124246.fb2 La luna dei cacciatori - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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— Sì, il problema della sterilità… sì. Ma perché devono trascinare gli uranidi a fondo insieme a loro? — Jannika aveva battuto il pugno sul palmo aperto della mano. — Mettiamoci al lavoro, raccogliamo i nostri campioni e torniamo a casa, per favore.

Piet aveva compreso pienamente.

… Jannika allontanò quel ricordo e s’immerse nei preparativi per quella notte.

Hugh Brocket e sua moglie partirono quasi subito dopo il tramonto. I loro velivoli si levarono con un sussurro, raggiunsero un’altitudine intermedia e girarono in cerchio per un minuto, mentre gli occupanti si orientavano e si scambiavano saluti via radio. Visti dal basso, con i fianchi illuminati dagli ultimi bagliori dell’ormai tramontato Colchis, i velivoli sembravano due lacrime.

— Buona caccia, Jan.

— Ugh! Non dire così!

— Scusami — replicò lui in tono rigido e chiuse la comunicazione. Certo, aveva dimostrato poco tatto, ma perché lei doveva essere sempre così dannatamente suscettibile?

Non aveva importanza: c’era un mucchio di cose da fare. Erakoum aveva promesso che si sarebbe trovata sugli Shipwreck Cliffs all’incirca a quest’ora, dal momento che il suo gruppo aveva intenzione di procedere verso nord lungo la costa, provenendo dal campo prima di piegare verso l’interno. Quindi era impossibile determinare esattamente la sua posizione, e lui avrebbe fatto meglio a stabilire al più presto il contatto con la sua trasmittente. Il veicolo di Jannika si fece sempre più piccolo, allontanandosi per la sua ricerca. Hugh inserì il pilota inerziale e si adagiò nelle cinghie di sicurezza per ricontrollare i dati dei suoi strumenti, operazione prettamente automatica dal momento che sapeva benissimo che era tutto in ordine. La maggior parte della sua attenzione era quindi libera di vagare.

Il panorama visibile dal velivolo era di un’imponenza titanica. Di sotto, le colline giacevano in chiazzate masse d’ombra, qua e là attenuate dall’argenteo filo che indicava il corso di un fiume o dalla presenza di precipizi e scarpate; l’Oceano Circolare, che divideva gli emisferi, stava trasformando in mercurio l’orizzonte orientale, mentre ad occidente, nel cielo, era visibile la scia lasciata dal doppio sole. Più in alto, si stendeva un nero vellutato che ad ogni battito del cuore di Hugh si copriva di un numero di stelle sempre maggiore; l’uomo vide un paio di lune, abbastanza vicine da mostrare i loro dischi illuminati su entrambi i lati, rossicci e bianchi, e ne riconobbe parecchie altre, che ad occhio nudo apparivano semplici punti luminosi ma che erano identificabili in base alle rispettive posizioni, mentre svolgevano il loro giro di sentinella intorno alle costellazioni. Basso sul livello del mare ardeva Argo… no, splendeva, perché le sue nubi superiori erano adesso in piena luce solare, bande di luminosità che solcavano una massa rosso cupo. Jason era vicino a passare davanti ad Argo, con un diametro angolare il cui angolo era ottuso per venti primi, ma Hugh ebbe qualche difficoltà ad individuarlo a causa della luce intensa.

Poi la spiaggia divenne visibile, ed Hugh attivò l’indicatore, facendo librare il suo velivolo nell’aria: una luce di segnalazione emise un bagliore verde, denunciando l’avvenuto contatto. Hugh fece allora sollevare il velivolo di tre chilometri abbondanti, in parte perché si voleva concentrare sui dati encefalici e quindi disporre del maggior spazio possibile per eventuali errori di pilotaggio, ed in parte perché si voleva tenere fuori dalla portata visiva ed uditiva dei nativi, per evitare che la sua presenza potesse influenzare le loro azioni. Dopo aver assunto una posizione stabile, collegò l’elmetto ricevente e se lo fissò in testa… non pesava molto… mettendolo in funzione. Trasmessi, amplificati, ridisposti e reintrodotti, gli eventi del sistema nervoso di Erakoum si mescolarono con quelli del sistema nervoso di Hugh.

