarebbe mai stata in grado di fornire. Egli aveva provato ad avvicinare sua madre perché gli concedesse di tentare, ma lei aveva sempre rifiutato, recisamente. — Questo è un centro di ricerche, non uno studio di registrazioni musicali.
E così, lui aveva finito per scavalcarla, recandosi personalmente da Reed, che si era mostrato subito entusiasta. E quando finalmente aveva sentito le sue mani muoversi su quelle piastre, nella calda luce da esse irradiata, mentre un vago pizzicore le invadeva, e aveva tentato di ricreare quel linguaggio di un altro mondo, egli seppe di aver avuto ragione da sempre. Lasciò perdere senza rimpianti i suoi impegni musicali, quasi con sollievo, mentre nuovamente scivolava nel campo che per lui era sempre venuto per primo.
Shannon studiò lo schermo dove T’uupieh spiccava, appoggiata disinvoltamente a! fianco curvo della sonda, nascondendo così buona parte dell’accampamento. Fortunatamente sia lei che la sua scorta trattavano la sonda con precauzione quasi ossessiva, anche quando la trascinavano da un posto all’altro, poiché essi non restavano mai fermi a lungo. Shannon si chiese che cosa sarebbe accaduto se essi avessero attivato inavvertitamente il sistema automatico di difesa, concepito per difendere la sonda da animali aggressivi e che produceva una scossa elettrica d’intensità variabile da un’acuta sofferenza alla morte. E si chiese anche che cosa sarebbe accaduto se la sonda e i suoi «occhi» non si fossero così perfettamente inquadrati nelle credenze di T’uupieh sui demoni. L’idea che avrebbe anche potuto non conoscerla mai, non udire mai la sua voce…
Più di un anno era trascorso dal giorno in cui lui e il resto dei mondo avevano appreso l’incredibile notizia che la luna più grande di Saturno ospitava vita intelligente. Egli non aveva alcun ricordo delle due sonde automatiche passate vicino a Titano nel 1979 e nel 1981, ma aveva ben presente l’impresa dell’Orbiter che nel 1990 aveva colto fugaci immagini della sua superficie, attraverso la densa coltre di nubi dorate. La manciata di microsonde sganciate dall’Orbiter avevano dimostrato che Titano godeva dello stesso «effetto serra» che faceva di Venere un inferno ribollente. E nonostante le temperature stagionali non si alzassero mai al di sopra dei duecento gradi Kelvin, le fotografie avevano mostrato, senza alcun dubbio, che su Titano esisteva la vita.
La scoperta della vita, dopo tante delusioni sugli altri mondi del sistema solare, era stata più che sufficiente al lancio di una nuova sonda, concepita per scendere sulla superficie di Titano e inviare il maggior numero possibile di dati ottenibili dal contatto diretto.
Quella sonda aveva scoperto una forma di vita d’intelligenza paragonabile a quella umana… o più esattamente, era stata quella forma di vita a scoprire la sonda. E la scoperta di T’uupieh aveva trasformato una missione potenzialmente fallita in un successo: la sonda era stata dotata di un’unità principale, fissa, per l’analisi e la ritrasmissione dei dati, e dieci «occhi» o unità sussidiarie che avrebbero dovuto esser disseminate sull’intera superficie di Titano per ritrasmettere informazioni. Lo sganciamento delle sonde sussidiarie durante l’atterraggio, tuttavia, era fallito, e tutti gli «occhi» erano caduti nel raggio di pochi chilometri quadrati, in mezzo alla palude disabitata. Ma l’egocentrismo affascinato di T’uupieh, e la sua disponibilità a soddisfare il suo «demone» avevano compensato ogni errore.