120717.fb2 Alea iacta est - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

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Immediatamente a Joe tornò in mente l’idea di un foro grande quanto un tavolo e che attraversava tutta quanta la terra. Questo avrebbe voluto dire che i dadi rotolavano per fermarsi su una superficie trasparente e liscia, impenetrabile a essi ma non ad altro. O forse erano solo le dita della ragazza dei dadi che riuscivano a penetrare quella superficie, il che faceva diventare una fantasia la visione precedente di un giocatore ripulito che si tuffava in quell’orrendo pozzo senza fine, al cui confronto perfino la miniera più profonda era solo un buco di spillo.

Joe decise che doveva scoprire quale ipotesi fosse vera. A meno che non fosse assolutamente inevitabile, non voleva correre il rischio di essere distratto dalla vertigine in una fase saliente del gioco.

Così fece di tanto in tanto qualche altro lancio modesto, limitandosi a brontolare tanto per dare un tocco di realismo: — Su, forza piccolo Joe. — Alla fine si decise. Quando alla fine fece il punto… il più difficile, con due due, fece piroettare i dadi nell’angolo opposto in modo da farli fermare esattamente davanti a lui. Infine, dopo una pausa appena sufficiente per mostrare il risultato del lancio agli altri, infilò la mano sotto i dadi, appena un istante prima che la ragazza dei dadi si muovesse, e li sollevò.

Fiuuu! Mai in vita sua Joe aveva faticato tanto a controllare il viso e i modi così da nascondere quello che il suo corpo sentiva, neppure quando la vespa l’aveva punto sul collo proprio quando aveva infilato per la prima volta la mano sotto la gonna della sua incostante, pudica ed esigente futura Moglie. Le dita e il dorso della mano gli facevano un male tremendo, come se li avesse infilati in una fornace… Ecco perché la ragazza aveva quei guanti bianchi; dovevano essere di amianto. E fortuna che non aveva usato la mano impiegata per lanciare i dadi, pensò, mentre osservava la mano riempirsi di vesciche.

Ricordò allora come a scuola gli avessero insegnato qualcosa che poi la Miniera di Twenty Mile gli aveva dimostrato: e cioè che sotto la crosta della terra covava un calore terrificante. Il buco a forma di tavolo dei dadi doveva servire a incanalare quel calore, in modo che ogni giocatore che avesse fatto il Grande Tuffo sarebbe bruciato prima di aver percorso duecento metri e sarebbe uscito, ormai ridotto in cenere, in Cina.

Ma come se non bastasse quella mano coperta di vesciche, adesso i Grossi Funghi avevano ripreso tutti quanti a sibilare contro di lui, e Mister Bones, di nuovo paonazzo in volto, stava per aprire quella boccaccia grande quanto un melone per chiamare i suoi scagnozzi.

Ancora una volta però il Grande Giocatore alzò la mano salvando così Joe. Con voce suadente e delicata l’uomo disse: — Glielo dica, Mister Bones.

Quest’ultimo ringhiò, rivolto a Joe: — Nessun giocatore può raccogliere i dadi buttati da lui o da qualsiasi altro giocatore. Solo la ragazza addetta può farlo. È il regolamento della casa!

Joe fece appena un cenno d’assenso in direzione di Mister Bones e disse freddamente: — Punto un centesimo meno due — e quando quella misera puntatina fu coperta, lanciò Phoebe non per il punto ma dilungandosi in lanci di ogni genere, facendo uscire di tutto tranne il cinque o il sette, aspettando che il dolore alla mano sinistra svanisse e lui ritrovasse i nervi saldi. Non aveva riscontrato la minima alterazione nella potenza della sua mano destra; la sentiva forte come sempre, forse addirittura di più.