Hugh non acquisi assolutamente la piena coscienza del dromide, perché la comunicazione e la traduzione erano troppo primitive. Aveva impiegato tutta la sua vita professionale per raggiungere con quella specie un’empatia sufficiente a permettergli, dopo un impiego di pazienza quale avevano potuto esercitare entrambi attraverso un arco di tempo di pochi anni, di cominciare a stento ad interpretare i segnali che raccoglieva. La velocità dei processi mentali dei nativi più che essere d’aiuto… attraverso la ripetizione ed il rafforzamento dei concetti… era d’ostacolo. Per abbozzare una rozza analogia, era come cercare di seguire una conversazione rapida ed appena udibile, perdendo molte parole, conversazione condotta in una lingua che non si conosceva molto bene. In effetti, nulla di ciò che Hugh percepiva era espresso verbalmente: erano impressioni visive ed uditive, un insieme di sensazioni, comprese quelle interiori come l’equilibrio e la fame, e compresi suggerimenti sognanti di sensi che Hugh non possedeva.

L’uomo vide il terreno passargli davanti, cespugli, rami, pendii, stelle e lune sopra alture scoscese; percepì il variare dei contorni e delle strutture mentre i piedi procedevano nel loro cammino; udì la moltitudine di bassi rumori circostanti, fiutò ricchi odori. Le impressioni erano interminabili, per lo più vaghe e fuggevoli, le migliori abbastanza forti da farlo uscire da se stesso e trascinarlo verso il suolo in un’unità con la creatura sottostante.

Le sensazioni più limpide, forse perché stimolavano le sue ghiandole, erano quelle dell’emozione e della decisione: Erakoum era decisa ad abbattere un volatore.

Sarebbe stata una notte lunga, e forse anche straziante, e Hugh prevedeva che avrebbe avuto bisogno di una dose o due di surrogato di sonno, perché gli uomini non erano mai riusciti a liberarsi degli antichi ritmi della Terra, mentre i dromidi sonnecchiavano saltuariamente e gli uranidi cadevano… in sogni ad occhi aperti. In contemplazione?

Come altre volte in precedenza, Hugh si domandò come fosse il rapporto stabilito da Jan con il suo nativo e pensò che non sarebbero mai riusciti a descriversi a vicenda ciò che condividevano con quegli alieni.

*** Ben addentro nelle colline, lo Sciame di A’i’ach trovò un grande raccolto di ali-di-stella. Quelle cime erano meno fittamente boscose delle terre basse, il che era un bene, perché la preda luminosa non volava mai molto in alto e, se costretto a scendere al di sotto della chioma di una foresta, il Popolo diveniva vulnerabile agli attacchi delle Bestie. Qui c’era una buona quantità di terreno aperto, coperto d’erba e cosparso di massi, che si stendeva fra le ombre degli alberi. Uno stretto dirupo attraversava una di quelle radure, una spaccatura orlata d’oscurità.

Come un’interminabile pioggia di scintille, le ali-di-stella danzavano, saettavano, schivavano, innumerevoli, intente soltanto all’estasi del loro accoppiamento ed al Popolo che si nutriva di esse. Nonostante la cautela presente in lui, A’i’ach non poté resistere più di chiunque altro, ma si trattenne dall’emettere gas per discendere in fretta come fecero invece molti dei suoi compagni, perché questo avrebbe rallentato la risalita. Invece, contrasse il proprio globo e sprofondò, lasciandolo riespandere leggermente quando il variare della densità dell’aria lo richiedeva, e non fece fuoriuscire gas neppure per spingersi, preferendo pompare ritmicamente e far lavorare il proprio sifone insieme alla brezza per zigzagare a bassa velocità. Non c’era fretta, e le ali-di-stella erano più numerose di quanto lo Sciame fosse in grado di mangiarne. Molte di quelle creature sarebbero fuggite, libere di deporre le uova per la covata dell’anno successivo.

