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Si guardò in giro e scosse la testa. — Ora hai dei nuovi amici, Giada. A loro non andrebbe.
— Il personale? Sciocchezze! Non sono degli snob.
— No, ma loro vogliono tutta la tua attenzione. Proprio adesso Feria cerca di incontrare il tuo sguardo. Non c’è bisogno di amareggiarli.
— D’accordo, ma dopo la prova ci troviamo nella stanza dei manichini. Scapperò via senza che nessuno mi veda.
— Se vuoi.
— Sì che lo voglio. Thorny, è passato tanto di quel tempo.
Il commediografo tornò col suo goccio di scotch e lanciò uno sguardo di ostile curiosità verso Thornier.
— Che tu sia ringraziato, Bernie — disse Giada con vocali tonde, poi rivolgendosi a Thornier: — Thorny, mi faresti un favore? Ho cercato di bloccare D’Uccia, ma è impegnato da qualche parte con un rappresentante di servorobot. Qualcuno deve correre a prendere un analogico dal deposito. La consegna è stata fatta, ma il camionista ha dimenticato una delle casse d’imballaggio. Ne avremo bisogno per le prove. Potresti…
— Certo, signorina Ferne. Ho bisogno di un ordine di prelievo?
— No, basta che tu firmi la bolla di consegna. E, Thorny, vedi se la nuova parte è già stata inserita nel Maestro. Un’altra cosa… il Maestro ha stritolato il nastro con la registrazione di Peltier. Abbiamo un duplicato, ma ne dovremmo avere due per precauzione.
— Andrò a vedere se ne hanno uno in magazzino — mormorò allontanandosi.
D’Uccia era nel ridotto con il piazzista quando passò. Il direttore del teatro lo vide e sorrise con affettazione.
— …naturalmente con certe speciali caratteristiche — stava dicendo il piazzista. — È un vecchio stabile e non è stato costruito per l’impiego di un custode meccanico, come lo sono invece gli edifici più moderni. Ma noi costruiremo il meccanismo in modo che si adatti al suo teatro, signor D’Uccia. Noi desideriamo fare un buon lavoro mentre un’unità monoblocco non lo farebbe.
— Be’, ora mi dice pure il prezzo, eh?
— Le faremo avere un preventivo domani. Farò venire qui un ingegnere nel pomeriggio per un’ispezione e questa sera mi farà un progetto.
— E quando me la fa ’sta dimostrazione, eh? Quando mi fa vedere come va ’sta macchina lavapavimenti?
Il piazzista esitò, occhieggiando il custode che aspettava poco lontano. — Be’, il robot lavapavimenti rappresenta solo una piccola parte di tutto il servizio, ma… le dirò che cosa faremo. Questo pomeriggio le porterò un complesso tuttofare e potrà darci un’occhiata.
— Vabbène. Così vabbène. Lei me lo porta che poi vediamo.
Si strinsero la mano. Thornier restò fermo in attesa osservando attentamente un insetto che strisciava su una fronda di una palma in vaso, aspettando l’occasione per domandare a D’Uccia le chiavi del camion. Si rese conto dello sguardo trionfante del direttore, ma non diede segno di avere ascoltato il colloquio.
— Svolgeremo un ottimo lavoro per lei, signor D’Uccia. Le sue preoccupazioni saranno ridotte della metà. E, come mi diceva, questo servirà anche a diminuire della metà i conti del dottore. Sì, signore! Un uomo nella sua posizione resta avvilito per la normale inefficienza umana… per l’inefficienza del prossimo. Una volta che lei abbia l’edificio autocustodito non dovrà più preoccuparsi, no, signore!
— Grazie mille.
— Grazie a lei, signor D’Uccia. Ci vediamo più tardi, nel pomeriggio.
Il piazzista se ne andò.
— Allora, lazzarone? — grugnì D’Uccia rivolto al custode.
— Le chiavi del camion. La signorina Ferne vuole che vada a prendere un analogico al magazzino.
D’Uccia gliele gettò. — Hai sentito c’ha detto quel tizio? Lasciamo fare tutto alle macchine, eh? Vuoi sempre la ggiornata libbera, vabbène, e pigliati ’sta ggiornata libbera, anzi presto tutte le ggiornate che vuoi. Ti va bbène così, ragazzo?
Thornier si allontanò in fretta per evitare di far trapelare l’indesiderata rabbia che gli urgeva. — Torno tra un’ora — brontolò e si affrettò per eseguire la commissione, con la mascella che gli tremava per il risentimento. Perché restare ancora per due umilianti settimane? Perché non andarsene via subito? Lasciare D’Uccia ad arrangiarsi con le pulizie finché l’autocustode non sia istallato. Non sarebbe riuscito comunque a trovare un altro lavoro in teatro, quindi la reazione di D’Uccia avrebbe perso ogni valore.
