123925.fb2 Jeffty ha cinque anni - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 1

Jeffty ha cinque anni - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 1

Quando avevo cinque anni, c’era un ragazzino con cui giocavo, Jeffty. Il suo vero nome era Jeff Kinzer, ma tutti quelli che giocavano con lui lo chiamavano Jeffty. Tutti e due avevamo cinque anni, e ci divertiva molto giocare insieme.

Quando avevo cinque anni una Clark Bar era grossa da ogni parte come il manico di una mazza da baseball, lunga quasi quindici centimetri, ed era rivestita di vera cioccolata, ed era piacevolmente croccante quando la si addentava a fondo, e la carta in cui era avvolta aveva un odore fresco e buono quando la si toglieva via a un’estremità, ripiegandola indietro per stringerla comodamente tra le dita senza che fondesse. Oggi una Clark Bar è sottile come una carta di credito, rivestita da qualche porcheria artificiale, dal sapore orrendo, che finge d’essere cioccolata, non scricchiola più quando la si addenta, è molliccia, e costa venti centesimi, invece degli onesti cinque di un tempo, e vi truffano avvolgendola nella carta in modo tale da farvi credere che è grossa quanto vent’anni fa, ma non è vero; è sottile, cattiva, ha un sapore ripugnante, non vale un soldo, e ancora meno venti centesimi.

Quando avevo quell’età, cinque anni, fui mandato per due anni a casa di mia zia Patricia, a Buffalo (New York) perché mio padre attraversava un brutto periodo: la zia Patricia era molto bella e aveva sposato un agente di cambio. Si presero cura di me finché non ebbi sette anni. Poi tornai a casa, e subito andai a trovare Jeffty, per giocare insieme.

Io avevo sette anni, Jeffty ancora cinque. Allora, non notai nessuna differenza. Che cosa potevo saperne? Avevo soltanto sette anni.

A sette anni avevo l’abitudine di stendermi sulla pancia davanti alla nostra radio Atwart Kent, ad ascoltare la roba migliore. Avevo legato il filo di terra al radiatore, e me ne stavo lì sul pavimento con i miei album da colorare e le mie Crayolas (quando c’erano soltanto sedici diversi colori nella scatola), ad ascoltare la rete rossa della NBC: Jack Benny nel programma Jelly-O, Amos ’n Andy, Edgar Bergen e Charlie McCarthy nel programma di Chase e Sanborn. One Man’s Family, First Nighter; la rete blu della NBC: Easy Aces, Walter Winchell, Information Please, Death Valley Days; e meglio di tutti, il Mutual Network con Green Hornet, Lone Ranger, The Shadow e Quiet Please. Oggi, quando accendo la radio della mia macchina e vado da un’estremità all’altra del quadrante, tutto quello che ricevo sono orchestre di cento archi, oppure banali programmi per casalinghe e camionisti ottusi, in cui ospiti petulanti discutono delle loro perversioni sessuali, o musica rock così forte da farmi male agli orecchi.

Quando ebbi dieci anni, mio nonno morì di vecchiaia. Io ero un ragazzino molesto, per cui mi spedirono alla scuola militare, perché qualcuno mi raddrizzasse come si deve.

Tornai quando avevo quattordici anni. Jeffty aveva sempre cinque anni.

Quando avevo cinque anni, ero solito andare al cinema il sabato pomeriggio, una matinée costava dieci centesimi e usavano vero burro sul popcorn, e io ero sempre sicuro che avrei visto Lash LaRue, o Wild Bill Elliot nelle vesti di Red Ryder, con Bobby Blake nei panni di Little Brever, o Roy Rogers, o Johnny Mack Brown; o un film dell’orrore come House of Horrors con Rondo Hatton nella parte dello Strangolatore, oppure Il bacio della pantera, La Mummia o Ho sposato una strega con Friedrich March e Veronika Lake, più un episodio di un grande serial come The Shadow con Victor Jory, o Dick Tracy o Flash Gordon; e tre disegni animati; e un documentario di viaggi di James Fitzpatrick; e il cinegiornale Movietone; e un programma di canzonette e, se rimanevo fino a tardi, un giro di bingo o keno, e frittelle e patatine fritte. Oggi vado al cinema e vedo Clint Eastwood che fa saltare la testa alla gente come meloni maturi.

