121713.fb2
Stavia osservava la sua immagine quasi fosse un dipinto, dall’esterno, una figura incappucciata che camminava lungo una strada lastricata di pietre lucide a causa della pioggia dell’inizio di primavera.
A ciascun lato della via scorrevano rigagnoli d’acqua piovana producendo gorgoglii simili a risate infantili, ruscelletti divertiti dalla loro stessa natura. Le finestre illuminate dalla luce delle candele si sorridevano l’un l’altra sotto i cornicioni degli edifici inclinati protettivamente in avanti, anche se non abbastanza da impedire alla pioggia di striare le finestre. L’acqua creava l’illusione che le luci piangessero lacrime inconsolabili come accade al termine di un dramma d’amore perduto o non corrisposto.
Come al solito in quelle occasioni, Stavia si sentì come un’attrice che recita in una commedia nuova, incerta sulle battute o sul canovaccio, titubante sul finale. Se pure vi fosse stato un finale… Di fronte a eventi sorprendenti e inaspettati, la parte di lei abituata alla vita quotidiana perdeva spesso il controllo e non poteva far altro che farsi da parte su quel palcoscenico, con la mano leggermente protesa verso le quinte, aspettando l’ingresso di un altro personaggio… una Stavia più abile, più dotata di quella forza, o forse sarebbe stato meglio dire di quella grazia, che gli avvenimenti richiedevano. All’ingresso del nuovo e più maturo personaggio, la parte predominante nella vita quotidiana restava in un angolo a osservare, stupita dall’inusuale complessità dei dialoghi e della scenografia che l’altra parte, l’attrice Stavia, sembrava capace di affrontare. Così, quando, quella sera, era giunta l’inaspettata convocazione di Dawid, la parte di Stavia avvezza solo alla vita quotidiana, si era inchinata per ritrarsi dietro le quinte, lasciando spazio all’altra persona che albergava dentro di lei: la figura scura, incappucciata, che si faceva strada con passo sicuro e privo di esitazioni tra gli appartamenti illuminati, tra i mercati del pesce e della frutta, in direzione della Porta della Battaglia.
Stavia, la parte di lei che rimaneva in osservazione almeno, riservò un particolare interesse alla qualità della luce. Era il crepuscolo. Vedeva il colore grigio delle nubi e il verde cupo delle foglie. Era adatta, quella luce… ben predisposta per rendere l’atmosfera della commedia in scena. Aveva una sfumatura nostalgica. Melanconica pur senza essere profondamente deprimente. Radi raggi di sole al tramonto irrompevano a occidente attraverso la coltre di nubi, formando lunghi fasci di una luce misteriosa, come fari provenienti da un reame celeste alla ricerca di un angelo caduto, o, forse, di un’anima fuggita dall’Ade che tentava disperatamente di trovare la via dei cieli. O forse quei raggi cercavano un peschereccio là, nel mare sempre più scuro, sebbene Stavia non riuscisse a immaginare una ragione per la quale gli abitanti dei cieli potessero aver bisogno di una nave da pesca.
Nei pressi della Fontana della Dolce Fine, il cui rivestimento scolpito era lucido della pioggia che, col il suo gorgogliare, copriva la musica delle fontanelle, la strada cominciava a salire lungo la collina dal Tempio della Signora sino alla piazza delle cerimonie e le mura a nord della città. A livello della strada, sulla destra, una lunga teoria di botteghe artigianali rivolgeva sguardi ciechi al lastricato dalle finestre chiuse: fabbricanti di candele, di saponette, di coperte e rivestimenti. Sul fianco sinistro invece, a nordovest, si apriva un parco che offriva la vista di ampi spazi verdi e scuri, oltre il cono rovesciato del teatro estivo dove Stavia avrebbe recitato la parte di Ifigenia. Non recitato. Vissuto. Vissuto la parte. Come aveva detto qualcuno. Nel teatro estivo. Nel parco.
Una folata di vento marino le portò la fragranza dei fiori e dei pini della primavera ancora agli inizi. Stavia si fermò per un momento, domandandosi cosa avesse in mente il coreagrafo di quella commedia. La raffica di vento doveva ricordarle qualcosa? Quale significato aveva la sensazione di familiarità delle luci delle candele e del gorgogliare dei rigagnoli che l’avevano accompagnata assieme alla dolce tristezza della luce verdastra e alla nebbia intrisa di fievoli fragranze? In realtà era troppo presto per scoprirlo. Forse tutto ciò era predisposto solamente per sviarla, anche se si poteva, peraltro, interpretare come filo conduttore della commedia.