Me ne vado via, adesso, pensò… ma immediatamente seppe che non lo avrebbe fatto. Trovava difficile spiegarselo, però quando pensava al momento decisivo in cui si sarebbe trovato libero di guardarsi intorno per un lavoro decente e una vita migliore, sentiva un brivido di paura difficile da spiegare.
Il lavoro di custode gli aveva reso appena da farlo vivere in un stanza al quarto piano, dove cucinava da solo i suoi magri pasti e scriveva i ricordi dei vecchi tempi, però l’aveva tenuto vicino ai residui vaganti di qualcosa che amava.
“Teatro” lo chiamavano. Non il teatro, come lo era per la vittima del bagarino, per la massaia frequentatrice di matìnées o per il provinciale reverente: soltanto “teatro”. Non era un luogo, non era un lavoro, non era il nome di un’arte. “Teatro” era una condizione del cuore e dell’animo umani. Giada Ferne era teatro; e così Ian Feria. Anche Mila, povera ragazza, prima che si mettesse con la Smithfield. Alcuni l’avevano, altri no: ai vecchi tempi chi non possedeva questo dono ben presto ne usciva. Ma quelli che lo avevano, continuavano ad averlo, anche dopo che il teatro era stato divorato dall’avvento della tecnologia. Ed erano rimasti. Alcuni di loro, come Giada, Ian e Mila si erano adattati al cambio, avevano tratto profitto dalla prostituzione del palcoscenico, guadagnandoci ulcera e coscienza sporca. Ma erano sempre teatro e, poiché lo erano, anche Thornier vi restava, strofinando i pavimenti sui quali loro passavano e sentendo che comunque appartenevano ancora al teatro. Ora stava andandosene. E sentiva dentro di sé ribollire l’antica amarezza. L’amarezza era stata cronica e passiva, e ora minacciava di diventare attiva e acuta.
Se solo potessi fargli vedere un’ultima interpretazione! pensò. Un’ultima grande parte…
Ma questo pensiero lo riportava al fantastico piano di vendetta, il piano che gli tornava spesso alla mente, mentre girava per il teatro deserto. Ma la vendetta non andava bene.
E il piano era soltanto un sogno a occhi aperti. Eppure… non avrebbe avuto mai più un’altra occasione.
Strinse la mascella con aria arcigna e si diresse al magazzino della Smithfield.
L’impiegato del magazzino aveva trasportato il manichino imballato verso l’uscita e stava aspettando Thornier quando questi entrò nel deposito. Lo fece rotolare dal muro sopra un carrello e il custode lo aiutò a sollevare l’imballaggio a forma di bara fino sul bancone.
— Non lo porti ancora sul camion — brontolò l’impiegato intorno al grosso mozzicone di sigaro. — Non ci sono manichini nuovi e lei deve firmarmi una ricevuta assicurativa.
— Quale ricevuta assicurativa?
— Per il caso di cattivo funzionamento. Se il manichino si guasta durante lo spettacolo voi non potete citare la Smithfield. È la prassi normale per l’affitto dei manichini usati.
— E se io non firmo?
— Niente firma, niente manichino.
— Ah. — Ci pensò su un momento. Evidentemente l’impiegato l’aveva preso per uno della produzione. La sua firma non avrebbe avuto alcun valore, ma si stava facendo tardi e Giada aveva fretta. Dal momento che in ogni caso quella ricevuta non avrebbe avuto valore, prese il modulo.
— Aspetti — disse l’impiegato. — È meglio che dia un’occhiata prima, per vedere che rischi corre. — Afferrò una leva e la passò sotto la correggia metallica dell’imballaggio. La correggia si spezzò con un rumore stridente. — È stato imballato esageratamente — continuò l’impiegato. — Gli è stato cambiato il fluido solenoide, un nuovo lavoro di cosmesi. Niente di veramente preoccupante. Alcuni punti consumati nell’imbottitura e un dito del piede che manca. Ma comunque è giusto che ci dia un’occhiata.
Terminò di rompere i legami del coperchio e poi si girò verso un quadro di controllo murale. — Non abbiamo qui un Maestro completo — disse mentre chiudeva un interruttore a coltello — ma abbiamo i trasmettitori di controllo e alcuni nastri magnetici. È sufficiente per provare un manichino.
Da dietro il pannello l’apparecchio prese vita. Mentre Thornier aspettava con impazienza, l’impiegato mise a punto diversi quadranti.
— Vediamo… — mormorò l’impiegato. — Penso che sia meglio cominciare con la scena di Frankenstein. — Abbassò un interruttore.
Dall’interno della cassa a forma di bara venne un ronzio soffocato. Thornier osservò nervoso. Il coperchio si mosse e cominciò a sollevarsi. Apparve una mano di donna che scostò il coperchio. Il ronzio divenne più forte. Il coperchio cadde di lato, trattenuto soltanto dalle corregge metalliche. La donna si mise seduta e sorrise al custode.
Thornier sbiancò in viso. — Mila! — sussurrò.
— Non fa venire i brividi? — sogghignò l’impiegato. — Adesso la scena della sbronza.
— No…