A metà di questo interludio, il Grande Giocatore fece un leggero inchino, ma rispettoso, all’indirizzo di Joe, sempre nascondendo quelle sue orbite imperscrutabili, prima di girarsi per prendere una lunga sigaretta nera dall’accompagnatrice più carina, ma anche dall’aria più perfida. Era caratteristica del maestro dei giochi d’azzardo mostrare la cortesia in ogni gesto, pensò Joe. Il Grande Giocatore aveva certo una corte di duri, anche se, mentre si apprestava a lanciare i dadi, Joe notò oziosamente un individuo all’estremità del gruppo che stonava. Un tipo rozzamente elegante con capelli scarmigliati, gli occhi fissi e le guance maculate dalla tbc, da poeta.

Mentre osservava il filo di fumo che saliva da sotto il cappello nero, Joe decise che o le luci dalla parte opposta del tavolo si erano abbassate o la carnagione del Grande Giocatore era più scura di quanto gli era dapprima sembrato. O forse, assurda fantasia, la pelle del Grande Giocatore si stava lentamente scurendo quella sera, come una pipa di schiuma fumata ad altissima velocità. Un pensiero quasi divertente. Effettivamente lì dentro faceva abbastanza caldo da scurire la semiolite, come Joe sapeva da tristi esperienze, ma da quanto poteva giudicare il calore sembrava stazionare tutto sotto il tavolo.

Pur con tutta la sua ammirazione nei confronti del Grande Giocatore, Joe non riusciva minimamente a sottovalutare l’enorme pericolo rappresentato dall’uomo in nero e dalla convinzione che toccarlo sarebbe equivalso a morire. E se ancora avesse nutrito qualche dubbio, l’agghiacciante episodio che seguì glielo avrebbe senz’altro tolto.

Il Grande Giocatore aveva appena agguantato la sua partner più carina e più perfida, facendole scorrere un’aristocratica mano sul fianco con un gesto da gentiluomo, quando il poeta, con gli occhi verdi per la gelosia e l’amore, si lanciò in avanti come una belva, vibrando un lungo pugnale lucente verso la schiena rivestita di satin nero.

Joe non riuscì a capire come il colpo potesse aver mancato il bersaglio, ma il Grande Giocatore, senza togliere la sua aristocratica mano dal lussureggiante posteriore della ragazza, fece saettare il braccio sinistro come una molla non più trattenuta. Joe non riuscì a capire se avesse pugnalato il poeta alla gola o gli avesse sferrato un colpo di taglio di judo o la doppia ditata marziana, oppure l’avesse solo toccato, ma, in ogni caso, il tizio crollò al suolo, colpito a morte, come abbattuto da un silenzioso fucile per elefanti o da una pistola a raggi invisibili. Poi arrivarono di corsa due negri che portarono via di peso il cadavere, senza che nessuno badasse minimamente a loro, visto che tali episodi erano la norma al Boneyard.

La scena scosse parecchio Joe che per poco non tirò Phoebe prima di quanto intendesse.

Ma ormai il suo braccio sinistro non era più percorso dalle fitte di dolore e i suoi nervi erano come nuove corde di chitarra rivestite di metallo, per cui, dopo tre lanci, fece un cinque, conquistando il punto, e si dispose a ripulire il tavolo.

A quel punto ottenne nove lanci naturali di seguito, ottenendo sette sette e due undici, accumulando sulla fiche di partenza una montagnola di oltre quattromila dollari. Nessuno dei Grossi Funghi aveva ancora mollato, ma alcuni di loro cominciavano ad apparire preoccupati e un paio sudavano abbondantemente. Il Grande Giocatore seguiva con interesse il gioco con le sue profonde caverne orbitali, anche se non aveva ancora coperto una puntata di Joe.

Poi Joe ebbe un’idea demoniaca. Nessuno era in grado di batterlo quella notte, ne era sicuro, ma non sarebbe mai riuscito a vedere il Grande Giocatore sbandierare la sua abilità se avesse continuato a giocare fino a ripulire il tavolo, e la cosa lo incuriosiva parecchio. E poi, in fin dei conti, doveva ricambiare le cortesie e dimostrare di essere anche lui un gentiluomo.

— Punto quarantun dollari meno un nichelino — annunciò. — Un penny sul gioco.