La strada saliva dal fondo della collina al punto in cui attraversava la Piazza dei Guerrieri, il selciato circondato da tre lati da solidi colonnati in quel momento deserti. I portici sovrastati da arcate di pietra erano antichi, strutture che risalivano a un tempo precedente alle Convulsioni. Niente del genere sarebbe stato costruito in quei giorni. Niente di così pretenzioso, di così imponente, di così inutile. La piazza destinata alle grandi cerimonie sembrava ancora più deserta di quanto lo fosse la strada che vi conduceva. Le arcate piangevano per mancanza di spettatori, le pietre lucide della piazza gemevano implorando piedi che vi marciassero sopra, rullare dei tamburi, agitarsi di stendardi e il secco rintocco delle lance picchiate sul terreno in segno di saluto. L’intera piazza singhiozzava quasi fosse un’amante abbandonata.
Oh, sì, Stavia ora poteva dirlo con certezza, quel percorso era il motivo conduttore della commedia. La piazza rendeva evidente il concetto.
Su tre lati della piazza, i colonnati. Sul quarto, le mura turrite, rinforzate da contrafforti, scintillanti di mosaici, interrotte dalla Porta dei Difensori, da quella della Battaglia, e da quella dei Figli dei Guerrieri, sormontata da un trittico di blasoni scolpiti di bronzo che rappresentavano scene di trionfo e di massacri. La Porta dei Difensori si trovava sulla sinistra di questo complesso. La giovane donna vi rimase per un lungo periodo — vedendosi come dalla prima fila di un palcoscenico, con le falde della cappa che si confondevano con il metallo istoriato — prima di protendere il suo bastone per bussare tre volte senza far troppo rumore, come le era stato richiesto. L’aspettavano.
La porticina alla base del grande portale si schiuse, la giovane donna entrò con contegno tranquillo nello stretto corridoio che si apriva al di là del battente. Nella sala dell’assemblea trovò un drappello d’onore. E, naturalmente, Dawid stesso.
Come avrebbe potuto dimenticare che aveva quindici anni? Be’, non l’aveva dimenticato. Lei ne aveva trentasette, quindi suo figlio ne aveva quindici. Aveva avuto ventidue anni quando… quando era accaduto. La pretesa che la chiamata fosse giunta inaspettata era una specie di recita, un futile tentativo di convincersi che, nonostante lei conoscesse bene il canovaccio, avrebbe potuto verificarsi un finale imprevedibile. Malgrado le visite di rito compiute da Dawid per i carnevali — nei quali gli era permesso di tornare a casa due volte all’anno — durante i quali l’iniziale timidezza provocata dalla separazione si trasformava in entusiasmo, poi nuovamente in timidezza per culminare infine, come c’era da aspettarsi, in un distacco non meno doloroso… a dispetto di tutto ciò, aveva scelto di continuare a pensare a suo figlio come aveva fatto quando aveva cinque anni ed era stato affidato alle mani dei guerrieri.
Tuttavia, adesso, doveva guardarsi dal parlargli come si fa a un bambino, poiché di fronte a lei, con la corazza scintillante e l’elmo, non c’era un bambino con le labbra imbronciate. Il bambino era svanito per sempre.
— Dawid — disse in tono formale, inchinandosi appena per mostrare il rispetto che provava nei suoi confronti. — Signori — aggiunse in segno di riguardo verso gli altri presenti. Era necessario concedere loro almeno questo, del resto c’era ben poco d’altro che potesse essere concesso loro. La donna rischiò uno sguardo frettoloso ai visi che spuntavano dalle scintillanti armature, pensando inconsciamente di vedere volti di persone che sapeva non potevano trovarsi in quel luogo. Coloro che si trovavano là erano giovani. Non vi erano visi anziani. Da nessuna parte.
— Signora — disse la voce di uno dei componenti della guardia. Marcus pensò lei, studiando quel poco che poteva scorgere del suo viso tra le guardie del suo elmo a protezione del naso e della guancia. Marcus, probabilmente, sebbene avrebbe potuto essere un altro dei figli di sua sorella Myra, poiché tutti e tre avevano una sconcertante somiglianza, sin da bambini. — Signora — disse il soldato — tuo figlio, il guerriero, ti saluta.
— Ed io saluto il mio figlio guerriero — disse l’attrice Stavia mentre l’osservatrice Stavia piangeva, sebbene solo interiormente e in silenzio come richiedeva la situazione.
— Io ti sfido, signora — disse Dawid; la sua voce era stridula, molto stridula, quasi quella di un bambino e lei sapeva che aveva provato quelle parole ripetendole nelle docce e negli angoli del refettorio con palpitante attenzione, cercando senza dubbio di infondervi l’eco vibrante del comando. Tuttavia la sua voce aveva ancora il tono querulo dell’insicurezza dell’adolescente.