A diciotto anni andai al college. Jeffty aveva sempre cinque anni. Tornai durante l’estate per lavorare nella gioielleria di mio zio Joe. Jeffty non era cambiato. Adesso sapevo che c’era qualcosa di diverso in lui, qualcosa di strano. Jeffty aveva sempre cinque anni e non un giorno di più.

A ventidue anni tornai a casa per sempre. Per aprire una filiale dei televisori Sony in città, la prima. Vedevo Jeffty, di tanto in tanto. Aveva cinque anni.

Ora le cose vanno meglio in molti sensi. La gente non muore più per le vecchie malattie. Le macchine viaggiano più veloci e vi fanno arrivare a destinazione più in fretta e su strade migliori. Le camicie sono più morbide e sembrano seta. Abbiamo i tascabili, anche se costano quanto un tempo costavano i rilegati. Quando sono a corto di fondi in banca posso vivere con le carte di credito fino a quando le cose si rimettono al meglio. Ma sono più che convinto che abbiamo perso un sacco di roba buona. Lo sapevate che non è più possibile acquistare linoleum per i pavimenti, ma soltanto rivestiture in vinyl? Non ci sono più cose come le tele cerate; non respirerete mai più i buoni odori che uscivano dalla cucina di vostra nonna. I mobili non sono più fatti per durare trent’anni o più, perché hanno fatto un’inchiesta e hanno scoperto che ai giovani inquilini piace buttar via l’arredamento ogni sette anni e sostituirlo con i nuovi componibili a colori. I dischi non danno la giusta sensazione; non sono spessi e robusti come quelli vecchi, sono sottili e si possono piegare… e questo non mi sembra giusto. I ristoranti non servono più la panna in caraffe, soltanto quella sbobbetta artificiale in vaschette di plastica, e una sola non basta mai a far arrivare il caffè al colore giusto. Dovunque si vada, le città sembrano tutte uguali con i loro Burger Kings e i MacDonald’s e i 7-Eleven e i motel e shopping center. Le cose non potrebbero andar meglio, ma perché continuo a pensare al passato?

Ciò che intendo, quando dico che aveva sempre cinque anni, non è che Jeffty fosse ritardato. No, niente di tutto questo. Intelligente come una frusta per uno di cinque anni; acuto, svelto, sveglio, uno strano ragazzino.

Era alto un metro, piccolo per la sua età, ma perfettamente formato, niente testa grossa, niente mascella strana, no, niente. Un ragazzino simpatico di cinque anni, dall’aspetto normale. Salvo che avrebbe dovuto avere la mia stessa età: ventidue anni.

Quando parlava, lo faceva con la voce squillante di soprano di un bambino di cinque anni; quando camminava, lo faceva con i saltelli e gli strascicamenti di un cinquenne; quando si rivolgeva a voi, rivelava gli interessi di un cinquenne… fumetti, soldatini, un pezzetto di cartone fissato sul davanti della bicicletta, cosicché il suono prodotto dai raggi che lo colpivano sembrasse il rombo di un motoscafo; e sempre domande del tipo perché quella cosa fa così e così, quanto è alto quello, quanto è vecchio quell’altro, perché l’erba è verde, a che cosa assomiglia un elefante? A ventidue anni ne aveva cinque.

I genitori di Jeffty erano una coppia triste. Poiché ero amico di Jeffty, lasciavo che mi stesse ancora intorno in negozio, a volte lo portavo alla fiera o al minigolf o al cinema, e finivo per passare un po’ di tempo con loro. Non che me ne importasse molto, poiché erano così spaventosamente deprimenti. Ma d’altronde immagino che non ci si potesse aspettare molto di più da quei poveri diavoli. Essi avevano in casa una creatura aliena, un bambino che non era andato oltre i cinque anni in ventidue anni, che dava loro la delizia di quell’eterna, speciale condizione infantile, ma che gli negava, contemporaneamente, la gioia di veder crescere un bambino fino a diventare un adulto normale.