Questa volta non si sentirono sibili e il faccione tondo di Mister Bones rimase sereno. Ma Joe era conscio che il Grande Giocatore lo guardava deluso, o addolorato, o forse stava solo riflettendo.

Joe immediatamente andò fuori gioco tirando un doppio sei, rallegrandosi di vedere i due teschietti migliori sogghignanti l’uno di fianco all’altro, coi rubini per denti, e i dadi passarono al Grosso Fungo di sinistra.

Un altro Grosso Fungo borbottò ammirato, anche se con riluttanza: — Ha capito quando la serie fortunata è finita.

Le puntate non si alzarono di molto; nessuno era veramente accanito e il gioco fece rapidamente il giro del tavolo. — Una pinna. Dieci dollari. Un Andrew Jackson. Trenta dollari. — Joe, che stavolta copriva una puntata più spesso vincendo che perdendo, accumulò settemila dollari, soldi veri, prima che i dadi arrivassero al Grande Giocatore.

L’uomo tenne i dadi per un lungo istante sul palmo della sua mano ferma e bianca, fissandoli assorto, ma sulla sua fronte quasi bruna, su cui non si era mai vista una stilla di sudore, non era visibile la minima increspatura. Poi mormorò: — Punto un doppio dieci — e dopo che la sua scommessa fu accolta, chiuse le dita, scosse leggermene i dadi, che risuonarono come i semi di una zucca semidisseccata, e li buttò con noncuranza verso l’estremità del tavolo.

Mai Joe aveva visto prima d’allora un lancio simile a un tavolo da gioco; i dadi schizzarono in aria, senza roteare, urtarono esattamente il punto d’unione tra la sponda e il feltro nero e lì si fermarono di botto: un sette naturale.

Joe ne fu nettamente deluso, perché per ognuno dei suoi lanci era solito calcolare uno schema preciso, per esempio: “lanciare il tre verso l’alto, il cinque a nord; due giravolte e mezza in aria, urtare con l’angolo del sei-cinque-tre, un giro di tre quarti, con torsione a destra di un quarto, colpire l’estremità con lo spigolo uno-due, mezzo giro a rovescio e torsione a sinistra di tre quarti, ricadere sulla faccia del cinque, doppia rotazione e uscita del due” e questo valeva solo per uno dei dadi, e in realtà si trattava di un lancio del tutto normale senza particolari rimbalzi.

La tecnica del Grande Giocatore era, al confronto ridicola, oltre che abissalmente, orribilmente semplice. Joe sarebbe stata in grado di imitarla con la massima facilità, naturalmente. In fondo non era che una forma elementare del suo vecchio passatempo: quello di rispedire i frammenti di roccia nei loro buchi. Ma a Joe non era mai passato per la testa di ricorrere a un trucco così banale a un tavolo da gioco, perché avrebbe reso tutto troppo facile, rovinando l’armonia del gioco.

Oltretutto Joe non era mai ricorso a quella tecnica, ritenendo che non sarebbe mai riuscito a farla franca. Stando alle regole di sua conoscenza, si trattava di un lancio alquanto discutibile. Poi c’era la possibilità che uno dei dadi non arrivasse a toccare la sponda opposta, oppure si fermasse contro di essa rimanendovi inclinato. E poi, ricordò a se stesso, i due dadi non dovevano forse per regolamento rimbalzare dalla sponda, anche se solo per una frazione di centimetro?

Comunque, da quanto Joe poteva giudicare coi suoi occhi acuti, i due dadi erano appoggiati alla sponda e perfettamente in piano. E soprattutto, tutti i presenti sembravano accettare quel lancio, la ragazza dei dadi li aveva raccolti e i Grossi Funghi che avevano accettato la puntata dell’uomo in nero stavano pagando il dovuto. Per quanto poi riguardava la regola del rimbalzo, be’, il Boneyard sembrava dare un’interpretazione leggermente diversa da quella regola e Joe accettava sempre senza obiezioni il Regolamento della Casa; infatti, sua Madre e sua Moglie gli avevano dimostrato che era il metodo più semplice per stare alla larga dei guai.

E del resto, non aveva puntato personalmente contro quel lancio.