— Davvero? — domandò lei, alzando il capo. — E in quale modo ti ho offeso?
— Durante la mia ultima visita a casa — il giovane impresse alle ultime parole la sfumatura nervosa che pensava avrebbe potuto infondervi solo un guerriero ormai maturo. Disse “visita a casa” come se si trattasse di qualcosa di sporco, forse lo era davvero. — In quell’occasione mi hai suggerito qualcosa di indegno del mio onore di guerriero.
— Davvero? — l’attrice Stavia si mostrò adeguatamente colpita. — Non riesco a ricordare nulla di tutto questo.
— Hai detto — la voce tremava — hai detto che sarei stato il benvenuto alla casa di mia madre se passavo attraverso la Porta del Paese delle Donne.
— Be’, certamente — replicò lei con calma, desiderando che quella farsa terminasse in fretta per potersene tornare a casa a dormire. — Lo saresti come lo sono tutti i nostri figli.
— Signora, ti ho chiamata qui per annunciarti che un tale suggerimento è offensivo per il mio onore. Io non mi considero più tuo figlio. Io sono orgoglioso di affermare di essere figlio dei guerrieri. Io sono diventato un Difensore!
Era così dunque, be’, cosa si era aspettata dopotutto? Tuttavia, ancora per qualche attimo, non fu in grado di rispondere. Stavia l’osservatrice tenne in suo potere l’attrice, solo per quell’attimo, cercando, in quel faccia a faccia, Dawid, bimbo di cinque anni, gran cacciatore di cavallette, suonatore di tonanti tamburi giocattolo, cantore di ninne-nanne, sempre primo nella folle corsa da casa al negozio di caramelle. Cercava quel bimbo con gli occhi seri e le labbra ben disegnate. Ma questi non esisteva più. Non più.
No, ora era diventato un uomo tutto bronzo e cuoio. Nella parte superiore del braccio recava inciso il tatuaggio della guarnigione di Marthatown. Si era tagliato il mento radendosi, sebbene la sua pelle avesse ancora l’aspetto di quella di un bimbo. Pronto per l’amore. Pronto per il massacro.
Va’ avanti, gemette Stavia l’osservatrice.
— Allora trattieni le tue lamentele, Dawid, figlio dei guerrieri; non hai più bisogno di venire in visita da noi. — Ci fu una pausa dopo quelle parole che non erano obbligatorie ma che era stata spinta a pronunciare. Lascia che si renda conto che questa frase trancia tutti i ponti. — Tu non sei mio figlio. — S’inchinò, credendo per un attimo che il capogiro che l’aveva improvvisamente colta le avrebbe impedito di ritrovare la strada, ma in seguito l’attrice riprese possesso di lei, trovando la via quasi per istinto. Alle donne non era permesso tornare attraverso la Porta dei Difensori. C’era un corridoio sulla sinistra, si disse, ricordando ciò che le avevano detto e cercando di percorrerlo con passo regolare, senza cambiare ritmo, senza rallentare o affrettarsi. Neppure il sibilo alle sue spalle riuscì a farle fretta. Era il sibilo di un serpente ma era stato emesso solo da poche labbra, o forse da un paio solo, e non si trattava certo di quelle di Dawid. Stavia aveva rispettato le regole sin dalla nascita di Dawid e tutti quegli automi coperti di metallo lo sapevano. Non avevano ragione di lanciare contro di lei quei sibili per insultarla, solo i più zelanti l’avrebbero fatto. A dispetto di questi, non avrebbe affrettato il suo passo. No, no e no, la cerimonia doveva essere rispettata, se era necessaria.
E poi, davanti a sé, al termine dell’angusto corridoio, la vide per la prima volta, la porta che era all’origine di tutta quella confusione, stretta e poco appariscente. La Porta del Paese delle Donne era una semplice tavola di legno lucidato, con una placca di bronzo sulla quale era raffigurato lo spettro di Ifigenia che cullava un bambino davanti alle mura di Troia. Sulla destra vi era un pomolo di bronzo a forma di melograno, posto in basso in modo che anche una donna di bassa statura avrebbe potuto aprirlo con facilità. Lo cercò con gli occhi, il pollice abbassò il pomolo e la porta si schiuse leggermente, ben oliata come sempre.