Giunto in mezzo ai puntini luminosi, A’i’ach aspirò la prima boccata di prede, ed il loro gusto dolce e caldo gli cantò nella carne. Addensandosi fitto intorno a lui, sobbalzando, roteando, agitando ed arricciando i filamenti, riempiendo il cielo di musica, il resto del Popolo dimenticò ogni cautela, e l’amore ebbe inizio. Non era privo di scopo, anche se, senza acqua in cui cadere, i semi pollinati non sarebbero germogliati, perché quell’amore creava un’unità. La polvere di vita fluttuava come fumo sotto la luce di Ruii, ed il sapore, l’odore, la vista di essa rendevano febbrile quella gioia che era stata destata dalla festa delle ali-di-stella. A’i’ach si accoppiò ripetutamente, ebbe l’impressione di uscire dal proprio corpo, di diventare una cellula di un singolo essere divino che era di per se stesso un tornado d’amore. Un giorno, quando avesse avvertito su di sé il peso degli anni, si sarebbe allontanato verso ovest oltre il mare, verso il gelido Oltre, e là, cedendo l’estremo calore del suo corpo, avrebbe ottenuto per il suo spirito la ricompensa agognata, la Promessa che per sempre tutto sarebbe stato com’era adesso in questa breve notte…

Risuonò un ululato, alcune sagome uscirono a balzi da sotto gli alberi, venendo all’aperto, ed A’i’ach vide una lancia trapassare il globo vicino al suo: il sangue sprizzò ed il gas fuoriuscì sibilando, e la forma che si contorceva cadde come una foglia morta. I filamenti si agitavano ancora quando una Bestia afferrò il globo durante l’ultimo stadio della caduta ed affondò in esso le zanne.

Nella folla che lo circondava e nella confusione che seguì, A’i’ach non riuscì a vedere quanti altri venivano uccisi: la maggior parte dei suoi compagni stavano fuggendo, levandosi fuori portata dei proiettili, e quelli di loro che erano armati lasciavano cadere sassi e rami di ü anche se era improbabile che riuscissero ad uccidere qualche Bestia.

A’i’ach aveva rilassato i muscoli del suo globo ed era saettato immediatamente verso l’alto; una volta al sicuro, avrebbe potuto unirsi al resto dello Sciame per vagare in cerca di un altro luogo dove riprendere la festa interrotta, ma la rabbia ed il dolore erano troppo violenti dentro di lui. Con una parte remota del suo io, A’i’ach si meravigliò di questo, perché solitamente il Popolo non si affliggeva troppo per la morte di una Persona: doveva essere quella cosa che aveva addosso, e che in qualche modo gli sussurrava frasi misteriose…

Ed aveva un coltello!

Consumando gas senza riguardo, planò in basso, girando intorno: la maggior parte delle Bestie era svanita fra gli alberi, ma ne rimanevano alcune, intente a divorare le vittime; A’i’ach volò ad un’altitudine che rasentava i limiti della prudenza ed attese la sua occasione. Dal momento che non poteva lasciarsi cadere come una roccia, doveva fare una finta in direzione di una delle Bestie, colpirne rapidamente un’altra e poi risalire per attaccare ancora.

Un leggero raggio di luce si levò verso di lui, proveniente dalla testa di una Bestia che era appena emersa dall’ombra e si era arretrata, fissando lo sguardo ardente verso l’alto.

La volontà di A’i’ach si rafforzò ulteriormente: laggiù c’era un mostro che aveva il suo stesso tipo di legame con gli uomini, e se lui, A’i’ach aveva ottenuto un coltello da loro, cosa poteva aver ottenuto e cosa poteva ancora ottenere quell’essere per fare un male ancora maggiore? Se non altro, la sua uccisione avrebbe potuto sconvolgere i suoi compagni ed indurli a riflettere sul loro comportamento assassino.

A’i’ach avanzò verso lo scontro mentre intorno a lui le ali-di-stella danzavano allegramente e si accoppiavano. ***

Jannika impiegò più di un’ora prima di riuscire ad effettuare il contatto. Un uranide non poteva fare in modo di trovarsi in un punto preciso ad un’ora prestabilita, ed il suo contatto l’aveva semplicemente informata, mentre sintonizzava la trasmittente su di lui, che il suo gruppo si trovava attualmente nelle vicinanze del Monte Mac Donald. Jannika si era recata laggiù ed aveva sondato in ogni direzione nell’oscurità sempre più fitta, fino a quando il suo indicatore era diventato verde. Avendo stabilito il collegamento, si era portata a tre chilometri di altitudine ed aveva innestato l’autopilota perché descrivesse alcuni lenti cerchi; di tanto in tanto, man mano che il soggetto della sua analisi si spostava verso nordovest, Jannika variava a sua volta il centro dei suoi cerchi.