I cinque anni sono un meraviglioso momento della vita per un bambino… o meglio, possono esserlo, se il bambino è relativamente libero dalle mostruose bestialità in cui indulgono gli altri bambini. È il tempo in cui gli occhi sono spalancati e la mente non è ancora imprigionata in schemi, quando ancora non si è stati condizionati ad accettare ogni cosa come immutabile e senza speranza; un’epoca in cui le mani non riescono mai a fare abbastanza, la mente non può mai esser sazia, il mondo è infinito e colorato, e pieno di misteri. I cinque anni sono un momento speciale prima che essi prendano l’anima indagatrice, generosa, insaziabile del giovanissimo sognatore e la caccino in quelle tetre scatole che sono le aule scolastiche. Un’epoca anteriore all’imprigionamento di quelle mani esitanti che vogliono toccare ogni cosa, afferrare ogni cosa, capire ogni cosa, sopra la superficie di un banco. Un tempo precedente ammonimenti del tipo: «Comportati bene», e «Devi maturare», e «Non fare il bambino». È un’epoca in cui il bambino è ancora grazioso e sensibile ed è il tesoro di tutti. Un tempo di delizie, di meraviglia e d’innocenza.

Jeffty era rimasto incollato a quel tempo, soltanto cinque anni, cinque.

Ma per i suoi genitori era un incubo continuo dal quale nessuno, né assistenti sociali, né preti, né psicologi infantili, né insegnanti, né amici, né psichiatri e nessun altro mago della medicina, avrebbe mai potuto svegliarli con uno schiaffo o uno scrollone. Per diciassette anni il loro dolore era cresciuto, da una fase all’altra, prima l’incredulo stupore, poi la comprensione, e da questa la preoccupazione, la paura, la confusione, e poi la rabbia, l’antipatia, l’odio più scoperto, e alla fine la ripugnanza e il disgusto più profondo, per finire con la più desolata accettazione.

John Kinzer era un caporeparto alla «Balder Tool Die». Un uomo sulla cinquantina. Per tutti, salvo per colui che la viveva, la sua vita era tremendamente monotona. Niente di speciale, di eccezionale, salvo il fatto di aver generato un ventiduenne di cinque anni.

John Kinzer era un uomo piccolo, morbido, privo di spigoli, con due occhi pallidi che non sembravano mai fissare i miei per più di qualche secondo. Egli si spostava continuamente sulla sua sedia durante la conversazione, e pareva vedesse cose nell’angolo in alto della stanza, cose che nessun altro poteva… o voleva vedere. Presumo che la sua qualifica più adatta fosse ossessionato. Ciò che la sua vita era diventata… be’, ossessionato gli andava a pennello.

Leona Kinzer cercava coraggiosamente di essere all’altezza. Non importava a quale ora della sua giornata capitassi a casa sua, ella cercava sempre di appiopparmi del cibo. E quando Jeffty era in casa, ella gli stava sempre addosso per farlo mangiare: — Tesoro, vuoi un arancio? Un bell’arancio? O un mandarino? Ho dei mandarini, qui. Potrei sbucciarti un mandarino. — Ma c’era chiaramente una tale paura in lei, la paura di suo figlio, che quelle offerte avevano sempre un suono vagamente sinistro.

Leona Kinzer era stata una donna alta, ma gli anni l’avevano incurvata. Sembrava sempre cercare una nicchia, un punto qualunque della parete rivestita di carta da parati in cui svanire, assumere una colorazione mimetica a chiazze rosa, e nascondersi per sempre alla vista dei grandi occhi castani del bambino, cosicché passandole davanti cento volte al giorno, non si rendesse conto che lei era lì, invisibile, trattenendo il fiato. Le sue mani erano rosse a furia di spolverare e lavare. Come se mantenendo immacolate le stanze ella potesse scontare il suo immaginario peccato: l’aver messo alla luce quella straordinaria creatura.