Nella piazza circondata dalle arcate che si apriva oltre la porta il vecchio Septemius Bird la stava aspettando con le nipoti, Kostia e Tonia, delle quali, da lungo tempo, aveva imparato a trovare familiare e ad amare l’aspetto esotico di gemelle. Sebbene non fossero sue amiche sin dall’infanzia, ora erano suoi vicini, e Morgot doveva averli avvertiti che era venuto anche per lei il momento della chiamata. C’era anche Beneda, anche se Stavia non aveva realmente desiderio di vederla, non in quel momento. Ma Beneda era anche lei una vicina, e, in qualche modo, era affezionata a Dawid. Be’, ne aveva ragione, in un certo senso. Del resto Beneda era affezionata a un mucchio di cose.
— Sei sola? — chiese. Beneda era una maniaca delle domande retoriche e delle frasi fatte puramente interlocutorie, e aveva la necessità di riempire tutte le pause di silenzio con piccole esplosioni di suoni, come una fila di fuochi artificiali che una volta accesa non può impedirsi di esplodere, senza dubbio per tenere lontani i demoni. Così ripeté quasi a se stessa. — Ah, bene, Stavia, così ritorni sola come feci a mia volta e come tutte noi abbiamo fatto. Ci dispiace per questo, Stavia. Ci dispiace profondamente.
Stavia, che un tempo le aveva voluto bene e che ancora gliene voleva, desiderò pregarla di tacere ma si limitò a sorridere sfiorandole la mano, sperando che Beneda si sarebbe azzittita, senza aver altro da dire. Cosa d’altro restava da aggiungere? Non si erano dette tutto una all’altra, all’infinito?
Septemius, d’altro canto, sapeva come mostrarsi di conforto. — Vieni, dottoressa. Sono sicura che non ti aspettavi che andasse diversamente e le mie ragazze sono andate alla Fontana della Dolce Fine a raccogliere l’acqua… C’è una tazza di tè che ti aspetta.
Il braccio di Septemius posato sulle sue spalle era solido e forte come se appartenesse a un uomo con la metà dei suoi anni. Dopo Corrig, che, in quanto servitore non poteva mostrarsi nella piazza assieme a lei, Septemius era la persona che riusciva a esserle più di conforto.
Mentre facevano ritorno per le strade vuote, Stavia l’osservatrice, nuovamente in pieno possesso delle sue facoltà, notò la qualità della luce. L’atmosfera che fino a poco prima avrebbe potuto definire nostalgica e dolcemente melanconica era ora livida e triste. La luce era simile a una ferita e come una ferita pulsava. Se non fosse stato per il braccio del vecchio intorno alle spalle, Stavia non avrebbe potuto compiere i pochi passi che la separavano dalla sua casa dove Morgot e Corrig l’aspettavano con il tè, e dove le sue bambine, Susannah e Primavera attendevano di porle le loro domande.
— Così Dawid ha scelto di rimanere con i guerrieri, madre? — Susannah aveva tredici anni adesso, i suoi lineamenti stavano diventando quelli di una donna, con seri occhi scuri sopra una mascella volitiva.
— Sì, Susannah, come pensavamo che avrebbe fatto — disse Stavia, dicendo loro quella verità che aveva rifiutato di ammettere con se stessa. Non aveva lasciato veramente che nella sua mente si facesse strada l’idea che suo figlio sarebbe rimasto coi guerrieri, anche se Joshua e Corrig erano convinti che ciò sarebbe avvenuto.
— Vorrei che, per la tua sicurezza, fosse venuto a casa con noi — disse Primavera ripetendo una frase che aveva sentito dire dagli adulti. Primavera aveva solo undici anni, era ancora una bimba. Sarebbe diventata più snella di Susannah e anche più carina. Per Stavia guardare Primavera era come guardare nello specchio del proprio passato. La ragazzina aggiunse il suo intuitivo commento: — Lo sapevo che non sarebbe tornato. In fondo, non gliene è mai importato nulla di noi.
“Lo sa meglio di me”, pensò Stavia, immergendosi nello sguardo di Primavera.
— A cosa stai pensando? — le domandò Corrig mentre le scaldava il tè.
— A me, quando avevo l’età di Primavera — rispose lei. — Molto prima di conoscerti. Pensavo alla mia prima visita alla Porta dei Guerrieri quando portammo il mio fratellino, Jerby, dal suo padre guerriero. — Si volse verso la madre, mormorando: — Ricordi, Morgot? Quando tu, Beneda, Sylvia e io portammo Jerby alla porta?
— Oh, è stato molto tempo fa — disse con un piccolo sospiro Beneda che aveva sentito tutto. — Lo ricordo bene. È stato molto tempo fa.
— Ricordo — disse Morgot, con il viso attraversato da una sorta di attenta concentrazione. — Oh, sì, Stavia. Naturalmente lo ricordo.