A parte questo, stava cercando di diventare il suo uranide. Naturalmente era una cosa impossibile, ma, attraverso questi sforzi, lei stava apprendendo cognizioni che non avrebbe mai potuto scoprire attraverso il linguaggio parlato. I costumi del popolo, le credenze, la musica, le poesie, il balletto aereo, cose che non avrebbe mai potuto conoscere per quelle che erano se si fosse limitata ad osservarle dall’esterno. E ce n’erano altre presenti più in profondità dentro di lei, più tenui ma più potenti… cose che però non avrebbe potuto scrivere in un rapporto scientifico: un senso di gioia, di nostalgia, di vento, di lucentezza; di profumi, di nubi, di pioggia, di distanza immense, un senso di ciò che rappresentava l’essere un abitatore del cielo. Non era una cosa completa, no… solo poche occhiate incerte e difficili da ricordare in seguito e che la trasportavano lo stesso in un nuovo mondo che splendeva di meraviglie.

La sensazione era raddoppiata stanotte dall’eccitazione di A’i’ach, e le impressioni di Jannika in merito a ciò che l’uranide stava provando non erano mai state più forti o acute di così: si trovò a fluttuare sulle correnti d’aria, posseduta dagli odori vitali e dai canti, scoprì di essere una goccia in un oceano al di sotto di Ruii il possente, scoprì che non esisteva una casa da desiderare disperatamente perché dovunque era casa.

Lo Sciame giunse infine dove c’era uno sciame di lucciole e l’universo di Jannika si fece di colpo selvaggio.

Per un momento, terrorizzata, Jannika fu sul punto di chiudere la cuffia, ma la ragione le arrestò la mano: quello che stava accadendo era soltanto la manifestazione estrema di ciò cui aveva partecipato fino ad allora. Gli uranidi ingurgitavano raramente molto cibo in una volta sola, e, quando lo facevano, questo aveva un effetto intossicante su di loro. Jannika percepì anche la sessualità dei festeggiamenti, ma la maschilità di A’i’ach era troppo irreale per disturbarla, come invece la femminilità del suo dromide aveva disturbato Hugh quando la creatura si era accoppiata ed aveva in seguito perso i primi quarti posteriori. Quella notte, gli uranidi stavano facendo una grande festa, e Jannika si arrese ad essa, in un crescendo costante, giungendo a desiderare di avere un uomo là con lei ma poi rifiutando l’idea perché questo avrebbe offuscato quel sacro splendore, la Promessa, la Promessa!

Poi erano arrivate le Bestie, ed era scoppiato l’orrore, e da qualche parte una voce sconosciuta aveva gridato vendetta per la sua felicità infranta.

Mentre trottava lungo una spoglia altura, Erakoum aveva pensato, con un accelerarsi dei battiti del cuore, di aver avvistato un debole raggio azzurro nell’aria, in lontananza. Non poteva esserne certa, a causa della luminosità di Mardudek, ma alterò comunque il proprio percorso nella speranza di aver visto giusto; tuttavia, dopo che si fu arrampicata per parecchio tempo fra sassi e spine, il bagliore scomparve, ed Erakoum pensò si fosse trattato di uno scherzo della luce notturna, forse un raggio di luna che si era riflesso sulla nebbia. Quella conclusione non ebbe certo l’effetto di migliorare il suo umore: le andava tutto storto, quando si trattava dei Volatori!

A causa di quella deviazione, si trovò indietro rispetto al resto del suo gruppo, ed il primo avvertimento circa la presenza della preda le venne tramite le grida dei compagni.

— Hai-ay, hai-ay, hai-ay! — echeggiò tutt’intorno, ed Erakoum sbuffò, perplessa, certa che sarebbe arrivata troppo tardi per uccidere una preda. Comunque, continuò a correre in quella direzione, pensando che, se i Volatori non avessero intercettato un forte vento, li avrebbe potuti seguire tenendosi nascosta e senza essere vista, e che forse essi non sarebbero andati tanto lontano da sfiancarla prima d’imbattersi in un altro sciame di bachi di fuoco e di scendere nuovamente in basso. Il respiro le raspava in gola, ed il fianco della collina le percuoteva i piedi con rocce invisibili, ma continuò a correre con ansia fino a raggiungere il luogo dov’era la preda.

Era una radura, vivamente illuminata nonostante le ombre che la solcavano, e tagliata a metà da un piccolo dirupo. I bachi di fuoco roteavano nell’aria, distinti contro l’oscurità della foresta, simili ad una lucente polvere di nubi, e parecchie femmine del Popolo erano accucciate nell’erba, intente a divorare le loro prede, mentre il resto del gruppo si era allontanato per seguire i Volatori in fuga, come aveva progettato di fare la stessa Erakoum.