Né John né Leona Kinzer guardavano troppo la televisione. La casa era di solito mortalmente silenziosa, non c’era neppure il sottile gorgogliare dell’acqua nei tubi, lo scricchiolio delle travi di legno che si assestavano, il ronzio del frigorifero. Spaventosamente silenziosa, come se perfino il tempo, nel passare, si tenesse volutamente discosto da essa.

In quanto a Jeffty, era inoffensivo. Egli viveva in quell’atmosfera di ovattata paura e di ottuso disgusto, e se effettivamente lo capiva, non lo diede mai a vedere in alcun modo. Giocava come gioca un bambino, e sembrava felice. Ma doveva aver percepito, alla maniera di un bambino di cinque anni, quanto alieno era in loro presenza.

Alieno. No, questo non era esatto. Egli era troppo umano, semmai. Ma fuori fase, non sincronizzato col mondo intorno a lui, e risonante su una vibrazione diversa da quella dei suoi genitori. Dio solo lo sa. E gli altri bambini non volevano giocare con lui. Man mano che crescevano e diventavano più grandi di Jeffty, lo trovavano sulle prime troppo bambino, poi non interessante, poi semplicemente spaventoso, mentre si andavano accorgendo, col prender forma della loro percezione dell’invecchiamento, che lui non era toccato dal tempo come loro. Perfino quelli più piccoli della sua età, che capitavano per caso dalle sue parti, finivano per allontanarsi rapidamente da lui, come un cane, in strada, corre via al fragore dell’accensione di un’auto.

Così, io rimasi il suo solo amico. Un amico molto più vecchio di lui. Cinque anni. Ventidue anni. Mi era simpatico: molto più di quanto io riesca ad esprimere. Non ho mai capito perché. Ma era così, senza riserve.

Ma poiché passavo del tempo insieme a Jeffty, scoprii che passavo del tempo, per obbligo di cortesia, con John e Leona Kinzer. A cena, a volte il sabato pomeriggio, un’ora o giù di lì quando riaccompagnavo a casa Jeffty dal cinema. Essi mi erano grati fino al servilismo. Io li sollevavo dall’imbarazzante compito di uscire con lui, di dover fingere di fronte al mondo che erano i genitori amorevoli di un bambino perfettamente normale, grazioso, felice. La loro gratitudine si spingeva fino a ospitarmi il più possibile. Ma ogni istante di quel loro scoramento era… ripugnante.

Provavo dispiacere per quei poveri diavoli, ma li disprezzavo per la loro incapacità di amare Jeffty, così vivace e amabile.

Non lo diedi mai a vedere, neppure durante le serate in loro compagnia, imbarazzanti fino all’inverosimile.

Sedevamo lì, in soggiorno… quel soggiorno sempre buio che andava oscurandosi nel crepuscolo, come se la densa penombra che vi gravava in permanenza potesse nascondere al mondo esterno la perenne ignominia che invece luci brillanti avrebbero impietosamente rivelato al mondo: sedevamo lì, dunque, guardandosi l’un l’altro, e io non sapevo cosa dir loro, essi non sapevano che cosa rispondere.

— Allora, come vanno le cose in fabbrica? — chiedevo, con uno sforzo, a John Kinzer.

E John Kinzer scrollava le spalle. Non certo la vita, e meno ancora la conversazione, erano servite a renderlo disinvolto. — Bene, sì, bene — diceva alla fine.

E ricominciava il silenzio.

— Vuoi una fetta di torta e un caffè? — chiedeva Leona. — L’ho fatto fresco fresco stamattina. — Oppure una torta di mele, farcita. O latte caldo con pasticcini. O un budino di riso.

— No, no, grazie, signora Kinzer. Jeffty ed io abbiamo appena mangiato due panini al formaggio. — E poi, di nuovo, silenzio.