A quel punto, sentenziando con una voce simile al vento che ulula sul Cypress Hollow o su Marte, il Grande Giocatore annuncio: — Punto un centone. — Diecimila dollari, la puntata più alta di quella sera, e da come lo disse il Grande Giocatore sembrò una cosa ancora più grandiosa. Sul Boneyard scese il silenzio, i jazzisti misero la sordina alle cornette, i croupier cominciarono a fare i loro annunci in toni smorzati, le carte cadevano sui tavoli con dolcezza e perfino le palline delle roulette sembrava che cercassero di fare meno rumore mentre cadevano nelle loro cellette. La folla attorno al Tavolo Numero Uno aumentò il proprio silenzio. Il Grande Giocatore era circondato da due anfiteatri dei suoi aggregati di entrambi i sessi che gli assicuravano libertà di movimento.

La puntata del centone, si rese conto Joe, superava la sua pila di almeno tremila dollari e tre o quattro dei Grossi Funghi cominciarono a scambiarsi segnali prima di mettersi d’accordo su come coprire la puntata.

Il Grande Giocatore lanciò un altro sette naturale esattamente con la stessa tecnica del lancio piatto che si concludeva con un brusco arresto.

Puntò un altro centone e uscì la stessa combinazione.

E poi ancora.

E ancora.

Joe cominciava a sentirsi sempre più coinvolto e anche piuttosto indignato. Gli sembrava ingiusto che il Grande Giocatore dovesse continuare a vincere somme incredibili con quei lanci così meccanici e privi di romantica fantasia. Non si poteva neppure parlare di far rotolare i dadi, perché non roteavano mai di uno iota né in aria né sul tappeto. Era il tipo di cosa che ci si poteva aspettare da un robot, anzi da un robot programmato in modo molto rozzo. Joe, che fino a quel momento non aveva ancora azzardato una fiche, prima o poi, se le cose avessero continuato così, sapeva che avrebbe finito col farlo. Due dei Grossi Funghi si erano già dichiarati battuti e si erano ritirati, fradici di sudore, dal tavolo, senza che nessuno ne prendesse il posto.

Fra poco sarebbe arrivata una puntata che i Grossi Funghi superstiti non sarebbero stati in grado di coprire completamente tra di loro e allora anche lui avrebbe dovuto arrischiare qualcuna delle sue fiches o ritirarsi dal gioco, ma quest’ultima cosa non avrebbe potuto farla, con la forza che gli invadeva la mano destra come una saetta di fuoco.

Joe aspettò a lungo per vedere se qualche giocatore criticasse i lanci del Grande Giocatore, ma nessuno lo fece, e si rese conto che, nonostante i suoi sforzi per apparire imperturbabile, la sua faccia stava lentamente imporporandosi.

Mentre la ragazza si chinava per raccogliere i dadi, il Grande Giocatore la bloccò sollevando leggermente la mano sinistra, mentre i suoi occhi, simili a profonde pozze nere, fissavano Joe che si costrinse a sostenere quello sguardo senza deflettere. E poi, mentre si chiedeva perché non riuscisse a cogliere il minimo bagliore in essi, provò improvvisamente un terribile sospetto.

Con la più grande civiltà e in tono estremamente amabile, il Grande Giocatore sussurrò: — Credo che quel bravissimo acrobata di fronte a me nutra dubbi sulla validità del mio ultimo lancio, anche se è troppo gentiluomo per commentare. Lottie, il test della carta.