La femmina si arrestò al limitare della radura per respirare, sollevò lo sguardo e si raggelò: la massa dei Volatori si stava dirigendo lentamente e caoticamente verso ovest, ma alcuni indugiavano per lanciare le loro misere armi, e, sulla cima di uno di essi, brillava una tenue luce: Erakoum aveva trovato quello che cercava!

— Ee-hah! — gridò, balzando avanti ed agitando il giavellotto. — Vieni, operatore di malvagità! Vieni e fatti uccidere! Con il tuo sangue infonderai al mio prossimo nato la vita che hai sottratto al primo!

Non ci fu alcuna sorpresa, ma un senso di fatalità, quando la sagoma irreale descrisse una spirale e si fece più vicina: quella notte si sarebbe giunti alla soluzione di qualcosa di più importante della sopravvivenza di uno dei due avversari fosse destinato a sopravvivere, e lei, Erakoum, era stata afferrata da un Potere, era divenuta uno strumento del Profeta.

Accucciata, scagliò la lancia, con uno sforzo visibile nei suoi muscoli: vide l’arma volare diritta come maledizione che portava con sé… ma il nemico schivò e l’arma lo mancò di un dito, e poi, improvvisamente, il Volatore le venne contro.

Ma era una cosa che non facevano mai! E cos’era ciò che stringeva nel filamento simile ad un’alga?

Erakoum afferrò un altro giavellotto fra quelli che aveva sulla schiena: ciascuno dei nodi che li trattenevano avrebbe dovuto cedere al primo strattone, ma questo s’incagliò e dovette tirare di nuovo, mentre il nemico si faceva sempre più grosso e vicino; la femmina riconobbe l’oggetto che il suo avversario stringeva: era un coltello di fattura umana, tagliente come una lama d’ossidiana ma più resistente e sottile. Erakoum indietreggiò, impugnando la lancia ormai libera, ma senza avere più lo spazio per lanciarla, per cui fece un affondo.

Vide la punta dell’arma colpire con un pazzo bagliore: il Volatore rotolò su un fianco prima di venire trapassato, ma il sangue ed il gas scaturirono insieme, scuri, da un taglio sulla sua superficie pallida.

Il Volatore scattò in avanti e riuscì a superare la sua guardia, ed il coltello affondò ripetutamente: Erakoum avverti i colpi, ma non provò ancora alcun dolore. Lasciata cadere la lancia, agitò le braccia e fece scattare le mascelle, i cui denti si serrarono intorno alla carne dell’avversario, facendo affluire nella sua bocca e giù per la gola un gettito di energia.

Improvvisamente, non ebbe più il terreno sotto i piedi e cadde rotolando, artigliando con i piedi e le mani alla ricerca di un appiglio, perdendolo e cadendo più in basso; quando colpì il fianco del dirupo, rotolò sempre più in giù sopra crudeli spuntoni di roccia. Per un istante intravide il cielo sopra di lei, le stelle ed i bachi di fuoco, il Volatore illuminato dalla luce di Mardudek che passava volando e perdendo sangue, poi il nulla la reclamò.

La gente di Port Kato chiese cosa avesse fatto rientrare Jannika Rezek e Hugh Brocket così presto e così sconvolti, ma essi evasero ogni domanda e si affrettarono a raggiungere la loro capanna, sbattendosi la porta alle spalle. Un momento più tardi, avevano sprangato anche le finestre.

Per qualche tempo rimasero a fissarsi a vicenda, senza trovare conforto nella stanza familiare: l’illuminazione, destinata ad occhi umani, era violenta, l’aria della camera sprangata era priva di vita, i deboli suoni provenienti dall’insediamento servivano solo a rendere più profondo il silenzio che regnava all’interno. Alla fine, Hugh scosse il capo e, ciecamente, volse le spalle alla moglie.

— Erakoum andata — mormorò. — Come riuscirò mai a capirlo?

— Ne sei certo? — sussurrò Jannika.

— Io… ho sentito la sua mente chiudersi… è stato quasi come un dannato colpo sferrato al mio stesso cranio… ma tu ti stavi agitando così tanto per il tuo prezioso uranide…