Poi, quando l’immobilità e l’imbarazzo diventavano eccessivi perfino per loro (e chi mai sapeva quanto a lungo durava quel silenzio totale quand’erano soli, con quel continuo assillo di cui certamente si guardavano bene dal parlare) Leona Kinzer diceva: — Credo che si sia addormentato.

John Kinzer annuiva: — Non sento più suonare la radio.

Sì, vi garantisco che continuava così, sempre, finché io non riuscivo a trovare una scusa sufficientemente cortese, un pretesto, per quanto esile. Sì, ogni volta andava così, in questo modo. Ogni volta… salvo una.

— Non so più che cosa fare — disse Leona. Scoppiò a piangere. — Non c’è nessun cambiamento, non una sola giornata di pace.

Suo marito riuscì a trascinarsi fuori dalla vecchia poltrona e ad avvicinarsi a lei. Si chinò e cercò di calmarla, ma era fin troppo chiaro, dalla goffaggine con cui le toccò i capelli grigi, che la sua capacità di mostrarsi compassionevole era, per così dire, atrofizzata. — Ssst, Leona, va tutto bene. Sssst. — Ma Leona continuò a piangere. Le sue mani graffiavano i braccioli della poltrona rivestiti di velluto.

Poi ella disse: — A volte vorrei che fosse nato morto.

John alzò gli occhi e si guardò intorno. Forse negli angoli bui della stanza, cercava quelle ombre senza nome che vi stavano sempre acquattate. Cercava forse Dio, in quegli spazi? — Non puoi dirlo sul serio — lui replicò, sommesso, patetico, sollecitandola con la tensione del suo corpo e il tremito della sua voce a ritirare subito ciò che aveva detto, prima che Dio udisse quel tremendo pensiero. Ma Leona l’intendeva davvero così, l’intendeva moltissimo.

Quella sera riuscii a sgusciar via prima del solito. Essi non volevano testimoni alla loro vergogna. Io fui ben lieto di andarmene.

E me ne restai lontano per una settimana. Lontano da loro, da Jeffty, dalla strada in cui abitavano, perfino dal loro quartiere.

Io avevo la mia vita. Il negozio, la contabilità, i colloqui con i fornitori, il poker con gli amici, donne graziose che portavo in ristoranti ben illuminati, i miei genitori… e dovevo mettere l’antigelo nella macchina, lamentarmi con la lavanderia che mi metteva troppo amido nei colletti e nei polsini, e ancora la ginnastica in palestra, le tasse, cogliere sul fatto Jan o David (chiunque dei due fosse) che rubavano dal registratore di cassa. Avevo la mia vita.

Ma neppure quella sera poté tenermi lontano da Jeffty. Venne a trovarmi in negozio e mi chiese di accompagnarlo al rodeo. Ed eccoci a rifar coppia in qualche modo, un ventiduenne con tutt’altri interessi… e un cinquenne. Non mi sono mai soffermato a riflettere su ciò che ci univa; pensai sempre che fosse un’abitudine contratta con gli anni… e magari l’affetto per un bambino che avrebbe potuto essere il fratellino minore che non avevo mai avuto (ricordavo quando avevamo giocato insieme, quando avevamo avuto entrambi la stessa età. Io ricordavo quel periodo, e Jeffty era ancora lo stesso).

Poi, un giorno andai a prenderlo per accompagnarlo a un cinema dove proiettavano due film, e soltanto quel pomeriggio cominciai a notare alcune cose di cui avrei dovuto accorgermi chissà quanto prima.

Arrivai a piedi alla casa dei Kinzer, convinto che, come al solito, avrei trovato Jeffty seduto sui gradini, sul davanti della casa, oppure sulla sedia a dondolo, nella veranda, che mi aspettava. Ma non lo vidi da nessuna parte.

Entrare dentro la casa, nel buio e nel silenzio, immerso com’ero nel vivido sole di maggio, mi parve impensabile. Sostai per qualche attimo sulla strada, poi portai le mani a imbuto davanti alla bocca, e gridai: — Jeffty? Ehi, Jeffty, vieni fuori, andiamo. Faremo tardi.