La ragazza dei dadi, esile fantasma d’avorio, prese una carta da gioco di sotto il tavolo e, facendo balenare velenosamente i suoi bianchi dentini, la fece volteggiare al di sopra del tavolo in direzione di Joe. Questi la prese e la esaminò un attimo. Era la più sottile, lucida e rigida e lucente carta da gioco che Joe avesse mai visto: un jolly, se pur questo voleva dire qualcosa. Joe la rifece volteggiare pigramente in mano alla ragazza e questa la fece scivolare con estrema delicatezza lungo la sponda contro la quale si trovavano i due dadi, attirata in basso dal suo stesso peso. La carta si arrestò nel minuscolo incavo che i loro spigoli arrotondati formavano contro il nero feltro. La ragazza la spostò delicatamente, senza forzare, per dimostrare che in ogni punto non c’era spazio tra i dadi e l’estremità del tavolo. — Soddisfatto? — chiese il Grande Giocatore, Joe annuì con riluttanza, mentre il Grande Giocatore si inchinava. La ragazza atteggiò le sottili labbra a un sorriso ironico e si raddrizzò puntando i pomellini di ceramica dei seni contro Joe.

Con indifferenza, quasi con un atteggiamento di noia, il Grande Giocatore riprese a puntare altri centoni e a ottenere sette naturali. I Grossi Funghi cedettero rapidamente e a uno a uno si allontanarono dal tavolo. Un Boleto velenoso dal volto particolarmente congestionato ricevette un rifornimento di denaro da un commesso arrivato di corsa, ma tutto fu inutile e gli servì solo a perdere altri centoni. Intanto le torri di fiches chiare e scure accanto al Grande Giocatore diventavano autentici grattacieli.

Joe, sempre più furioso e spaventato, osservava come un falco o un satellite spia i dadi accoccolati contro la parete di fondo, senza riuscire a trovare un motivo valido per chiedere un’altra dimostrazione della carta, né si azzardava a criticare il Regolamento della Casa a quel punto del gioco. Era esasperante, anzi lo faceva addirittura ammattire, sapere che se solo fosse riuscito a riprendere ancora una volta i dadi sarebbe riuscito a fargli compiere acrobazie attorno a quel nero pilastro di distaccata aristocrazia. Si insultò in mille modi per quello stupido impulso suicida e sbruffonesco che l’aveva spinto a mollare i dadi quando li aveva ancora in mano.

Per peggiorare le cose, il Grande Giocatore aveva cominciato a fissarlo con occhi che sembravano miniere di carbone. A quel punto fece tre lanci di seguito senza neppure guardare i dadi né la parete opposta, o almeno così parve a Joe. Tutta la faccenda stava diventando più terribile della Moglie o della Madre di Joe… che lo fissavano sempre, in continuazione.

Ma la fissità di quegli occhi che non erano occhi gli infiltrava soprattutto una sensazione di terrore. Così un terrore soprannaturale andò ad aggiungersi alla certezza della mortale pericolosità del Grande Giocatore. Con chi era andato a mettersi a giocare quella sera? continuava a chiedersi Joe. Curiosità e timore lo attanagliavano, una curiosità terrificante, forte quanto il suo desiderio di afferrare i dadi e vincere. I capelli gli si drizzarono sulla testa e sentì di avere la pelle d’oca in tutto il corpo, anche se la forza continuava ancora a pulsare nella sua mano come una locomotiva frenata o un razzo sul punto di staccarsi dalla rampa di lancio.

Nello stesso tempo il Grande Giocatore rimaneva all’altezza della sua immagine… un’immagine di raffinata eleganza in nero, dalla giacca di satin al cappello floscio, gentiluomo cordiale, mortale. Anzi, il lato peggiore della situazione in cui si trovava Joe era che, dopo aver ammirato per tutta notte lo spirito sportivo del Grande Giocatore, doveva ora ridimensionarlo dopo quei lanci meccanici e cercare di sorprenderlo su qualche dettaglio tecnico.

I Grossi Funghi continuavano a cadere senza sosta; i posti vuoti si erano ormai fatti più numerosi dei Boleti e alla fine, di questi ultimi ne rimasero solo tre.

Il Boneyard si era ammutolito come Cypress Hollow o la Luna. Niente più musica, né risatine allegre né stropiccio di piedi, né gridolini di ragazze infreddolite né tintinnio di bicchieri o di monete. Tutti sembravano essersi raccolti al gran completo attorno al Tavolo Numero Uno.

Stress, ribellione, disprezzo, speranze inconcepibili, curiosità e paura sconvolgevano Joe. Specialmente le ultime due.